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Autore: Kerberos 1001    22/11/2016    0 recensioni
Una vita tranquilla lontano dal tumulto, in un luogo ritirato dal mondo, è apprezzabile: ci si può dedicare alle proprie attività preferite, regolando i tempi in funzione delle proprie necessità. Soprattutto quando sei un veterano di mille battaglie. Ma che succede quando, per aver prestato soccorso ad una sconosciuta, il mondo che hai lasciato torna improvvisamente a ricordarsi di te?
Genere: Azione, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Il sole spunta dall’arco dei monti in un tripudio di viola e azzurro, confinando le stelle in una pozza di buio riflessa nel lago, là dove le pareti a picco formano strettissimi fiordi.

Cosa ci sarà oltre quelle cime? È una domanda oziosa: sappiamo benissimo che non c’è modo di andare a scoprirlo, il lago è troppo vasto, i sentieri impervi si interrompono all’improvviso sul nulla, troppo rischio, nessun guadagno. Meglio starsene qui, rincantucciati al caldo di un bel fuoco, i piedi allungati sulla cassapanca sotto la finestra, ad ammirare quel grandioso panorama, le mani occupate ad intagliare qualcosa, qualsiasi cosa, dal ceppo preso a caso dalla legnaia: la nostra vita è questa, dopo che ci è stato concesso di ritirarci, pacifica, serena, un po’ monotona, forse, ma a me non dispiace, anzi!

Fa freddo, nella valle, nonostante la catena che ci ripara dai venti impetuosi d’alta quota, tanto freddo: per questo ogni mattina, prima di ogni altra cosa, tiriamo a sorte per vedere chi deve uscire a rimpinguare la provvista di legna da ardere; il fortunato deve vestirsi – strati di lana, cotone, pelliccia più guanti, scarponi e cappello – andare all’ingresso posteriore, assicurandosi di chiudere bene le doppie porte alle sue spalle, ed incamminarsi lungo il solco ghiacciato che porta alla tettoia che serve da riparo alla riserva di ciocchi già tagliati in misura, pronti per essere piazzati sugli alari e accesi alla brace di quelli consumatisi nella notte. Due bracciate di legna, non di più: questo è quanto si può portare indietro da ogni viaggio, avendo la sicurezza di non rischiare il congelamento lungo il percorso. Eppure … è così bello rimanere a guardare le nubi di vapore del tuo respiro che filtrano dalla sciarpa e salgono dritte in cielo come fumo bianchiccio, in forme fantastiche sempre nuove e diverse! Forse è per questo motivo, perché mi piace osservarle, immobile, in quel preciso punto a metà strada tra la legnaia e la casa da dove posso scorgere la distesa gelata del lago incorniciata da un maestoso arco di ghiaccio, roccia e neve, che gli altri ultimamente mi escludono dal sorteggio: una buffonata inutile, so benissimo per quanto posso restare là fuori, non ho mai costretto nessuno a venire a cercarmi! Ma tant’è, se a loro sta bene addossarsi un turno in più, problemi loro.
In compenso, io mi rendo utile dentro, preparando la colazione e teiere calde appena oltre le doppie porte per chi esce; lavoro breve, poco impegnativo, che mi lascia tutto il tempo che desidero per scolpire e fantasticare nel mio angolo alla finestra. Questa volta è un unicorno, un po’ grezzo, d’accordo, ma riconoscibile: ora non mi resta che rifinirlo, per aggiungerlo a tutti gli altri che stanno in fila sopra l’architrave. Mi chiedo: quanti saranno alla fine?

Gelo, ovunque. Solo questo, e nient’altro. Un incidente? Un sabotaggio? Ma perché, per quale motivo? La loro era solamente una crociera esplorativa, quasi un viaggio di piacere: che motivo ci sarebbe stato di sabotarli? Nessuno, vero? Già, nessuno.
Un brivido, doveva muoversi, subito, prima di congelare … ma per andare dove? Là attorno c’erano solo roccia, ghiaccio e abeti piegati dalla neve: nessuna strada, nessun sentiero, solo … Un filo di fumo? Proveniente da una casa? Doveva provenire da una casa! Doveva, assolutamente, altrimenti sarebbe morta!

Impossibile proseguire: troppo stanca, troppo freddo, nonostante la neve che continua a cadere copiosa, mitigando un po’ il gelo penetrante delle ultime ore. Un riparo, solo per poco, per riprendere fiato, dormire un poco … No! Non può addormentarsi, non sotto la neve: addestramento di base, lo sanno anche i pivelli! Però è così stanca … Scostando un ramo, eccola: il fumo che aveva intravisto era veramente una casa, allora! Certo, dista ancora qualche centinaio di metri, ma perlomeno ora ha un obiettivo, potrà chiedere aiuto. Riposare. Riscaldarsi! Oh, sì, dannazione!, soprattutto questo: riscaldarsi, anche se solo davanti ad un misero fuoco di legna! Scivola, perde l’equilibrio, ruzzolando e rotolando lungo il pendio innevato, sino a fermarsi conto un palo con un urto violento che le fa espellere in un colpo solo tutto il fiato che le era rimasto in corpo: tossendo e sputacchiando, intravvede nella neve una tettoia a coprire delle cataste ordinate di legna; un riparo, rozzo, inconsistente, proprio quello che cercava, anche senza fuoco. Acciaccata e dolorante, striscia lentamente tra due cataste, si accomoda alla meglio sulla segatura e, confortata un poco dal ricco odore di legno resinoso, alla fine cede e si addormenta.

Questa mattina tocca a me! Ho insistito, non era giusto che mi impedissero di uscire per una ragione insignificante e che poi me lo rinfacciassero a mezza bocca! L’aria è talmente limpida che è quasi un delitto respirarla, rendendo tutto più nitido e luminoso: quasi quasi sono tentato di fermarmi all’arco anche all’andata …
Sto scherzando: se lo facessi, questa volta mi impedirebbero veramente di uscire a vita! È nevicato, durante la notte, e molto, anche! Il crocchiare della sottile crosta gelata in superficie accompagna ogni mio passo, gli stivali lasciano impronte nitide, mi chiedo perché lo strato non sia più spesso, come nel resto della valle. I pini forse? Sporgono sul sentiero dal pendio sovrastante, come una tettoia … Pensieri oziosi che mi frullano per la testa fino alla legnaia, finalmente, dove potrò scegliere … Ehi! Un momento! Cos’era quel suono? Sembrava … un gemito? Qui?! Sì, qui. E se qualcuno sta gemendo, è probabile che abbia bisogno di aiuto e … È bellissima! Io …
Ma a cosa sto pensando? È mezza congelata! Devo portarla subito dentro al caldo prima che muoia assiderata! Correre sul ghiaccio è improponibile, ma io non ho tempo, così che mi arrangio slittando e cercando di mantenere l’equilibrio camminando più veloce che posso. Una trentina di voli mancati più tardi, sbatto in maniera poco onorevole contro la porta esterna della nostra abitazione; apertala in qualche modo, mi infilo nell’anticamera, chiudendomela alle spalle con un calcio: lei respira ancora, debolmente, mentre il suo corpo inizia a fumare sotto i vestiti per lo sbalzo termico improvviso … Non va bene! Non va bene per niente: se adesso la porto dentro, rischio di ucciderla! Cosa fare? Ragiona, stupido che non sei altro, ragiona! Ecco, sì, questo dovrebbe andare: con calma, mi siedo sul pavimento rivestito di larice, la schiena contro il tramezzo interno. «Temo che dovremo aspettare.» le sussurro avvolgendola meglio che posso nella pelliccia «Almeno per un po’!»

Le discussioni continuano imperterrite al di là della porta intarsiata, ronzio di api infuriate con un unico argomento di fondo. Rannicchiandosi maggiormente sotto le coperte, cerca inutilmente di attutirne il suono, ma sa benissimo che non servirà a nulla; una lacrima le solca la guancia, perdendosi nel ruvido tepore delle lenzuola grezze … Perché? Per quale motivo è capitata laggiù? Lei, sola. Gli altri … dove saranno in questo momento?
La porta si apre, lasciando entrare un fiotto di urla e rimbrotti: «Ma andate al diavolo! Tutti quanti!», e poi si richiude, sbattendo talmente forte da far tremare le pareti. «Stupidi, dannati egoisti! Capaci soltanto di pensare a se stessi!» Passi nella stanza, resi elastici e felpati dallo spesso tappeto di pelliccia, girano tutt’attorno al letto, fino a fermarlesi proprio di fronte.
«Così prendi freddo … Ecco! Ora va meglio!» Le ha rimboccato la coperta, senza cercare di scoprirla, di stanarla dal suo patetico nascondiglio. «Ti lascio la colazione qui accanto, ma devi mangiare di più, altrimenti non ti alzerai mai da quel letto!» Le sfiora una spalla, attraverso le coltri: «Non preoccuparti di loro: non ti faranno niente. Abbaiano e sbraitano, ma non sono poi così male in fondo!» Passi che si allontanano, lo scatto della serratura: «Sai, sono contento di averti portata qui, di averti trovata … dopo tutto questo tempo …» Le ultime parole muoiono al chiudersi sommesso della porta. Sporge la testa da sotto le coperte, cercando una boccata d’aria fresca, e vede il vassoio sullo sgabello di legno intagliato accanto al letto; mentre mangia, sforzandosi di non ingurgitare il cibo come un’affamata, mantiene lo sguardo fisso sulla porta, i pensieri che turbinano senza posa, senza riuscire a fissarsi su alcunché.

La vita quaggiù può anche essere piacevole, dopo tutto. Ad esempio, quando usciamo per la caccia, avventurandoci sulle alture che circondano la nostra casa, capita a volte di imbatterci in qualcosa di nuovo: un paesaggio; la forma di un mucchio di neve scolpito dal vento; rocce rotolate a valle dalla cima dei monti sovrastanti congelate in sculture barocche dal gelo della notte appena trascorsa; i miliardi di riflessi che il sole trae dalle onde che increspano il lago: piccole cose che riempiono il cuore di gioia, mentre resto lì fermo a contemplarle, in attesa della preda; non cacciamo per piacere o per sport, sia chiaro: lo facciamo perché è strettamente necessario alla nostra sopravvivenza, perché ci serve cibo, e qui non crescono altro che foreste e licheni in lunghe barbe silenti.
Appostato dietro un tronco, oppure seduto su di un masso sulla stretta spiaggia ghiaiosa cinquanta metri sotto casa, godo di queste meraviglie, riflettendo sulla fortuna che abbiamo avuto nel trovare questo angolo di mondo, tranquillo ed isolato, dove poter riposare in pace. Mentre attendo che un salmerino abbocchi, sotto la tettoia mobile che abbiamo approntato per queste occasioni, perdo coscienza del tempo, lo sguardo fisso su di uno sperone innevato laggiù, sull’altra riva, cercando di decidere a quale degli animali che vivono qua attorno somigli di più, mentre i ricordi rifluiscono come le basse onde sulla spiaggia …

[…] «Ci siamo riusciti! Il prototipo è operativo e funzionante alla perfezione!»
«Ottimo! Quando potremo impiegarlo sul campo?»
«Ci vorrà ancora un po’ di tempo … altri test di laboratorio, in ambiente controllato …»
«Tempo non ne abbiamo, Levitch! Non più, purtroppo! Dobbiamo schierarli al più presto se vogliamo nutrire qualche speranza di successo!»
«Capisco! Però …»
«Sono ordini dall’alto, Levitch: si prepari ad eseguirli!»
«Sì, signore!» E poi, sottovoce, la fronte premuta contro la vasca: «Mi dispiace! Ma non posso fare altro.» […]
Lo strattone della lenza mi riporta al presente, ha abboccato qualcosa di veramente grosso, questa volta! Forse addirittura uno dei Vecchi del lago! Questa sera filetto alla brace per tutti! Lottando contro la corrente che lambisce la riva, riesco a trascinarlo sulla spiaggia: non è uno dei Vecchi del lago, è il cadavere di un uomo …

[…] Il lancio ormai è diventato routine: ci portano in orbita bassa, dopo averci rinchiusi nei moduli di rientro, semplici gusci dotati di quel minimo di scudi necessari e sufficienti a vincere l’attrito con l’atmosfera – quando c’è n’è una, ovviamente!
La manovra è in tutto e per tutto simile a quelle che in passato venivano definite bombardamento in picchiata: ripida discesa costellata di manovre evasive lungo una traiettoria calcolata per raggiungere il bersaglio nel minor tempo possibile; sequenza di sgancio automatizzata, sincronizzata per avvenire nell’istante esatto della richiamata, ottimizzando in questo modo tempi e precisione geografica; ritorno all’orbita di parcheggio ad alta accelerazione, per garantire il recupero della navetta.
L’unica differenza consiste nel fatto che noi non siamo bombe, non nel senso comune del termine.
Oh, sì, dimenticavo! Non c’è equipaggio, sulla navetta che ci trasporta a gruppi di otto: ad una media di quattrocento g, niente di biologico potrebbe resistere, senza campi di contenimento, che sono costosi e riservati alle grandi navi! Quanto a noi, non ha importanza: noi siamo diversi, viviamo per questo e … Lo strattone conseguente all’avvenuto sgancio! Come sempre, un titanico calcio nel culo del mondo che si propaga fino alla sommità del cranio. Tempo di prepararsi all’azione!
Questa volta le operazioni ci hanno condotti su di un pianeta semi-tropicale, con meravigliose, fitte foreste costellate di fiori purpurei raccolti in vaste macchie, visibili persino da diecimila metri: come mi piacerebbe poterli odorare, fotografare, cogliere! Invece attivo gli scanner multispettrali, attendo paziente il contraccolpo del paracadute di frenata e controllo tutti i sistemi, prima di immergermi nella verde penombra delle fronde. Tocco terra sul terreno spugnoso di una collinetta intrisa di pioggia, sollevando nubi di spore dai funghi che calpesto mentre corriamo verso la prima postazione di tiro marcata in giallo sulla mappa tattica, dopo esserci divisi per mimetizzarci meglio nel folto. All’improvviso, mi trovo di fronte un nemico, un soldato giovane e spaventato che mi guarda smarrito, la bocca spalancata in un urlo muto: alza d’istinto la sua arma, puntandomela in fronte, senza rendersi conto di essere circondato. Pochi istanti, pochi colpi: la sua carcassa fatta a pezzi contribuirà a concimare la foresta, favorendo la crescita di quei bellissimi fiori purpurei … […]

Faticosamente, trascino il corpo sulla spiaggetta in uno scricchiolio di ghiaia e lo rivolto sulla schiena: è morto da giorni, ma l’acqua gelida del lago ha rallentato la decomposizione, tanto che il suo volto è ancora riconoscibile, dove non è coperto dalle ustioni. Non l’ho mai visto prima, non so chi sia. La sua uniforme, però, l’ho già vista: addosso a lei. Cosa è successo? Da dove arrivano? E quanti altri sono giunti sin qui assieme a loro due? La domanda che mi tormenta, però, mentre trovo un posto adatto non lontano per concedergli una degna sepoltura, è un’altra: siamo stati noi?

Pochi passi stentati, dal letto alla finestra che apre la vista su di un panorama da fiaba: ci manca poco che non crolli a metà tragitto, debole com’è per le ferite non ancora del tutto rimarginate. Fa freddo, nonostante la pelliccia che si è avvolta intorno alle spalle, nonostante il calore del fuoco che si propaga dal camino in tutta la piccola stanza, ma lei non ci bada, non troppo, almeno: è una conquista, quella, che vuole godersi sino in fondo! Affacciata al davanzale, ammira la distesa di acqua orlata di ghiaccio e neve di uno splendido lago incastonato tra altissime montagne, nel silenzio rotto unicamente dallo scoppiettio delle fiamme: nessun’altro, in casa, a quanto pare.
Un vago sorriso le stira le labbra, mentre ripensa ad un paesaggio simile che ha visto anni prima, a casa; buffo! Mentre si sforza di ricordare i particolari, la gibigianna del sole al tramonto inizia a fondersi con le rocce e le ombre e il cielo e le stelle in alto, oltre il tetto, in cerchi sempre più ampi, sempre più luminosi … «Sven!» sorride, mentre scivola al suolo, la vista che si oscura.

Riapre gli occhi sul lago, ancora più bello ora che è trapunto di stelle. «Quanto tempo sarà trascorso?» borbotta a fior di labbra mentre si tasta un grosso bernoccolo sulla nuca.
«Non molto, per fortuna!» La voce è vicina, si direbbe provenire dalla stanza accanto. «Spiacente: qui non ci sono coperte da tirarsi in testa. Se vuoi, però, posso prestarti una tovaglia!» Il suono gentile di una risatina la raggiunge frammisto a rumore di stoviglie. «In fin dei conti, sono felice che sia accaduto: l’esserti alzata dal letto comporta il fatto che tu stia guarendo.» Un colpo secco, come di mannaia su di un ceppo massiccio: «Ecco fatto! Comunque, è stato un po’ imprudente, da parte tua, sei ancora debole.» Picchiettio rapido, seguito dal raschiare di metallo su legno: «Sto preparando la cena! Ti andrebbe un poco di pesce con verdure?»
Assorta, non risponde subito, la sua mente sta ancora divagando: «Dove siamo?»
«A casa mia!» è la risposta, pronta, semplice, completamente inutile per lei «Se non ti va il pesce, non c’è problema, posso preparare qualcos’altro.»
«No, il pesce andrà benissimo, grazie.» Si guarda attorno, la stanza è ampia, le pareti di legno trattato con infinito amore trasmettono una sensazione di tepore che il solo camino non riuscirebbe a dare; accanto a lei, una massiccia tavola intarsiata, una seconda panca dal lato opposto, una credenza. «E questi cosa sono?» Allunga una mano per raccogliere una delle statuine in fila sulla mensola sopra la finestra, una lepre colta nell’attimo del balzo.
«É il mio modo di far passare il tempo: mi siedo qui, ad osservare il lago e lavoro il legno.» L’uomo le si è seduto di fronte, dall’altro lato della cassapanca: viso comune, altezza media, corporatura massiccia. Sorride, timido: «Ti piace?»
Lei annuisce. «Dove sono gli altri?»
«Quali altri?»
«Quelli che vivono qui, con te! Quelli con cui discutevi nei giorni scorsi …»
«Sono partiti per il viaggio mensile in cerca di provviste.»
«E ti hanno lasciato qui da solo?»
«So badare a me stesso. E poi …» sorride, arrossendo un poco: «Non sono solo.»
Lei continua a rimirare il lago: «Sei stato tu?»
Lui annuisce, lo sguardo fisso sui picchi: «Nella legnaia, sotto la tettoia: ti eri rannicchiata fra i ceppi più grossi, stavi male.»
«Stavo morendo, vero?» Ripone con cura la statuina al suo posto, attenta a non romperla. «Ti sei preso cura di me. Perché?»
«C’è davvero bisogno di un motivo?» Si alza, dirigendosi in cucina: «La cena è pronta! Spero tu abbia fame.»
«Una fame da lupi!» Sorride, giocherellando con la pelliccia, mentre il profumo di pesce arrostito le solletica le narici.

[…] «Verrete sbarcati a trenta chilometri dall’obiettivo, in un settore non sottoposto a sorveglianza. Divisi in squadre di cinque, raggiungerete la zona delle operazioni entro un massimo di dodici ore. Il vostro bersaglio è questo edificio, sede di un gruppo di laboratori genetici: devono essere rasi al suolo, insieme al loro contenuto. Buona fortuna!»
Nessun ulteriore chiarimento, nessuno spazio ad eventuali domande: il briefing termina con la chiusura della porta automatica alle spalle dell’ufficiale alle informazioni, non ci resta che recuperare dagli armadietti l’equipaggiamento e presentarci nell’hangar navette. Quindici minuti più tardi, la missione ha inizio.
Tocco terra nel punto prefissato, insieme al resto della mia squadra, e mi guardo attorno, cercando automaticamente i punti di riferimento previsti: il settore non è sottoposto a sorveglianza per il semplice motivo che si tratta del quartiere residenziale di una cittadina di provincia, immerso nel verde e nel silenzio delle prime ore notturne; le semplici abitazioni civili bordano le strade illuminate dalle strisce bioluminescenti, mentre avanziamo acquattati nelle ombre, non c’è bisogno di divederci, il pericolo di essere scoperti è pressoché inesistente. Inalando a pieni polmoni il profumo dei fiori, mi chiedo quale direttiva strategica abbia reso necessario inviare venti di noi in questa missione, quando un bombardamento orbitale potrebbe facilmente fare piazza pulita dell’intero impianto, riducendo a zero gli eventuali danni collaterali. Ogni cinque minuti, contattiamo sul circuito riservato le altre squadre, assicurandoci che tutto proceda come da programma; dodici ore: troppe persino se dovessimo aprirci la strada combattendo … c’è qualcosa che non quadra.
È il mio ultimo pensiero, prima che il cielo si illumini di indaco in una dozzina di punti, prima che i fasci ad alta energia colpiscano la superficie vaporizzando centinaia di metri quadrati all’intorno. Correndo tra le esplosioni per cercare riparo, vedo tre dei miei compagni di squadra saltare in aria e bruciare come falene; pulendomi di dosso le loro interiora, inizio ad analizzare la situazione, per trovare il modo migliore di portare a termine la missione restando in vita: ovviamente, è un’esca, un bersaglio apparentemente facilissimo da colpire e così ghiotto da non poter essere ignorato dagli alti comandi; però, gli alti comandi devono aver fiutato la trappola, perché altrimenti non ci avrebbero imposto di raggiungere il bersaglio entro dodici ore.
Questo significa che allo scadere del termine, qualcosa di ancora più grosso si scatenerà quaggiù, a meno che noi non si riesca a trasmettere il “missione compiuta”; significa anche che quelle che ci stanno sparando addosso dall’orbita non sono le nostre unità d’assalto e che siamo noi il “loro” bersaglio! Sacrificare un luogo tranquillo e pacifico come questo solo per distruggerci? Perché? Per quale motivo la gente che dorme in queste case …? Mi rendo conto all’ultimo istante di essere sotto tiro da una delle finestre del secondo piano di una casa, giusto alla mia destra; schivo, rotolando al riparo di un cespuglio e rispondo al fuoco, scaricando nella prima finestra aperta una granata al plasma che sventra l’edificio, senza fermarmi, l’odore di carne bruciata mi riempie le narici. Ci dividiamo, è necessario, dobbiamo sopravvivere, è imperativo! Mentre penso ad un percorso sicuro verso l’obiettivo, analizzo in automatico l’ambiente circostante, sparo, colpisco qualcuno nell’ombra, è solo un grido mentre corro oltre, una piccola nota che si aggiunge al coro del caos tutt’intorno. Una figura mi si para davanti all’improvviso, in mano ha un oggetto lungo e sottile, reagisco e la falcio con una raffica di flechettes: il ragazzo cade in mezzo alla strada, urlando […]

Mi sveglio di soprassalto sulla cassapanca, trattenendomi a stento dall’urlare a mia volta. Mi alzo, raggiungo in punta di piedi il bagno per bere un sorso d’acqua, sciacquarmi il viso: credevo di averlo superato, di essere riuscito a farmene una ragione, da quando mi hanno concesso di ritirarmi qui, ai confini del nulla. In silenzio, mi affaccio alla camera da letto, assicurandomi che tutto vada bene; fortunatamente non ho svegliato la mia ospite, deve riposare. Quando ieri pomeriggio l’ho trovata stesa sul pavimento, per un attimo ho temuto il peggio. Voleva vedere il panorama! Così l’ho raccolta e portata nel salone, confidando che la vista dal mio posto preferito potesse darle un po’ di sollievo; è stata una bella serata, abbiamo parlato, mangiato pesce freschissimo, abbiamo riso, lei ha apprezzato le mie statuine; quando finalmente ha ceduto alla stanchezza, l’ho presa nuovamente tra le braccia e l’ho portata in camera sua, augurandole la buona notte; mi è dispiaciuto doverle mentire, riguardo l’assenza degli altri, ma era necessario. Non le ho detto neppure del mio ritrovamento giù alla spiaggia, il suo probabile compagno: a dire il vero, non mi è neanche passato per la mente. Domani. Sicuramente domani, sperando che non le fosse troppo vicino, proprio ora che sta ricominciando a vivere.

È stata proprio una bella serata, come non ne passava da molto tempo: quel senso di serenità, di allegria che l’aveva invasa quando lui le aveva messo davanti il piatto, aiutandola ad accomodarsi con un mucchio di cuscini rimediati un po’ dappertutto in casa, l’aroma ricco e gradevole del cibo, le chiacchiere incessanti e sconclusionate di quel buffo uomo che era persino riuscito a farla ridere! Ripensandoci nel profondo della notte, avvolta nelle morbide pellicce, a differenza dei primissimi giorni, si rende conto di non provare più alcun timore nei confronti del suo anfitrione: sa benissimo che è stato lui a portarla a letto, quando è crollata sulla cassapanca, stanchissima, ed ha un vago ricordo di braccia robuste che la cullano al ritmo lento di parole mormorate a fior di labbra. Perché proprio ora? Perché? Che fine ha fatto la sua determinazione a scoprire cosa è accaduto ai suoi amici? È il sollievo per averla scampata, la certezza di aver imboccato la via della guarigione, cerca di convincere se stessa: non appena sarà in grado di affrontare i rigori dell’esterno, saluterà il padrone di casa e si metterà alla ricerca di indizi, di superstiti … Certo che quel pesce era davvero squisito! E tutte quelle statuine! Meravigliose, così precise, realistiche al punto da parere vive … anch’io avrei voluto esserne capace … ho sempre desiderato … conoscere qualcuno … come lui …
Ma quest’ultimo pensiero si perde nell’oblio del sonno, mentre i primi, gelidi fiocchi di neve accarezzano silenti le vetrate.

«Buongiorno! Vedo che va meglio, quest’oggi.» Lei è seduta sullo sgabello accanto alla finestra, intenta ad osservare lo spesso strato di neve intonsa che ricopre il terreno fino al lago. Se non altro, sentendomi bussare non si è sepolta sotto le coperte. Poso il vassoio sull’altro sgabello, poi mi fermo ad ammirarla, delicata e affascinante come i cristalli di ghiaccio che orlano la falda del tetto. «Anya.» mormora, senza voltarsi.
«Scusa?»
«Mi chiamo Anya. E tu?» Si volta verso di me, uno strano sorriso sognante in viso, lo sguardo non del tutto a fuoco ancora colmo dello scintillio bianco del sole sul ghiaccio.
«Thomas. Molto piacere!» Tendo la mano, poi ci ripenso, imbarazzato: «Vuoi fare colazione?»
«Grazie, molto volentieri.» Anya si alza, quasi cade ma mi fa cenno di non avvicinarmi: è qualcosa che vuole fare da sola ed io la capisco. Raggiunge il letto piano piano, si siede composta, mi sorride, questa volta più sicura. «É buona come la cena di ieri sera?» mi stuzzica.
«Di più! Molto di più!» rispondo. Ridiamo assieme, poi lei raccoglie un boccone di carne e lo assapora masticando a lungo: «Hai ragione, è più buono! Assaggia!» E mi porge un secondo boccone, che accetto un po’ sorpreso.
«Grazie, adesso però ti lascio mangiare in pace: chiamami, quando hai finito, verrò a prendere i piatti …»
«No, resta a farmi un po’ di compagnia: sono rimasta da sola fin troppo, per i miei gusti!»
«Sei sicura? Fino a due giorni fa non ne volevi sapere.»
Anya si stringe nelle spalle: «Ho cambiato idea. Capita a tutti, ogni tanto.» e batte con la mano accanto a sé sul letto.
Mi siedo con cautela, pronto ad andarmene al minimo segno d’insofferenza: al contrario, lei si volta verso di me e mi concede un abbraccio; per pochi secondi, poggia la testa sul mio petto e resta così, ad occhi chiusi: «Grazie.» mormora, «Grazie, Thomas, per tutto questo.» Rialza lo sguardo, sorridente, prima di scivolare via e dedicarsi con appetito alle pietanze. Scosso, piacevolmente stordito, faccio per alzarmi, ma la sua mano sul mio ginocchio mi convince a restare, a guardarla compiaciuto mentre divora tutto quello che le ho messo nel piatto, finalmente! Quasi mi spiace dover interrompere questi momenti di serenità, ma deve sapere, prima che mi manchi il coraggio, prima che si faccia eccessive illusioni: «Anya, mi spiace, ma devi sapere che …»
«Hai trovato uno dei miei compagni.»
«Ieri, nel lago. L’ho sepolto sulla spiaggia, dove nessuno potrà disturbarlo.»
Lei sospira: «Come è morto? Era …?»
Scuoto la testa: «Ho trovato una lacerazione alla base della sua nuca: è probabile che, vagando come per le alture dopo il vostro naufragio, sia scivolato battendo le testa; confuso e stordito, temo che sia caduto dalla scogliera direttamente in acqua.»
«È annegato.»
Mi stringo nelle spalle, in un gesto istintivo: «Non credo che abbia fatto in tempo: in questa stagione, l’acqua è talmente fredda da fermare il cuore quasi al contatto. Non ha sofferto.» Le carezzo delicatamente la spalla: «Aveva questo, in tasca: credo che debba tenerlo tu.» Appoggio il badge sul vassoio, accanto al bicchiere. «Io sono di là. Se dovessi aver bisogno di qualcosa …» Non attendo risposta; chiudendomi piano la porta alle spalle, l’ultima cosa che odo sono i suoi singhiozzi sommessi.

«Ammiraglio? Ho il permesso di porre una domanda?»
Lo sguardo fisso sul display tattico principale, Ian Kastrup annuisce: «Avanti, capitano: cosa desidera sapere?»
«Perché non abbiamo ancora prestato soccorso all’equipaggio della vedetta dispersa, se abbiamo ottenuto una localizzazione certa da almeno due giorni?»
«Sta pensando di ammutinarsi, capitano? Per questo sta mettendo in dubbio la mia autorità su questo ponte di comando?» Girando su un tacco, Kastrup fronteggia il suo sottoposto: nonostante sia decisamente più basso e meno massiccio, è fuor di dubbio chi dei due vincerebbe, se si dovesse arrivare allo scontro.
«Io non sto mettendo in dubbio nulla signore!» è la veemente protesta, «Dico solo che si tratta di personale nostro, di nostri compagni in difficoltà, magari feriti; magari … morti.»
«Le sue sono preoccupazioni di carattere puramente umanitario, dunque.» L’ammiraglio sorride, apparentemente pacificato: «Capisco. Peccato però che io abbia ricevuto degli ordini, capitano, ai quali non mi sogno neppure di disobbedire! Riesce a comprendere questo semplice concetto?»
Il sottoposto indietreggia, quasi l’avesse schiaffeggiato: «Sissignore, ammiraglio! Comprendo benissimo, e mi scuso signore!»
«Capitano Tebaldi! Alla fine del suo turno di servizio, gradirei discutere con lei della questione, nel mio alloggio.»
«Ammiraglio, io …»
Kastrup pone fine alla questione con un gesto, prima di tornare a voltarsi verso il tattico: «Tebaldi, lei non è in punizione: visto che ha dimostrato tanto soverchio interesse per quelle persone, mi pare corretto informarla in proposito, tutto qui. Se però si lascerà sfuggire un solo fiato …»
«Sono un ufficiale signore!» ribatte indignato il capitano.
Girato di spalle, Kastrup sorride: «Bene, capitano: lieto di vedere che se ne ricorda, all’occorrenza!»

Trascorre un tempo lunghissimo, prima che trovi il coraggio di avvicinarmi nuovamente alla porta di Anya, preoccupato dal silenzio di tomba che ne proviene. Stupido io che le ho lasciato in mano il coltello! Non avrà mica …
Titubo solamente un altro secondo, prima di spalancare la porta senza annunciarmi: lei è riversa sul letto, rannicchiata, il badge ancora stretto tra le mani, il viso arrossato e gonfio per il pianto; dorme, borbottando e mugolando. In punta di piedi, mi avvicino per coprirla meglio, raccolgo il vassoio e me ne vado. Meno male! Non avrei potuto sopportarlo.
Seduto alla finestra, scruto le scogliere cercando di scoprire perché e dove quell’uomo è caduto nel lago; Anya si era persa nella foresta sulla collina, trascinandosi fino a qui. Lui, invece, doveva essersi ritrovato sulla più accidentata riva di nord-est – la corrente fluisce da quella direzione, in questa stagione dell’anno, e il corpo era in acqua da più di un giorno …
Traiettorie di rientro falsate da danni critici agli stabilizzatori; caduta libera conseguente all’esplosione di qualcosa lassù in orbita; grossi pezzi separati che si sbriciolano negli strati anormalmente densi della nostra atmosfera …
Un guasto? Probabile, ma a che tipo di mezzo? E perché proprio qui, nel nostro eremo? Sarà rimasto qualcosa sufficientemente grande ed integro da poter essere esaminato? La mente elabora decine di scenari diversi sulla base di pochi, impalpabili elementi, sforzandosi di trovare soluzioni ad un problema che forse non ne ha affatto; le mani, dal canto loro, lavorano indipendenti come loro solito, intagliando il legno per distrarsi e per distrarre, isolando il resto del corpo dai pensieri. È un sistema che ha sempre funzionato, in passato.

[…] «Ci troviamo di fronte ad una svolta epocale, signori! Dobbiamo decidere del nostro futuro e dobbiamo deciderlo ora!» Applausi colmano l’auditorium, crescendo sino alla soglia del dolore; ammetto che mi è difficile comprendere un simile entusiasmo per un’idea che di sicuro riuscirà soltanto a sommare altri guai a quelli che già ci travagliano. Il lato comico della situazione è che l’idea in discussione qui, quest’oggi, siamo noi, le neocostituite Squadre Alpha/Tau, ritte sull’attenti alle spalle dell’oratore: a vederci riprodotti nell’ologramma che fluttua al centro della platea, un metro abbondante sopra le teste degli astanti, non facciamo una grande impressione, nessuno penserebbe che siamo l’arma risolutiva in questa lunga e tediosa guerra.
Mentre gli interventi proseguono, mi astraggo dal contesto e torno ad analizzare le informazioni che hanno dovuto lasciar filtrare malvolentieri sino a noi, durante tutto il corso del nostro sviluppo e del successivo addestramento.
Noi siamo stati studiati a tavolino per risolvere lo stallo che si era venuto a creare su questo nostro mondo, dopo che la fazione separatista era riuscita ad impossessarsi di due dei quattro principali centri economico-industriali ed aveva avviato trattative indipendenti con la madrepatria; fino ad allora, si era trattato di scontri campali, guerra delle informazioni, bombardamenti strategici: la solita trafila con alti e bassi su entrambi i fronti, uno stallo dinamico, se mi si passa l’ossimoro, nel quale entrambe le parti traevano effimeri successi e vantaggi reciproci, alle volte per la durata di alcuni anni, altre soltanto per pochi mesi o addirittura giorni. Ora però la situazione si era aggravata: con una base industriale e scientifica a loro disposizione, i separatisti avevano iniziato ad espandersi, impiantando basi su asteroidi e lanciando missioni di colonizzazione nei sistemi vicini, mirando ad assurgere allo stato di potenza; un processo esteso su un ampio arco di tempo – ancora ben lungi dall’essere completato, all’epoca – ma sufficientemente ben avviato da interessare i governanti in patria e da preoccupare i pezzi grossi locali.
Furono proprio i pezzi più grossi dell’Amministrazione Coloniale a fare pressioni sull’establishment scientifico e militare perché venissero costituite due unità prototipo, con tutti gli annessi e connessi, ovviamente.

Alpha/Tau: Assalto/Tattico. Scritto così, separato, per non creare confusione, pur rimanendo abbastanza ambiguo da coprire le nostre reali mansioni; noi venivamo addestrati per condurre assalti a livello strategico contro obiettivi fortemente difesi e contemporaneamente venivamo sfruttati in missioni di infiltrazione tattica, per spianare la strada alle grandi concentrazioni di forze, quando un attacco frontale risultava fattibile e politicamente preferibile: nel gergo dei comandanti, nostro compito era quello di “ammorbidire” i bersagli quel tanto sufficiente a ridurre al minimo le perdite delle forze alleate avanzanti – le nostre perdite non rientravano nell’equazione; le nostre perdite non contavano.
Come riuscire nell’impresa? Quale strategia utilizzare? Piuttosto semplice, in effetti: creare qualcosa che non poteva essere battuto. […]

«Ma sono io!» La voce melodiosa e acuta di Anya mi riporta al presente; seguo il suo sguardo e mi rendo conto che questa volta le mie stesse mani mi hanno tradito: sul tavolo c’è lei, in miniatura, che sbuca da un mare di trucioli e segatura dell’esatta sfumatura dei suoi capelli. «Io non volevo … Scusami, Anya, davvero, non l’ho fatto apposta!»
Per tutta risposta viene a sedermisi accanto, chinandosi per osservare più da vicino, da un lato, dall’altro: «Dannazione!» sbotta, ridendo «Vorrei essere così bella! Mi hai fatto ingelosire, Thomas!»
Il suo profumo, mischiandosi a quello del legno tagliato di fresco, mi riporta a quei rari momenti di pace trascorsi da solo in mille foreste, durante le marce di avvicinamento o mentre si stava di sentinella.
«Ehi! Che c’è?»
«Nulla. Stavo solo pensando.»
«A cosa?»
«Al fatto che ben pochi mi hanno rivolto complimenti così belli, in vita mia. Sono lusingato.»
Lei sorride. «Sono io ad essere lusingata: nessuno mi aveva mai scelto come modella!»
«È un peccato perché sei davvero bellissima.» Arrossisco, mentre lo dico, e vorrei mordermi la lingua, ma ormai la frittata è fatta: non mi resta che attendere la sua reazione.
Anya osserva silenziosa la sua immagine per minuti interi, mormorando parole senza suono, quasi stesse canticchiando.
«Scusa, ti ho messa in imbarazzo. Vado a prendere altra legna …»
Faccio per alzarmi, lei mi trattiene per la mano, senza alzare lo sguardo: «John era il nostro comandante.» Lo dice a voce appena appena udibile. «Sven era il terzo. È stato lui a rendersi conto delle anomalie nel reattore principale.»
«Un trasporto? In rotta per dove?»
Anya scuote la testa: «Un esplorante, diretto verso Kembryon.»
Fischio piano, tornando a sedermi: «O avevate un pessimo navigatore, oppure …»
«Oppure. John avrebbe saputo trovare la rotta per qualunque punto ad occhi bendati!» Svagata, sfiora con l’indice la guancia della sua miniatura, un’involontaria carezza che le colma gli occhi di malinconia: «Il nostro era un viaggio di routine, per registrare eventuali variazioni e anomalie sulla rotta principale. Non so perché abbia deciso di compiere una così lunga deviazione. So soltanto che, poco dopo il nostro ingresso nel sistema, Sven è schizzato fuori dal Controllo Propulsione ed e corso sul ponte per avvertire John di gravi anomalie di flusso; io ero in cambusa a preparare il pranzo e l’ho visto di sfuggita. Credo che John volesse stabilizzarci in orbita stazionaria per poter staccare il reattore principale, inserire l’ausiliario e procedere con le riparazioni …»
«Ma non ha fatto in tempo.» concludo io per lei. Le stringo delicatamente una spalla, un po’ per consolarla, un po’ per farle sentire la mia presenza.
«No. La propulsione ci ha piantato al culmine della manovra di inversione: invece di inserirsi dolcemente in orbita, la nave è precipitata di poppa nel campo gravitazionale di questo pianeta, scuotendosi e tremando come un cavallo! Ho picchiato la testa contro il tavolo e da quel momento è tutto molto confuso: l’ultima cosa che ricordo è Sven che mi infila di peso in una capsula, mentre lo scafo già si squarciava come carta stagnola.» Anya tira un gran sospiro: «Quando ho ripreso conoscenza, ero sepolta in mucchio di neve ghiacciata, in cima a una collina – non saprei dirti dove – vestita unicamente della tuta di bordo e con più di una frattura. Ho vagato per ore, forse, finché ho visto il vostro fumo, e questo e quanto. Il resto lo conosci. John è morto, con tutta probabilità anche Sven è morto, vero?» Mi fissa con quei suoi occhi ametista: potrei raccontarle una bugia, lasciarle ancora una tenue speranza – doveva essere una persona importante per lei – ma non sarebbe onesto nei suoi riguardi, così annuisco: «Purtroppo. Se l’avessimo trovato subito, come te, forse avremmo potuto salvarlo, ma è trascorso troppo tempo.»
«Potrebbe aver trovato riparo altrove!»
«Anya! Non c’è niente e nessuno per decine di chilometri qua attorno: solo foresta, montagne e animali selvatici. È soprattutto per questo motivo che abbiamo scelto di vivere qui.»
Stranamente, invece di disperarsi ulteriormente, mi rivolge un sorriso radioso: «Per fortuna! Altrimenti, non avresti potuto intagliare questa.» dice, posando la miniatura sul tavolo.
«Avrei sempre potuto sognarti …» è il mio commento, prima di chinarmi a rispondere al suo bacio.

L’ammiraglio Kastrup non è tipo da starsene seduto a leggere rapporti; che si sia guadagnato i gradi sgobbando come un mulo è risaputo, al pari del fatto che tutte le onorificenze che rendono unica la sua divisa sono state guadagnate su campi di battaglia sparsi per una dozzina di sistemi solari diversi. Tebaldi considera tutto questo mentre attende sull’attenti che il superiore si ricordi di averlo convocato nel proprio alloggio e noti la sua presenza; non molto alto, nerboruto, ancora agile e scattante nonostante non sia più giovanissimo, Kastrup girovaga per l’ufficio privato conducendo sei conversazioni in contemporanea attraverso il trasduttore sub-vocale multicanale a contatto della sua laringe: «No! Può supplicarmi fino alla consunzione, ma ora ho altro da fare che starla a sentire mentre frigna come un poppante, signore! Passo e chiudo.» E lo fa letteralmente, strappandosi il trasduttore dal colletto per gettarlo sulla scrivania. Sogghigna, rivolgendosi al capitano: «Bene! Anche questa è andata! Forse stanotte mi riuscirà di dormire in maniera decente … Tebaldi, Tebaldi, Tebaldi! Veniamo a lei.»
«Signore!»
«La smetta con tutti questi salamelecchi e si metta comodo: questa sarà una conversazione privata e strettamente riservata tra me e lei, due uomini che hanno delle pesanti responsabilità. Gradisce qualcosa da bere?»
«Grazie, no, come se avessi accettato.»
«Ottimo! Allora cominciamo.» Appollaiato sul bordo anteriore della scrivania, le mani a cingere un ginocchio, Kastrup, di colpo serissimo, osserva per lunghi minuti l’altro seduto in poltrona: Tebaldi non ha dubbi che lo stia giudicando, da tutti i punti di vista; sa anche perfettamente che l’ammiraglio non si farà scrupolo alcuno a rivelargli il suo giudizio, lusinghiero o negativo che sia. «Capitano, lei è davvero un temerario, lo sa, questo? Affrontarmi a quel modo sul ponte di comando, in pubblico! Si fosse trattato di altro di un altro argomento, non avrei nemmeno convocato la corte marziale; l’avrei silurata prima ancora che fosse riuscito a tirare il fiato e le assicuro che non sto parlando per metafore: lei avrebbe scoperto cosa si prova ad essere al posto di uno dei missili di questo incrociatore!»
Colto suo malgrado in contropiede, il capitano Tebaldi deglutisce l’anima che d’improvviso gli era salita in gola; ritenendo più saggio subire in silenzio la nuova sfuriata del superiore, si accomoda meglio nella poltrona e attende il ciclone, direttamente sul suo percorso. Con sua somma sorpresa, Kastrup dapprima ridacchia, poi scoppia a ridere: «è diventato verde, sa, capitano? Ma non si preoccupi, non rischia di respirare il vuoto – non subito, almeno.» L’ammiraglio giocherella con un fermacarte, poi: «Abbiamo inviato quell’esplorante di molto fuori rotta per verificare una remota ipotesi formulata dal Comando Strategico. Sa cosa significhi questo?»
Tebaldi annuisce: se c’è di mezzo il CS, significa che la missione riguarda l’Amministrazione Coloniale e, attraverso essa, il governo centrale in madrepatria: «Mi risultava che la guerra fosse terminata dodici anni fa.»
Kastrup sorride e applaude: «Ottimo!» Nonostante la punta di sarcasmo avvertibile nel suo tono, il complimento del l’ammiraglio è sincero, e questo non può che inorgoglire il giovane capitano. «Lei ha ragione, naturalmente: i separatisti sono stati condotti a più miti consigli e riassorbiti in seno alla società civile; pertanto, le battaglie sono cessate e l’esercito è tornato ai suoi compiti di pattuglia e difesa dei confini.»
«Ma …?»
«Ma alcuni dei metodi utilizzati per conseguire questo splendido risultato non sono stati … ah … propriamente legittimi o conformi alle leggi di guerra, se mi passa l’eufemismo!»
Tebaldi sussulta: «Sta cercando di dirmi che l’esplorante disperso è stato appositamente inviato in quel sistema sperduto per cercare … cosa? Un’arma dispersa?»
«Fuochino, capitano. Cosa sa lei delle Squadre Alpha/Tau?»

[…] Raggiungiamo l’obiettivo dopo undici ore trascorse sotto il fuoco continuo di entrambe le fazioni. Ormai siamo rimasti soltanto noi, A1-2-5, e la A1-3-7, lanciatasi nelle retrovie per fornire copertura alle altre unità avanzanti; chiaramente, si trattava di una trappola; tesa da chi, con tutta probabilità non lo sapremo mai, perché nei loro piani, non dobbiamo sopravvivere, nessuno di noi, è evidente. Eppure, ostinati come soltanto esseri come noi sanno e possono essere, eccoci qui, davanti all’ingresso corazzato dei laboratori di ricerca. Oramai non si tratta più di cercare di passare inosservati: alle nostre spalle, il sole tenta di filtrare attraverso spesse coltri di fumo nero per illuminare le macerie di un’intera città, senza però riuscire a battere in luminosità le cortine di fiamme alte decine di metri che divampano e fluiscono per ogni dove come acqua.
Tempo di sfoderare l’armamento pesante! Primo obiettivo: il bunker posto al centro del passaggio, tra le carreggiate a senso unico. Stando alla documentazione in nostro possesso, dovrebbe essere un posto di controllo, niente più di una guardiola, ma è ormai ovvio che noi non si possa fare troppo affidamento sulle nostre informazioni, per questa operazione; spariamo due granate termo-plasma temporizzate, una in ciascuna feritoia - le sentiamo distintamente rimbalzare contro lo strato superiore di cemento rinforzato, prima che la detonazione trasformi tutto quanto si trova entro un raggio di venti metri in una massa vetrosa: un lavoretto pulito, dobbiamo tenere da conto le poche munizioni rimaste. Le due carreggiate sono delimitate da un cordolo alto mezzo metro, irto di sensori, emettitori laser e mine, per scoraggiare gli eventuali malintenzionati; ripensandoci, forse avremmo dovuto aspettare a liquefare il bunker: con ogni probabilità, abbiamo cancellato il sistema di disinnesco …
Pazienza! Non c’è tempo da perdere: l’effetto psicologico sortito sulle truppe di difesa dalla perdita del loro primo punto chiave non durerà in eterno; del resto, è sufficiente un unico missile ben indirizzato per scatenare l’inferno lungo una delle corsie: passaggio libero e difese annullate. Avanziamo velocemente in ordine sparso, coprendoci a vicenda, senza concedere ai nemici il tempo di riorganizzare la difesa, sfruttando le lacune di una concezione superata e troppo appoggiata a schemi fissi: fucili, pistole, granate, usiamo quello che troviamo, spogliando i cadaveri strada facendo, da bravi sciacalli addestrati. Dopo una decina di minuti, la pressione inizia a scemare, da dove mi trovo riesco a scorgere singoli soldati che cercano di sfilarsi e defilarsi dalle zone meno calde della battaglia; auguro loro di riuscirci, anche se la mia parte razionale sa che non sopravvivrà nessuno, perché A1-3-7 ha appena comunicato di aver raggiunto incolume il lato opposto del complesso, pronta ad iniziare il rastrellamento.  Altri cinque minuti e siamo soli davanti all’ingresso; una carica G fa collassare il campo di forza difensivo, il campo neurolitico, la porta e i primi tre metri dell’atrio principale: siamo dentro, falciando e bruciando tutto quanto ci capita a tiro. In teoria, potremmo cavarcela piazzando le altre cariche G in modo da ottenere l’impronta gravitazionale necessaria a trasformare l’edificio in un buco nel terreno – semplice, economico e soprattutto molto efficace: sta di fatto che la curiosità è una gran brutta bestia e noi vogliamo sapere, vogliamo capire perché siamo stati destinati al macello. I cadaveri si impilano quasi da soli, come tessere del domino, mentre frughiamo corridoi, stanze, trombe d’ascensore, soppalchi, senza incontrare la benché minima resistenza. Il limite di dodici ore è sicuramente trascorso, ma noi siamo ancora dentro, non diamo il segnale di missione compiuta perché non abbiamo ancora trovato una risposta; frenetici, scoperchiamo persino i cunicoli di sevizio posti sotto i pavimenti, seguendo le linee in fibra ottica fino ad un pozzo non segnato: una modifica recente o un segreto talmente prezioso da dover essere difeso con il totale anonimato? Scivolando lungo i condotti, raggiungiamo l’ingresso di un corridoio sotterraneo, ampio, ben rifinito e illuminato: nasce cieco dieci metri alle nostre spalle, scavato direttamente nello zoccolo roccioso che sorregge la città, quaranta e più metri sopra le nostre teste e prosegue rettilineo per un altro centinaio fermandosi di fronte ad una parete di cristallo temperato a prova di esplosione. Per quindici minuti almeno tutto è silenzio, irreale, denso e pesante come morte: i palmi premuti contro il vetro, osserviamo muti quello che c’è al di là, quello che sta per nascere una seconda volta; non è possibile, mi dico, non possono averlo fatto, non di nuovo! Avevano promesso! Avevano promesso che saremmo stati gli unici e invece …
Non ci rendiamo nemmeno conto del fatto che il silenzio è svanito, i colpi furibondi e le urla rabbiose lo hanno strappato come carta fradicia.
I nostri colpi. Le nostre urla, che risuonano sempre e sempre più alte … […]

«Thomas! Thomas, svegliati!» Anya mi scuote, cercando di riportarmi alla realtà, di farmi smettere di urlare; non è così facile, le occorrono un bel po’ di tempo e di fatica per riuscirci.
Poco per volta riesco a calmarmi, a respirare normalmente, i pugni si schiudono lasciando filtrare piccole gocce di sangue: «Scusami, Anya. Un incubo. Ora è passato.» Mi passo la mano sul viso, madido di sudore gelido.
Lei mi abbraccia, carezzandomi piano la nuca: «Va meglio ora?»
Non rispondo a parole, non ci riuscirei: la stringo forte, massaggiandole la schiena. Sorridendo, poco per volta scivola via, lasciandomi immerso nel suo profumo.
«Sei uno strano uomo, sai? Capace di prendersi cura di una perfetta conosciuta, di rendere vivo il legno, eppure vivi qui, in mezzo al nulla, per tua stessa scelta.»
In piedi di fronte a me, infagottata negli unici abiti miei abbastanza stretti da non penderle addosso come una tenda, mi fissa pensosa, cercando una soluzione all’indovinello che si è posta da sola. «Cosa nascondi, misterioso Thomas? Quale segreto celi, in quella tua testa lucida?»
«Nulla di interessante, solo moltissimi pessimi ricordi.»
«Credo sia la prima volta, da che ci conosciamo, che mi racconti una bugia.» Non è un rimprovero, soltanto una constatazione, a dimostrarmi che Anya riesce quasi a leggermi dentro. Per sua fortuna, non ci riesce del tutto.
«Ho fame! Andiamo a preparare la colazione?»
«Come desidera, mia signora.»
«Non prendermi in giro, sai? Non ci provare nemmeno.»
«Altrimenti?»
«Potresti scoprire che non sono poi così buona e paziente!»
Sogghigno. «Credo proprio che accetterò il rischio, allora: sono una persona estremamente curiosa.»
La colazione è briosa e divertente, in tutte le sue parti: in cucina, Anya mi chiede di insegnarle a preparare il pesce, ad impastare il pane e mille altre cose, con esiti inizialmente così disastrosi da essere esilaranti; sopravvissuti alla preparazione, passiamo in sala da pranzo, dove il fuoco scoppietta basso nel camino: devo andare a procurare della legna e lei si offre di aiutarmi a portarne un quantitativo maggiore. Io le spiego quanto sia pericoloso – il freddo, il sentiero ghiacciato, i seracchi taglienti che il vento forma alle volte lungo il percorso – ma Anya si impunta. Sono sicuro che il desiderio di rivedere la tettoia sotto cui ha rischiato di morire assiderata abbia un peso notevole in questa sua insensata decisione, ma lei non lo ammetterebbe neppure sotto tortura e mi seguirebbe comunque, volente o nolente, perciò non mi resta che cedere cavallerescamente. Nello stanzino di uscita – così simile ad una camera stagna, mi fa notare – mi assicuro che i suoi abiti siano ben chiusi e aderenti, le spiego come sigillare guanti e scarponi, le calco fino al collo il berretto foderato di pelliccia, stringendo a dovere il soggolo; dopo un ultimo controllo, scoppio a ridere: la snella, splendida figura che ho imparato a conoscere è diventata un uovo in precario equilibrio sulle suole chiodate …
«Davvero gentile da parte tua, infierire così su di una donzella alla sua prima uscita! Tu, del resto, sei un vero e proprio indossatore!» mi rimbrotta e ritorce prontamente. Per farmi perdonare, le apro la porta, aiutandola ad uscire: la soglia è stretta e, sebbene sia riparata, il vento che soffia dalla collina retrostante non rende di certo i movimenti più agevoli.
«Seguimi!» grido «Cerca di calcare le mie orme. Letteralmente!»
Ogni tanto mi volto per assicurarmi che stia bene: vederla caracollare da presso mi strappa un sorriso, ma nel complesso se la cava dignitosamente. Arrivati al deposito, Anya si guarda in giro per un po’ prima di porre la domanda che mi aspettavo: «Thomas, è qui che mi hai trovato, vero?» Indica un mucchio di segatura congelata, impregnata di sangue. Annuisco: «Scusami. Non mi è venuto in mente di pulire: non credevo che tu …»
«Non devi scusarti. Non ha importanza.» Si volta a guardare verso la cima, nascosta dagli abeti: «Io sono rotolata giù da là.»
«Probabile: credimi se ti dico che non sono stato ad indagare più di tanto, quando ti ho trovata!»
«Meno male.» Il suo sussurro si perde nella sciarpa. Io arrossisco: «Basta chiacchiere! Siamo stati qui anche troppo: caricati quella fascina e cerchiamo di tornare a casa in fretta.»
«Agli ordini, capitano!»
La colpisco piano con il pugno, affondando negli strati imbottiti di pelliccia.
«Ahi! Perché lo hai fatto?» Non ha provato alcun dolore, lo so per esperienza, ma la domanda è seria, così come la mia risposta: «Non prendere sottogamba questi luoghi, Anya! Mai!»
«Così mi fai paura, Thomas! Non ho intenzione di ruzzolare giù da una collina una seconda volta.»
«Ti prude il naso, per caso?» le domando noncurantemente.
«No, perché? In effetti, non lo sento neppure …»
«Corretto, perché hai lasciato scivolare via la sciarpa: a giudicare dal colorito, è quasi congelato.»
Lei si affretta a coprirsi, cercando nel contempo di guardarsi la punta del naso per valutare i danni: «Potevi avvertirmi prima, dannazione a te!»
«Prima quando? È successo mentre raccoglievi la fascina.»
Per qualche secondo, lei mi fissa allibita, poi: «Scusa.»
«Non c’è bisogno di scusarsi. Hai capito adesso?»
Per tutta risposta, Anya si fa da parte mentre le passo accanto, poi si accoda e mi segue diligentemente fino a casa.
Rientrati nello stanzino, a porte ben sigillate, l’aiuto a spogliarsi, massaggiandole delicatamente il naso con le dita per riattivare la circolazione; quando tutto è a posto, le spiego come stivare la legna nell’apposito cassone vicino al camino e le apro la porta interna. «Tu non vieni?»
«Tra poco: prima devo levarmi di dosso tutta questa robaccia.»
Lei ride: «é la prima volta che sento definire robaccia delle pellicce di primissima qualità come queste!»
Mi stringo nelle spalle: «Paese che vai …»

«Ammiraglio Kastrup! Qui Tebaldi. Abbiamo trovato dei resti. Dai brandelli di divisa, si direbbero quelli dell’ingegnere capo, Sven Lothya!»
«È morto nell’incidente?»
«Questo non glielo so proprio dire, signore! Presenta delle ustioni ma è stato … sbranato? … da qualcosa di enorme.»
«Tracce degli altri?»
«Nessuna signore. Neppure della creatura che lo ha scelto come pasto.»
«Avete rilevato qualche segno vitale, in zona?»
«Scherza, ammiraglio? Quaggiù è peggio di una foresta tropicale! I sensori stanno registrando di tutto!»
«Quindi …»
«Quindi niente, signore: i sensori registrano l’attività, ma per i nostri cinque sensi il pianeta è vuoto. Devo ammettere che la cosa mi preoccupa: siamo tutti in tenuta da combattimento, ma è dannatamente difficile difendersi da ciò che non si vede.»
«Ritiene di doversi ritirare, capitano? Voglio la sua opinione di ufficiale sul campo.»
«Ritirarci no, ammiraglio, però gradirei, se possibile, un po’ di copertura dall’orbita.»
«Purtroppo temo che non sarà possibile: i nostri sensori si trovano nelle medesime condizioni dei vostri. Saluti con la mano, capitano: secondo noi, in questo esatto momento lei è circondato da animali delle dimensioni di una lepre …»
«Le andrebbe un piatto di cacciagione per cena, ammiraglio? Sempre che riesca a trovarli!»
Sul ponte di comando, Kastrup ride: sta osservando il suo ufficiale sullo schermo del telescopio principale e l’immagine è talmente nitida che riesce a distinguere il velo di vapore che sfugge dallo sfiato del casco della sua tuta, ma non c’è alcuna traccia dei fantomatici roditori. “Una rete di tane e gallerie?” si chiede, tornando subito a concentrarsi sul problema contingente: «Capitano Tebaldi, mi ascolti molto attentamente: la autorizzo ad interrompere la missione a sua discrezione, qualora si rendesse necessario. Fate tutto il possibile per condurla a buon fine, ma se doveste incontrare difficoltà insormontabili o valutare eccessivo il rischio, chiedete immediatamente il rientro a bordo. Mi ha capito, capitano?»
«Ricevuto, signore. Grazie per la fiducia.»
«Veda di meritarsela, Tebaldi: la terrò d’occhio in continuazione.»
«Lo spero, ammiraglio! Tebaldi, chiudo.»
Il capitano fece un giro su stesso per osservare il lavoro della sua squadra: subito dopo aver rinvenuto il cadavere di Lothya, qualcuno aveva proposto di seppellirne i resti, ma non se n’era fatto niente a causa del gelo, che avrebbe reso un lavoro lungo e sfibrante lo scavo della fossa. A malincuore, i suoi uomini avevano ripreso a pattugliare la zona in cerca di tracce, allargandosi a corona attorno alla radura. Lothya si era infilato in una capsula di salvataggio, ma non doveva essergli servito a molto, viste le estese ustioni che presentava: probabilmente, il sistema di rientro automatico si era guastato nell’esplosione della nave, gettando a capofitto il piccolo guscio nell’atmosfera. Era un miracolo che non si fosse disintegrato! Analizzando i rottami che avevano rinvenuto, il capitano si era fatto un’idea piuttosto precisa: la prua della capsula, contenente sensori e computer di guida, era completamente fusa, un blocco informe di metallo e plastica e non c’era segno che i razzi di frenata si fossero mai accesi a pieno regime, segno che la capsula era piombata di poppa nell’atmosfera e che nei pochi minuti che gli rimanevano, Sven aveva cercato di attutire la fase di rientro manovrando manualmente i razzi di manovra. Poi qualcosa aveva strappato il portello di netto ed aveva estratto il corpo, per cibarsene …
Questa sua supposizione, però, l’aveva presentata unicamente all’ammiraglio Kastrup, sul canale criptato di comando: per gli altri, Lothya era morto a seguito delle ustioni e delle ferite riportate quando era stato sbalzato fuori dall’impatto con il terreno, attraverso le lamiere frastagliate e arroventate; era meglio così, non era necessario aggiungere ulteriori preoccupazioni ad uno stato di tensione già alto. Non ancora.
«Capitano! Capitano! Delle tracce! Dirigono verso nord-est! Dobbiamo seguirle?»
Dal bordo esterno della radura, già mezzo nascosto dagli alberi, un soldato si sbracciava per attirare l’attenzione degli altri.
«Aspetta! Finisco di esaminare questo relitto. Iniziate a marcare l’area e aggiornate le coordinate nei navigatori delle tute.» «Ricevuto, capitano. Procediamo!»
Giunto sul posto una decina di minuti più tardi, Tebaldi si rese conto che non si trattava di semplici tracce: abbandonato ai piedi di un affioramento di granito giaceva il secondo guscio di salvataggio, schiacciato dall’impatto al punto di piegarsi a metà. «È impossibile! Anche questo con danni agli stabilizzatori?!» Non c’era una risposta ovvia alla sua domanda, per uno spaziale era semplicemente impossibile concepirla: la sicurezza e l’efficienza dei mezzi di salvataggio costituivano uno dei fondamenti del loro stile di vita. Eppure … «Avete già provato a scaricare il diario di bordo?»
«Certamente, signore. Forse, una volta tornati a bordo, potranno riuscire a ricavarne qualcosa, ma al momento …»
Tebaldi annuì, conosceva già la risposta prima ancora di porre la domanda. «Qualche indizio sull’identità dell’occupante?»
«Nessuna, signore: il sistema di monitoraggio dei parametri vitali è stato compromesso.»
«Dall’impatto, ovviamente. Domanda stupida.» Non lo era affatto, invece: dal suo punto di vista, alla luce dei sospetti che si stavano facendo strada in lui, il capitano si rese conto che quello era un altro tassello che andava a cementarsi in un mosaico già fin troppo cupo. «Bene! Direi che non ci resta altro da fare che seguire quelle orme.»
Il soldato che le aveva scoperte non si fece scrupolo di mostrare la propria titubanza: «È sicuro che sia la decisione più corretta, signore? Magari il terzo guscio è atterrato indenne qua attorno e il suo passeggero potrebbe avere bisogno di soccorso!»
«Possiamo stabilirlo molto in fretta, Koplosh! Tebaldi a nave: potete eseguire una scansione della zona?»
«Sono Kastrup, Tebaldi. Dica a quel pivello che le sta accanto che non c’è traccia di metallo, caldo o freddo, nel raggio di quindici chilometri da voi, oltre a quello che avete già trovato! È soddisfatto, ora, sergente Koplosh?»
La voce dell’ammiraglio non era irosa, solo leggermente divertita.
«Chiedo scusa, ammiraglio, ma era mio dovere …»
«D’accordo, d’accordo! È una situazione difficile per tutti: facciamo finta che non sia mai accaduto.» tagliò corto Kastrup, facendo sudare freddo il sergente. «Ora riprendete le ricerche. Subito!»
«Ricevuto. Tebaldi chiude.»
Lasciarono la radura in formazione allargata, battendo una striscia larga una dozzina di metri ai lati della pista principale, su per il pendio ghiacciato di una collina che si inerpicava ripida per quasi quattrocento metri dalla radura sottostante. Ogni dieci minuti, si fermavano per fare il punto, riposare e cercare eventuali segni che potessero indicare una deviazione o una sosta da parte del passeggero. «È ferito, signore. Lievemente, ma quelle che stiamo seguendo non sono di certo le tracce che si lascerebbe dietro un uomo nel pieno delle forze: vede come si trascina la gamba sinistra?»
«Quindi staremmo seguendo il comandante Ingram.» Tebaldi osserva pensoso la cresta rocciosa in cima all’altura. «Mi sembra ragionevole: le orme, i rami spezzati corrispondono alla statura e alla stazza di un uomo robusto. Crede che sia arrivato sino in cima, sergente?»
«Molto probabilmente sì, signore. Noi non lo abbiamo trovato e non ci sono nascondigli: difficile credere che si sia disteso nella neve ad aspettare la morte, dopo essere arrivato quassù!»
«L’aspetto di quelle rocce non mi piace per niente … Dica agli altri di stare attenti.»
«Teme un’imboscata?»
«No. Una frana o una valanga: tutto questo pendio mi dà l’impressione di essere instabile.»
«Agli ordini, capitano. Provvedo subito.»
Mentre Koplosh si allontanava radunando gli uomini attorno a sé a mezzo radio per impartire le nuove istruzioni, Tebaldi si volse nuovamente ad osservare la cresta: movimenti furtivi colti con la coda dell’occhio, lassù, come se qualcosa attendesse il momento opportuno per attaccare, nascosto nel biancore abbacinante della distesa ghiacciata, perfettamente a proprio agio in mezzo alla neve. Che brutta sensazione! Si sentiva … no! Era certo di essere osservato persino in quell’istante e non c’entrava nulla Kastrup con i suoi satelliti: quella era la paura istintiva della preda che non riesce a scorgere il predatore. Non ancora, almeno.
«Capitano! Siamo pronti: qua attorno non c’è nulla, le uniche tracce continuano a puntare verso l’alto.»
«Faccia strada, sergente: formazione serrata e silenzio.» Scrollando fatalisticamente le spalle, Tebaldi si accodò ai suoi uomini, i sistemi di puntamento e fuoco delle armi innestate nella tuta settati sull’automatico.

«Perché siete venuti a stare quaggiù?» La voce di Anya, seduta di spalle sulle sue ginocchia, risuona sommessa mentre le insegna a scegliere i germogli migliori per l’infuso. Sorride amaramente tra sé, prima di rispondere: «È uno dei posti più belli del continente: laghi pescosi, montagne coperte di foreste, sottosuolo ricco di funghi e radici … Io adoro i funghi e le radici: sono una vera prelibatezza, affettate sottili e arrostite sulla brace!»
«Davvero spiritoso! Quand’è che ti deciderai a rispondermi seriamente?»
Arrabbiata no, piuttosto offesa e un po’ delusa dalla sua evidente evasività.
«Quello no: se lo giri, ti accorgerai che le foglie sono rovinate dal gelo.»
«Al diavolo! Insisti?» C’è un velo di tristezza, ora, nella sua voce, di cui forse nemmeno lei si rende conto.
«E va bene!» si arrende, «Hai vinto!» Sospira, alitandole delicatamente profumo di pino sul collo: «Abbiamo scelto questo luogo, dopo la guerra, per scomparire, evitare che potessero richiamarci nuovamente in servizio.»
Anya si volta di scatto, evidentemente per cercare di studiare la sua espressione: «Eri un militare?»
Un sospiro più profondo, questa volta: «No: ero un arma!»

[…] Organismi-colonia, generati concedendo a cellule staminali sintetiche le possibilità di autoriparazione del DNA proprie dei batteri più resistenti, infondendo in loro le capacità di rigenerazione totale delle planarie e il sistema di replicazione dei retrovirus, accelerato migliaia di volte. Il concetto era geniale, semplice e complesso allo stesso tempo: fare di un solo uomo una squadra; per ottenere un simile risultato, ogni macro-colonia disponeva di cinque nuclei indipendenti, programmati per rigenerare le parti mancanti una volta separatisi e riassorbirle quando si fossero riuniti in uno. Il sistema nervoso comune raccoglieva e conservava informazioni e ricordi delle sue singole parti, le rielaborava in tempo reale e decideva un’azione concertata in risposta agli stimoli ambientali. In teoria, l’organismo-colonia non necessitava di una forma stabile – a rigore, uno stato colloidale avrebbe costituito l’optimum per lui – ma un’ameba non avrebbe mai potuto impugnare un’arma, raccogliere campioni, prendere prigionieri, così che si decise di modellarlo in una forma base che fosse pratica ed economica da gestire per interfacciarsi con il resto del mondo. I primi esperimenti, svolti nel segreto più assoluto su volontari appositamente selezionati, comportarono l’inoculo di materiale nucleare specifico a mezzo di quegli stessi retrovirus di cui avrebbero dovuto replicare le caratteristiche: veri e propri minuscoli ingegneri genetici che si divertivano a tagliare e ricucire la doppia elica dei soggetti, lungo l’arco di alcuni giorni; al termine di questo fine lavoro di tessitura, attivate le sequenze latenti appena innestate, il primo di questi volontari letteralmente esplose in una folle orgia di replicazione/rigenerazione di neoplasie e nuovi ceppi virali, per fortuna tutti quanti a vita decisamente breve.
Ripulita a fondo la capsula che era riuscita a stento a contenere il brodo cellulare in cui lo sfortunato si era trasformato nel giro di secondi, i responsabili del fiasco decisero che era necessario rivedere progetto e procedure; occorsero sei mesi e altri tredici aborti prima che riuscissero ad elaborare la giusta miscela che, oltretutto, possedeva un innegabile vantaggio: non necessitava più di un’incubatrice vivente, bastava fornirle materiale organico grezzo a sufficienza e quella singola macro-cellula artificiale si sarebbe moltiplicata e sviluppata in poche ore, sino a divenire un soldato completo, pronto per il combattimento.
Uno di noi.
Ricordo i primi soliloqui tra noi cinque aggregati neurali, stentati e caotici perché ciascuno, lungi dal volere integrarsi ed essere integrato, si comportava come se fosse l’unico cervello esistente. Fortunatamente, questo marasma di solito durava non più di due minuti, mentre ancora galleggiavamo nel container blindato di sviluppo. Infanzia breve la nostra: una settimana trascorsa a rinfrescare le nozioni che già conoscevamo per istinto e a migliorare le nostre capacità di squadra. La cosa stupefacente, almeno per i nostri ufficiali superiori, fu che non necessitavamo di rodaggio: fummo, com’è che si dice?, un successone. Sin dal primo incarico […]

[…] «Dottor Levitch! È vero che lei avanzò delle riserve sull’utilizzo in battaglia dei soggetti Alpha/Tau?»
«No, generale, la vostra affermazione non è corretta: io avanzai riserve sul loro utilizzo prima che venissero esaminate in maniera esaustiva tutte le implicazioni e le complessità che un tale progetto presentava e introduceva nella nostra società. Mi fu detto in maniera esplicita che non c’era tempo per queste minuzie.»
«Professore, lei non era convinto della bontà del progetto? In fondo, si trattò di una sua proposta.»
«In risposta ad una vostra ben circostanziata richiesta, generale!» L’ometto azzimato in piedi di fronte al bancone mostra un accenno di rossore sul collo e sulle guance, quasi fosse realmente adirato: in tanti anni da che lo conosco, è la prima volta che lo vedo in questo stato. Noi sopravvissuti, presenziamo alla seduta in qualità di meri spettatori, nonostante questa sia stata convocata proprio per decidere del nostro destino: dieci uomini, due squadre al completo, tutto ciò che è rimasto delle Alpha/Tau dopo la distruzione dei laboratori di ricerca su Nikhara. Non ci siamo più fusi da allora, non abbiamo voluto farlo, per poter ricordare nel modo più preciso possibile i nostri caduti.
«Levitch, si rende conto che sta accusando i vertici più alti delle nostre forze armate?»
«Io non sto accusando nessuno, ministro! Sto riferendo i fatti come si sono svolti, come sono sempre stato abituato a fare, per indole e per professione.» La voce del professore risuona secca e recisa nella sala, senza concedere nulla né chiedere giustificazioni.
«I fatti come crede che siano svolti, dottore: è passato molto tempo, i ricordi personali possono sommarsi e confondersi …»
«I ricordi, forse, ministro: le registrazioni olografiche no di certo.» L’ometto solleva il supporto con cui sta giocherellando da quando è stato chiamato alla sbarra, in modo che risulti ben visibile a tutti quanti. «È la copia master del progetto Alpha/Tau, signori: minuziosa, completa, inviolabile, come da voi espressamente richiesto, cinque anni fa – richiesta che si trova agli atti con tutti il resto, tra parentesi. La metto a vostra disposizione, qualora desideriate rinfrescarvi la memoria.» Un colpo da maestro. Gli astanti ammutoliscono, decisamente sulle spine: sentono il terreno scivolare via da sotto i loro piedi, quasi si trovassero su di un pendio ghiacciato. Il generale guarda verso di noi, incrociando il mio sguardo per un attimo, quasi sperasse che io obbedisca un’ultima volta ai suoi ordini: non muovo un muscolo, non dopo quelle dodici ore trascorse su Nikhara! […]

[…] Fluttuano nel liquido amniotico, riparati e protetti dal mondo esterno, alcuni in crescita accelerata, altri completamente sviluppati, centinaia di serbatoi che sfumano nella nebulosa lontananza. Non sono umani, arrivati a questo punto non avrebbe avuto più alcun senso, ma sono dei nostri, possiamo chiaramente sentirlo anche da qui, persino attraverso lo spessore del cristallo blindato.
Dovevamo essere gli unici, ma qualcuno ha tradito, vendendo il nostro segreto al miglior offerente … oppure si è sempre trattato di questo, riuscire a sviluppare un’arma da poter impiegare ovunque, abile, efficiente, senza alcun rimorso. Sfondando la parete a mani nude, non ci importano più le motivazioni, gli ordini, le direttive: portiamoli via, quanti più possiamo – salvarli tutti è impossibile, molti sono soltanto degli embrioni – e radiamo al suolo il resto, bruciamo tutto in modo che non resti traccia di questo scempio! […]

[…] «Dottor Levitch! Quello è materiale riservato, sottoposto a segreto militare! Potremmo arrestarla immediatamente per averlo divulgato …»
«Non ho divulgato un bel niente, generale! Non creda di potermi intimidire: conosco la legge militare molto meglio di voi tutti messi assieme. Non avete nulla contro di me, lo sapete e state solamente cercando di evitare di essere fatti oggetto di disgusto da parte dell’opinione pubblica … o peggio, ora che sono stati svelati i principali retroscena della vostra operazione. Vi state arrampicando sugli specchi, tentando di scaricare su di me tutta quanta la responsabilità, ma non ci riuscirete, visto che questa registrazione è utilizzabile esclusivamente dal sottoscritto!»
«Dottore …»
«Ministro Hansenarh, ricorda quanto le dissi, il giorno in cui mi ordinò di mandare in battaglia gli Alpha/Tau ancora immaturi? Ora è lei che non ha più tempo!»
Un silenzio di tomba cala sulla sala, per parecchi minuti, poi: «Cosa propone, dottore?»
«Semplice: concedete a questi uomini di ritirarsi come desiderano. Vi assicuro che nessuno sentirà più parlare di loro e del modo in cui li avete usati.»
«Secondo lei dovremmo fidarci della parola di questi … strumenti?! Lei dev’essere davvero un ottimista, Levitch!»
Levitch fa spallucce: «A differenza vostra, loro conoscono il significato della parola onore: avete esplicitamente chiesto che venisse loro inculcata prima ancora della nascita. Comunque, questi uomini hanno già consegnato i loro affidavit al governo e all’alto comando: potete verificare anche subito se volete.»
«E va bene! Vogliamo essere magnanimi e generosi: non c’è nessuno da incolpare qui, se non la guerra stessa e chi l’ha scatenata. Concediamo a questi valorosi soldati di ritirarsi dal servizio attivo, per vivere la loro vita sul pianeta che sceglieranno liberamente. L’udienza è tolta!»
Uscendo dalla sala, il dottor Levitch mi consegna la registrazione olografica: lui sa, come me, che ha mentito in aula, perché anch’io posso accedere ai dati, visto che è il mio DNA complesso che ha usato come chiave per criptarli. Mi fissa a lungo, come per imprimersi i miei lineamenti nella memoria, prima di tendermi la mano; non la stringo, mi limito ad abbracciarlo stretto, mentre mi sussurra all’orecchio: «Buona fortuna! Spero che tu riesca a dimenticare.» Poi si volta e se ne va, lasciandoci in mezzo all’atrio come dei balocchi dimenticati. […]

«Questo mondo era perfetto per noi: isolato, lontano dalle rotte principali, aspro abbastanza perché a nessuno venisse in mente di colonizzarlo anche solo per lo sfruttamento minerario. Giungemmo a bordo di una vecchia carcassa tenuta insieme con la speranza, un trasporto-truppe residuato bellico declassato a nave per trasporto promiscuo, rattoppata e riattata alla bell’e meglio: a confronto dei nostri alloggi a bordo delle navi che usavano per portarci sull’obiettivo, era lussuosa quanto un panfilo da crociera! Eravamo di nuovo in due: A1-2-5, nome in codice “Thomas” e A1-3-7, nome in codice “Vladimir”, detto Vlad. Una scelta dettata dall’economia di esercizio, come puoi immaginare: in due si consumano meno risorse vitali, e poi c’erano tutti quelli che eravamo riusciti a portare via da Nikhara, addormentati nella stiva principale. Una bella compagnia, tutto sommato.»
Anya non parla, si è rannicchiata contro il suo petto, in cerca di … calore? No. Conforto? Forse. Dopotutto, non importa poi molto: ora che conosce la verità, sicuramente scapperà a gambe levate dall’incubo che ha sterminato intere popolazioni. Peccato! Mi ero veramente affezionato a lei: io …
«Perché?»
«Scusami? Non capisco: perché cosa?»
«Perché lo hai fatto!»
«Eravamo materiale militare: andavamo dove ci veniva ordinato di andare …»
«Non mi riferivo a quello! Perché una persona come te ha accettato di isolarsi dal mondo per far piacere a quei mostri!»
Sta piangendo! Per me? Assurdo! «Anya … Abbiamo promesso, e, credimi, è stato molto meglio così.» Cerco di consolarla cullandola piano, ma lei non ne vuole sapere: «Stupido! Credi davvero che vi lasceranno in pace solo perché avete promesso? Siete davvero così ingenui?» Furiosa e bellissima, si scosta da me, gli occhi che lampeggiano colmi di lacrime, cercando di inculcarmi quello che già so da moltissimo tempo. Scuoto la testa, sorrido, carezzandole la guancia: «Non siamo ingenui: sappiamo benissimo che non ci lasceranno mai in pace, li abbiamo sconfitti, nonostante loro avessero predisposto la nostra morte a tavolino. Ricordi? Ho detto che siamo stati un successo sin dalla nostra prima missione. C’è un particolare che loro non avevano tenuto in conto, forse per errore, forse perché non se lo aspettavano: noi impariamo, da noi stessi, da quello che vediamo, da quello che incontriamo, registriamo tutto, ricordiamo tutto e ne facciamo tesoro! Ogni qualvolta raggiungevamo il punto di raccolta prefissato, dopo un incarico, eravamo più forti, più esperti, più resistenti. Più letali.» Mi sto vantando di essere un mostro, ma Anya deve capire, deve comprendere a fondo: «Questo ci ha reso sempre più pericolosi, per i nemici e per loro, i nostri padroni.» Dalla mensola sopra la finestra, raccolgo la statuetta di un lupo di legno chiarissimo, quasi bianco, le fauci scoperte in un ringhio che potrebbe anche essere scambiato per un riso di scherno. «Questo lo abbiamo chiamato Firhotha, Vlad ed io, come la belva che abita i ghiacci dell’emisfero notturno della madrepatria. Riesci ad indovinare per quale motivo?»
Lei mi fissa, la bocca serrata: sa, ma non riesce, non vuole credere. Io annuisco: «Erano simili a noi, nella loro struttura primaria, ma progettati con scopi diversi: noi eravamo Alpha/Tau; loro dovevano diventare Omega.»
«Squadre di … sterminio.» Rabbrividisce.
«Animali di ogni specie, da liberare sull’obiettivo per portare la morte ad interi pianeti ribelli. Si sarebbero riprodotti, adattandosi perfettamente alle varie nicchie ambientali, sino a diventare invisibili.» 
«Per questo vi inviarono laggiù, perché i ribelli avevano …»
«I ribelli non avevano: il laboratorio era sotto diretto controllo militare, nascosto in bella vista là dove gli interessati non avrebbero mai pensato di guardare. Noi dovevamo servire come apparecchiatura di collaudo.»
«Sono stati loro? Ad uccidere Sven e Charles? Sono stati loro?»
«No. Sven era sicuramente già morto quando la sua capsula è stata espulsa dalla nave: è stata investita in pieno dall’esplosione. Charles è caduto dalla scogliera: aveva battuto la testa sulla roccia, era ferito … Mi spiace, davvero.»
Ammiro la sua figura perfetta ansimante accanto al tavolo, voglio saziarmi della sua dolcezza, poi mi volto per uscire dalla stanza: «Vi staranno cercando: se ti copri bene, potrai raggiungere una delle capsule e metterti in comunicazione con i soccorsi. Oh, quando te ne andrai, sappi che loro non ti faranno mai del male: può sembrare assurdo, ma siamo collegati, quello che proviamo noi, a modo loro, lo provano anche loro e viceversa. Sei al sicuro, lo sarai sempre.» Esco per non mettermi ad urlare. È meglio così del resto, lei non è fatta per vivere quaggiù, sotto questo cielo. Davvero, è proprio un gran peccato.

«Sembra impossibile ma ce l’abbiamo fatta, abbiamo raggiunto la cima!» Koplosh si guardò attorno, cercando di orientarsi; nonostante la temperatura polare stavano tutti ansimando e sudando per la fatica. «Non riesco a credere che un uomo ferito sia riuscito ad arrivare sin quassù. Certo che ne vale la pena! La vista è meravigliosa!»
«Sergente! Non siamo qui per fare del turismo!»
«Lo so benissimo, capitano. Ciò non toglie che trovi il paesaggio magnifico. È forse un crimine?»
«No; inappropriato, forse, ma non un crimine. Mi scusi, Koplosh, è che non mi sento tranquillo, così esposto. Cerchiamo i dispersi e vediamo di toglierci da qui al più presto, d’accordo?»
«Agli ordini, signore! Avete sentito il capitano? Cerchiamo delle tracce e vediamo di non cacciarci in ulteriori guai! Accusate il ricevuto e mettetevi al lavoro!» Koplosh sembrava sulle spine, mentre si rivolgeva nuovamente al superiore: «Capitano Tebaldi, posso porle una domanda non ufficiale?»
Tebaldi, che stava esaminando la sponda opposta del lago, ad un chilometro e mezzo di distanza, si voltò mentre chiudeva in maniera palese la trasmittente satellitare: «Ritengo che questo sia un sì. Cosa vuole sapere, sergente?»
«Cosa siamo venuti a fare su questo pianeta dimenticato da Dio?»
«Un incidente è occorso ad un esplorante in questa regione: noi siamo qui a recuperare i superstiti.»
«Capitano! Sappiamo benissimo tutti e due che non è per questo che siamo scesi! Non inviano una squadra speciale per recuperare dei superstiti!» Nella foga, Koplosh aveva afferrato Tebaldi per il braccio, ma nessuno dei due ci fece caso. «L’esplorante in questione era diretto a Kembryon e solo un pazzo o un totale deficiente prenderebbe questa rotta per raggiungere Kembryon dalla loro base di partenza!»
«Cosa vorrebbe insinuare con questo?»
«Io non insinuo niente: conoscevo il comandante di fama e di certo non era nessuna delle due cose.»
Tebaldi fece spallucce: «Potrebbe essere impazzito tutt’a un tratto, per quel che ne sappiamo.»
«Non lo crede neppure lei, e anche se fosse, per una semplice operazione di soccorso non avrebbero richiamato un incrociatore pesante alla base per una settimana e soprattutto non ci avrebbero caricato un ammiraglio del calibro di Kastrup! Allora, mi sbaglio? Cosa bolle in pentola?»
«Potrebbe essere pericoloso ficcare il naso in faccende che non la riguardano, sergente Koplosh.»
«Guarda caso, ho imparato che le faccende che mi portano su di un pianeta infernale come questo, alla ricerca di qualcuno che nel frattempo è sicuramente morto di ipotermia, visto che abbiamo aspettato giorni inutili, prima di intervenire, mi riguardano eccome, capitano, per il semplice motivo che alla mia vita ci tengo!»
«Più che giusto. Cosa crede di sapere?»
«Nulla di preciso, ma è evidente che c’è dell’altro: non so il terzo, ma i due moduli di rientro che abbiamo trovato sono stati sabotati. Per assicurarsi che non potessero atterrare intatti? Non lo so, ma se così fosse, verrebbe da chiedersi perché inviare una spedizione di soccorso per recuperare dei cadaveri finiti fuori rotta!»
«Un pretesto …» Tebaldi sussurrò tra sé «Un pretesto per inviarci quaggiù, perché potessimo trovare loro.»
«Loro chi? I resti dell’equipaggio?»
«I sopravvissuti delle ultime squadre Alpha/Tau, sergente.»
La stretta di Kloposh si serrò dolorosamente sul bicipite del capitano: «Sono impazziti, per caso? Cosa dovremmo fare se li trovassimo, offrirci come bersagli? E poi le Alpha/Tau sono state sterminate nella campagna di Nikhara, non ci sono …»
«Due.» Tebaldi alzò due dita: «Sopravvissero in due e si ritirarono qui. L’ammiraglio Kastrup ha ricevuto ordine dal Comando Strategico di trovarli e di recuperare tutta la documentazione inerente che potrebbero aver trafugato.»
«E hanno mandato noi?!» Koplosh si voltò a guardare il lago ghiacciato sotto di loro. «Se veramente le Alpha/Tau si sono trasferite quaggiù, perché non lasciarle marcire in pace? Sono stati dichiarati criminali di guerra dodici anni fa!»
«Secondo Kastrup, subito dopo la vittoria, il CS e il governo centrale strinsero un patto con lo scienziato a capo dell’equipe che aveva sviluppato il progetto: avrebbe concesso loro di ritirarsi purché non si facessero più vedere nello spazio conosciuto. E il patto stato ottemperato da ambo le parti. Sino ad ora.»
«Cosa è cambiato?»
«Il dottor Levitch è passato a miglior vita tre mesi fa.»
«E il CS si è subito sentito svincolato dagli accordi presi. Non depone certo a loro favore!» Scostata la maschera, Koplosh sputò a terra per sottolineare cosa ne pensava. «Ha parlato di documentazione: a cosa si riferiva, di preciso?»
«Questo è riservato, sergente!»
«Sarà anche riservato, capitano, ma se come credo dovremo combattere, chi le assicura che quello che Kastrup desidera così tanto non venga distrutto nella foga della battaglia? Se nemmeno sappiamo di cosa si tratta, potremmo bruciarlo per errore …»
Tebaldi rise: «Sergente, lei è sprecato, qui: dovrebbe far parte dei servizi segreti! E va bene: si tratta di una registrazione olografica che contiene …»
«Capitano! Sergente! Venite qui! Abbiamo trovato delle tracce!»
Un soldato si era accucciato sull’orlo della scarpata che cadeva a picco verso il lago: quando lo raggiunsero, indicava uno spuntone di roccia pochi centimetri sotto il ciglio. «Attenti! Le rocce sono molto sdrucciolevoli! Vedete? Qualcuno è scivolato in questo punto e deve aver battuto la testa su quella sporgenza: quello è di sicuro del sangue.»
Tebaldi e Koplosh si guardarono: «Se è caduto nel lago da qui …»
«È morto, senza alcun dubbio: indebolito per le ferite, stordito dalla botta in testa, deve essere annegato in pochi secondi.»
«Se non è congelato prima, signori: a giudicare dallo strato di ghiaccio, l’acqua, laggiù, raggiungerà a stento i due, tre gradi! Poveraccio, che brutta fine ha fatto!»
«Tebaldi a Kastrup! Ammiraglio, abbiamo trovato il comandante … rettifico: abbiamo trovato il probabile luogo del decesso del comandante Anmun. Ripeto: abbiamo trovato il probabile luogo del decesso del comandante Anmun.»
«Kastrup a Tebaldi. Probabile, capitano? Non ne siete certi?»
«Abbiamo seguito le sue tracce sino alla cima di una scogliera a picco su di un lago piuttosto vasto: il ciglio è molto scivoloso e uno dei miei uomini ha notato uno smottamento recente e molto sangue su di una sporgenza appena sotto il bordo. Ritengo che il comandante, già ferito, sia inciampato o scivolato, battendo la testa e finendo di sotto.»
«Ho trovato il lago sulla mappa del continente: qualche possibilità che sia sopravvissuto?»
«Ammiraglio, ci sono circa cinquecento metri di caduta libera da quassù allo strato di ghiaccio spesso un metro che ricopre le rive: non vedo cadaveri sotto di me, quindi ne deduco che il corpo sia sprofondato dopo aver sfondato il ghiaccio e che questo si sia riformato, cancellando ogni traccia.» Tebaldi si interruppe giusto il tempo di ricacciare la nausea: per un istante, la sua immaginazione sovreccitata gli aveva presentato un’istantanea fin troppo dettagliata dell’impatto del corpo sul ghiaccio e di quanto ne era immediatamente seguito. «Avete rilevato altre segnature termiche o magnetiche in zona?»
«Ancora nulla, al momento, ma la zona di dispersione dei frammenti è molto ampia e a quanto vedo dal satellite, completamente coperta di foreste! Crede di riuscire a raggiungere il lago, da dove si trova?»
«Certo, ma bisognerà scendere nuovamente la collina e trovare un sentiero in mezzo al bosco … Mi sento un po’ come l’avventuriero delle leggende, in cerca della strega malvagia.»
«Se riesce a scherzarci su, non deve poi essere tanto male, sulla superficie! Quasi quasi vi raggiungo!»
«Ne saremmo onorati, signore. Indossi degli abiti pesanti, però: le tute termiche bastano appena.»
«Hmf! Messaggio ricevuto, capitano! Me ne resterò a bordo, al calduccio, a supervisionare i vostri progressi. Kastrup, chiudo.»
Tebaldi ridacchiò fra sé, poi si rivolse alla sua squadra: «Bene! Avete sentito il capo: dobbiamo raggiungere il lago e proseguire.»
Un movimento appena percepito con la coda dell’occhio, alle spalle del soldato più discosto dal gruppo, uno spruzzo di rosso sangue arterioso accompagnato dal rumore di ossa stritolate, il corpo privato delle gambe che cadeva a terra, iniziando a rotolare lungo il pendio: cominciò così, senza preavviso alcuno. Contrariamente a quanto narrava la leggenda, questa volta non era stato l’avventuriero a trovare la strega per primo.

«Thomas! Aspettami!» Perché fa così? Tutto ad un tratto … Crede forse che sia cambiato qualcosa? Stupido! «Accidenti a te, maledetto zuccone! Vuoi fermarti?» Camminare a passo rapido lungo il sentiero che conduce alla spiaggia avrebbe messo a dura prova un acrobata, figuriamoci una semplice ragazza impacciata da mezzo metro di pellicce. E quel dannatissimo idiota non fa nemmeno finta di rallentare! Come poteva credere che … oopss! Il piede destro scivola su di un lastrone di ghiaccio più infido degli altri, facendola atterrare pesantemente sul sedere: per sua fortuna, è bene imbottita e non si fa tanto male, ma si rende conto con sgomento di essere lanciata come un bob verso l’acqua libera proprio in fondo al sentiero che svolta a gomito a destra e di non riuscire in alcun modo a fermarsi! Pazienza, vuol dire che doveva andare a finire in questo modo e … Lo strattone che l’arresta ad un metro dall’orlo è talmente brusco che per poco non si mozza la lingua tra i denti; cercando di riprendere fiato, osserva una pietra smossa che prosegue la propria scivolata affondando nell’acqua gelida seguendo un arco aggraziato.
«Ti ho già detto di prestare attenzione quando cammini sul ghiaccio, vero?»
Per tutta risposta, Anya si allontana bruscamente da lui che la sta aiutando a rimettersi in piedi, voltandogli le spalle e riprendendo a scendere verso la spiaggia: non vuole il suo aiuto, non vuole ascoltarlo, non vuole neppure vederlo! Dopo cinque o sei passi si ferma, stupita del proprio atteggiamento del tutto irrazionale, e si mette a fissare il sentiero ghiacciato, vergognandosi come una ladra; quando i passi sicuri e pacati di Thomas si fanno abbastanza vicini, tende la mano, timida: il cuore le dà un balzo quando lui l’afferra tenendola stretta, senza fare alcun commento. In riva al lago, si fermano ad ammirare lo spettacolo della catena che li circonda, più elevata alla loro sinistra, quasi a sfiorare il cielo. «È bellissimo, qui!» Silenzio, non imbarazzato, no: piuttosto, tenero, amichevole. Ma deve sapere: «Che significa che mi stanno cercando? Chi?»
«Non so chi siano, di preciso: so che stanno cercando i superstiti della tua nave. Sono scesi questa mattina al levar del sole.»
Una smorfia le storce la bocca: «Sono un pochino in ritardo, che ne dici?»
«No, seguono perfettamente la tabella di marcia.»
«Quale tabella?»
«Se ti dicessi che è estremamente probabile che il vostro non sia stato un incidente, mi crederesti?»
«Un pretesto … per venire quaggiù a cercarvi?»
«No: a cercare voi.»
«Non essere così pignolo! È lo stesso.»
«E qui ti sbagli di grosso: ufficialmente, una missione di soccorso comporta meno, come potrei dire, problemi di ordine burocratico di una dichiaratamente intesa allo sterminio di due ex-soldati e al recupero del materiale compromettente in loro possesso. Capisci?» in scioltezza, Thomas lancia una pietra piatta che ha raccolto durante il tragitto: «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto … Uhm! Ho fatto di meglio.»
Anya lo osserva in silenzio, poi, notato un tumulo di terriccio e ghiaia più oltre, lungo la spiaggia, si incammina per dedicare una preghiera: sa già di che si tratta. Giunta di fronte alla tomba, china il capo, mentre una lacrima le si gela sulla guancia. Thomas è lì accanto, giocherella con un’altra pietra: «Non ho potuto fare di meglio, mi spiace.»
«Non fa nulla, se non altro ha trovato un luogo dove riposare. Grazie.»
«Ora che farai?»
«Tu cosa vuoi che faccia?»
«Non sta a me decidere della tua vita, Anya.»
«Se non te ne fossi accorto, lo hai già fatto, raccogliendomi in legnaia.»
«Questo è diverso, e lo sai: potresti tornare alla tua vita di prima, in un luogo civilizzato.»
«Mi vuoi cacciare, Thomas? Sei proprio deciso?»
«No.» Thomas lancia il sasso con tutte le sue forze, facendolo volare lontano: «Io ti terrei qui per sempre.»
«Bene. Allora è deciso.»

«Non disperdetevi! Dobbiamo cercare di coprirci a vicenda, maledizione! Non sprecate munizioni inutilmente!» Tebaldi imprecava, sparava e arretrava contemporaneamente, cercando di non ruzzolare come una palla lungo il sentiero. Cercava anche di trovare un senso in quello che stava accadendo tutt’attorno a loro: sembrava che la neve, le rocce e gli alberi si fossero coalizzati per divorare lui e i suoi uomini! Il primo cadavere si era pietosamente arrestato a metà discesa, incuneandosi contro un affioramento di granito, prima che loro riuscissero a reagire, sventagliando il punto in cui si era venuto a trovare con tutto quello che avevano a disposizione, colpendo solo aria. Il grido successivo, accompagnato dallo scricchiolio agghiacciante di ossa spezzate, provenne dalle loro spalle, dove un esperto di guerriglia cercava di raccogliere l'avambraccio destro prima di arrovesciare gli occhi e svenire per lo shock. Venti secondi più tardi, all’estremità opposta del loro schieramento, la testa di un soldato scelto andava a rimbalzare contro il tronco di un albero, innescando una cascata di neve ghiacciata, finendo per scomparire lungo il pendio come una palla: per quanto sapesse che era assolutamente impossibile, per lunghi minuti, Tebaldi fu certo che stesse ancora urlando, prima di sparire alla vista. «Comando! Ci stanno massacrando! Ho già perso tre uomini: venite a raccoglierci!»
«Capitano, sono Kastrup. Ho dato ordine di lanciare una navetta-robot per recuperare i feriti: vi raggiungerà in quattro minuti, ma voi dovrete cercare di raggiungere un punto più praticabile. Riuscite a disimpegnarvi?»
L’imprecazione di Tebaldi poco mancò che arroventasse gli auricolari dell’ammiraglio: «Signore, se sapessimo da cosa dobbiamo disimpegnarci, lo faremmo più che volentieri, può starne certo! Non abbiamo quattro minuti, non vedete com’è la situazione, dall’orbita?»
«Capitano, non …»
«Arretrate! In gruppo, in gruppo, deficienti! Ancoratevi a quella sporgenza, presto!» Tebaldi strattonò Koplosh che si era fermato a guardare incantato un balenio bianco lanciato contro di lui all’altezza del torace, gettandolo a terra giusto in tempo, prima che degli artigli quasi invisibili lo sventrassero come una trota: «Koplosh! Si è rincoglionito tutt’a un tratto? Si muova, prima che le spari, idiota!»
«Capitano! Mi risponda!»
«Ora non ho proprio il tempo di darle retta, ammiraglio! Ho una navetta da prendere tra poco più di tre minuti! Chiudo.»
E chiuse davvero, sfilando il trasmettitore dagli spinotti del casco, sollevando la testa quel tanto che bastava a rendersi conto della situazione: la creatura bianca, qualunque animale fosse, non aveva perso tempo in un secondo attacco: si era limitata a proseguire la sua corsa folle in mezzo agli avversari, sgarrettando il più vicino, sparendo poi nel folto degli alberi: per quei pochi istanti era stato possibile seguirne la traiettoria osservando attentamente gli schizzi di sangue che sollevava al suo passaggio.
«Folle! Deve essere un incubo!» Della decina di uomini che componevano la squadra di soccorso, ormai ne erano rimasti in piedi la metà, che cercavano terrorizzati di guardare in ogni direzione contemporaneamente. Per loro fortuna, un po’ correndo un po’ sdrucciolando, avevano raggiunto la base del pendio relativamente pianeggiante, e si erano attestati attorno ad un masso, coprendo come meglio potevano l’arrivo del capitano e del sergente, rimasti indietro a recuperare un ferito. «Un minuto! La vedete?»
«A ore due, signore! Ma se non rallenta …»
«Rallenterà: sono state progettate apposta per questo! Vedete di essere tutti a bordo quando decollerà perché dubito che ci sarà un secondo autobus, questa volta.»
«Come se non lo sapessimo, signore! Dannazione, ma da dove arrivano?»
“La domanda più corretta sarebbe quanti sono, mio caro!” pensò Tebaldi, sorreggendo meglio il ferito che tendeva ad accasciarsi a terra. “Una domanda ancor più pertinente sarebbe perché dall’orbita non hanno visto nulla: con la dotazione di sensori che hanno a bordo, potrebbero contare i peli sul culo di una pulce nascosta sotto un sasso, eppure noi siamo qui a farci massacrare da dei fantasmi!” «Forza, ragazzi! Ancora un minuto e saremo in salvo! Non mollate, la navetta sta …»
Non poté terminare la frase: colpito con forza alle spalle da qualcosa di molto più grosso e veloce di lui, il capitano si ritrovò lungo disteso a terra con la bocca colma di neve; alla sua sinistra, il rantolo strozzato del ferito che veniva schiacciato a forza nella neve, seguito dallo schiocco liquido della sua spina dorsale che si spezzava. Alzata la testa, Tebaldi vide Koplosh volare scompostamente come una bambola di pezza verso l’affioramento roccioso, il collo spezzato piegato ad angolo retto. L’ultimo uomo rimasto della squadra stava trascinandosi a bordo la gamba destra squarciata, cercando di tamponare l’emorragia con le mani: trascorsero sette secondi, prima che il capitano si rendesse conto di quanto stava per accadere. Troppi. Balzato in piedi, incurante di tutto quello che lo circondava, si lanciò a capofitto verso il portello ormai in fase di chiusura: «Aspetta! Non chiudere! ASPETTA!» urlò, ma era inutile e lo sapeva: glielo diceva lo sguardo stralunato del superstite, folle di terrore, attraverso la fessura sempre più ristretta …
Otto secondi più tardi, i boosters ad alta accelerazione scaraventarono la navetta di nuovo nello spazio, sollevando una piccola bufera di neve nella radura; fu quello che salvò Tebaldi, permettendogli di nascondersi e fuggire dalla cosa che aveva intravisto chiaramente solo per un attimo: «Meraviglioso!» mormorò, incapace di trattenersi, mentre la bestia simile ad un lupo che li aveva sterminati si girava sdegnosa svanendo nel bosco.

«Hai freddo?»
«No, sto bene.»
«Bugiarda! Stai tremando!»
«Bugiarda? Come ti permetti?»
«Non stai battendo i denti per il freddo?»
«Come ti viene in mente?»
«Allora queste non ti servono: me le riprendo!» Faccio per strattonare le pellicce, ma Anya si scosta, avvolgendosele ancora più strettamente addosso.
«Sei un gran rompiscatole, lo sai?»
«E tu una testarda senza pari! Metti questo, prima di congelare!» Le passo il mio giubbotto, drappeggiandoglielo attorno alle spalle come un mantello. Lei mi guarda, un po’ spaventata: «E tu che farai?»
Mi stringo nelle spalle: «Ci sono abituato.» balbetto, i denti che risuonano come nacchere.
Anya ride: «Scemo! Vediamo di sbrigarci a rientrare in casa, piuttosto!»
«Come desideri.» Detto fatto, me la carico in spalla e mi avvio quasi di corsa lungo il sentiero in salita. Una decina di minuti più tardi, mentre sostiamo davanti alla porta esterna, udiamo il rombo inequivocabile di un razzo in decollo: guardando verso la scogliera nordorientale, riesco ad intravvederne la scia luminosa che si perde tra le nuvole.
«Erano i miei cosiddetti soccorritori, vero?»
«Così parrebbe.»
«E tutti quegli spari che abbiamo sentito, in riva al lago? Provenivano dalla stessa direzione, mi pare.»
«È possibile, sì.»
«Sei fin troppo evasivo, Thomas, caro.» Mi gira attorno, per fermarsi a fissarmi dritto negli occhi: «Che cos’altro non so, di tutta questa faccenda?»
«Nulla. Sai tutto.»
«Tutto quello che c’è da sapere? O tutto quello che devo sapere per il mio bene?»
«Tutto. Tutto quanto.»
«Parola di soldato?»
«Parola di soldato.»
Si sporge in avanti, stampandomi un caldo bacio sulle labbra: «Allora entriamo! Ho fame e fa un freddo del diavolo, qua fuori! Ehi, ma che fai?»
Io le sorrido, sollevandola da terra dopo aver aperto la porta: «La volta scorsa non eri cosciente, quindi non vale.» le rispondo, varcando la soglia: «Benvenuta a casa, Anya!»

Gli ci volle una notte per attraversare il bosco e sbucare su quel sentiero ricoperto di ghiaccio, una decina di metri in costa sopra il lago; non aveva osato fermarsi, nonostante la stanchezza: aveva paura, paura che quella creatura lo stesse seguendo, nascosta tra le ombre, scivolando silenziosa nella neve, bianco su bianco. Così aveva proseguito, sempre avanti, su e giù per un crinale meno scosceso di quello su cui era avvenuto il massacro – una magra consolazione! – scostando a fatica i rami, arrancando nella neve fresca la cui crosta ghiacciata si spezzava facendolo affondare ad ogni passo. Per colmo d’ironia, appena prima di scollinare aveva trovato, semisepolto dalle nevicate sopravvenute nel frattempo, il terzo modulo di salvataggio: spezzato in due dall’impatto con il terreno, presentava gli stessi segni di sabotaggio degli altri due; l’interno era chiazzato di sangue congelato, segno che l’occupante era rimasto ferito, ma una rapida perquisizione gli aveva fatto trovare le scorte di sopravvivenza intatte, a parte un paio di kit di sutura automatici e delle confezioni di antidolorifici. “Si è allontanata sulle sue gambe. Incredibile!” Tebaldi aveva stipato in fretta e furia tutto quello che poteva nelle tasche della tuta prima di riprendere il cammino “Già, incredibile. Ma dove sarà andata a morire? A valle? Oppure … Fumo!” Appena visibile contro le stelle, quasi fosse stato abilmente nascosto, ma inequivocabilmente, un filo di fumo saliva da qualche punto oltre il crinale. “E dalla nave ancora nessuna risposta! Che diamine sta succedendo?” Testardamente, il capitano di era imposto di non pensarci, almeno fino a che non fosse stato al sicuro, ed aveva proseguito verso quella flebile speranza come, con ogni probabilità, aveva fatto il sottotenente del reparto esplorativo Anya Levitch. Ironico e paradossale: avevano usato la figlia del responsabile del progetto Alpha/Tau per stanare e distruggere le sue stesse creazioni! A quel pensiero, Tebaldi si sentì cogliere dalla nausea. Piantare tutto quanto? Per andare dove? Era solo, laggiù: la sua unica possibilità consisteva nel portare a termine la missione, riprendere contatto con l’incrociatore e ottenere l’esfiltrazione da quell’inferno gelato. “Quindi avanti, ragazzo mio! E occhio alle spalle: non si può mai sapere chi passeggia per i boschi di notte, oltre a te …”
Il sentiero terminava di fronte ad una tettoia stipata di legna, ma provenendo da dove? Seguirlo avrebbe risposto alla sua domanda, ma non subito: aveva bisogno di riposarsi un poco, di mandare giù qualcosa, prima di crollare. Se aveva intuito giusto, presto avrebbe colto il frutto delle sue fatiche.

Anya guarda dalla finestra verso le montagne lontane, lo sguardo sfocato dai pensieri; delicatamente, per non distrarla, poso una tazza di tisana bollente di fronte a lei e mi ritiro ad osservare in silenzio il suo profilo, sorseggiando la mia. Dopo poco lei si riscuote: «Che buon profumo! Cosa …? Oh, grazie. Ma potevi anche avvertirmi, invece di scivolarmi attorno come un fantasma!»
«Eri così assorta che mi dispiaceva disturbarti. Ti sei pentita della tua scelta?»
I suoi occhi si spalancano al disopra della tazza: «Certo che no! Stavo solo chiedendomi …»
«Sì? Continua.»
«Hai detto che eravate rimasti in due … in dieci … bè, insomma, hai capito, no?»
Ridacchio, sorbendo la tisana: «Non esattamente: qual è la domanda?»
«Quando mi presenterai gli altri?»
«Vorresti davvero conoscerli? In questi ultimi anni siamo diventati decisamente molto simili: dubito che noteresti delle differenze sostanziali.»
«Non sarai geloso di te stesso, vero?»
«Perché dovrei esserlo? Sono sempre io!» rispondo a disagio.
Anya mi si avvicina, un’espressione furbesca in viso «Davvero? Cinque nuclei di pensiero indipendenti, per ottimizzare strategie e modalità di intervento: me lo hai detto tu, ricordi?»
Colto alla sprovvista, boccheggio: «Anya …»
Lei scoppia a ridere: «Sto scherzando, scemo! E tu che mi hai creduto!»
Rimango in silenzio, per non aggravare ulteriormente la mia situazione. È bello sentirla ridere, anche se l’oggetto della sua ilarità sono io …
«C’è veramente qualcuno che vorrei conoscere, però.» riprende il discorso, dopo un po’
Io annuisco: «Vlad.»
«Esatto! Dov’è?»
«Lui …»
«Non sarà morto, vero? Mi dispiace, non lo sapevo. Scusa!»
«No, non è morto! Cinque anni fa decise di andare ad esplorare e si diresse verso le montagne che ammiri tanto.»
«Non avete cartografato il pianeta, quando siete arrivati qui?»
«No. Non ne avevamo bisogno: trovato un luogo che ci piaceva, siamo scesi.»
«Assurdo!»
«Vecchie abitudini apprese durante l’addestramento: è così che facevamo, in guerra.»
Anya scuote la testa in segno di esasperazione: «L’esploratrice che è in me ti disapprova in toto, sappilo!» puntualizza recisa; poi, più dolcemente: «E non l’hai più visto da allora?»
«No. Alle volte penso di andare a cercarlo, ma poi mi dico che se dovesse tornare, non troverebbe nessuno ad attenderlo, e così rinuncio.»
«Non … non lo avverti?»
«Alle volte, in modo flebile. Mi basta sapere che è vivo, da qualche parte oltre le montagne.»
Un brivido la scuote da capo a piedi; io mi volto verso il camino giusto in tempo per veder morire la brace dell’ultimo ceppo. «Scusami. Ho dimenticato di rifornire la scorta di legna, ieri! Vado subito a prenderne dell’altra!»
«Andiamo subito a prenderne dell’altra, vorrai dire.»
«Fa freddo fuori.»
«Dimmi qualcosa che non so!»
«E va bene, mi arrendo: è inutile tentare di ragionare con te.»

Rumore di voci proveniente dall’altro capo del sentiero, oltre la curva trenta metri più avanti. Tebaldi, appostato dietro la più defilata delle cataste, attendeva da un quarto d’ora che i due arrivassero a tiro, ma sembrava che i suoi bersagli non avessero alcuna fretta, nonostante la temperatura a stento sopportabile. Due colpi: non avrebbe avuto bisogno di spararne di più, poi quell’incubo sarebbe finito. Già immaginava il tepore della navetta che l’avrebbe raccolto, lui e tutto quello che sarebbe riuscito a riportare indietro. E quando si fosse ritrovato di fronte Kastrup, seduto comodamente alla sua scrivania, si sarebbe tolto qualche sasso dalle scarpe, prima di chiedere di essere messo a terra e trasferito ad un incarico meno pericoloso; il bello era che non avrebbero potuto negarglielo, visto che avrebbe portato a termine una missione praticamente impossibile e …
Dalla curva sbucarono due figure rese deformi dagli strati di pellicce che li ricoprivano da capo a piedi, più o meno della stessa altezza e corporatura, le voci rese irriconoscibili dalle sciarpe che coprivano quasi del tutto i loro volti. Due superstiti di Nikhara. Perfetto! Prese la mira con calma, ben nascosto dai ceppi e fece fuoco su quello più vicino. Il tonfo del proiettile risuonò attutito ma nitido, mentre una chiazza rosso vivo si allargava velocemente all’altezza della spalla sinistra. “Dannazione! Ho sbagliato! Presto, devo fare presto prima che possano reagire!”

«E così vorresti che ti insegnassi ad intagliare il legno!»
«Ritieni forse che non possa esserne capace?»
«Non ho detto questo. Solo, non vorresti prima abituarti a questa vita, senza correre troppo?»
Anya ci pensa un poco sopra, proprio mentre raggiungiamo l’arco che dà sul lago. Pur sapendo che non è prudente, lei si ferma ad ammirare il panorama, proprio come me: «Hai ragione: è indescrivibile, quello che si vede da quassù! Dovresti provare a spiegarlo agli altri tuoi quattro gemelli!»
«Fatica inutile! È da quando siamo arrivati che ci provo, ma niente, loro sono dei tipi pragmatici.»
«Ci penserò io a far loro cambiare idea, vedrai!»
«Suona come una minaccia.»
«Lo è!»
«Sei incorreggibile. Tu …» Mi arresto, c’è qualcosa che non va: per una volta tanto siamo tutti e cinque d’accordo.
«Thomas, cosa c’è? Perché ti sei arrestato di botto? Non stai bene?»
Lo sbuffo secco dello sparo è inaudibile per Anya, ma non per me, per noi. Automaticamente ne cerchiamo il punto d’origine, mentre spostiamo il suo corpo dalla traiettoria, anche se con alcuni secondi di ritardo, purtroppo: la pallottola la colpisce nella regione della spalla invece che al cuore, dove era diretta, ma si tratta pur sempre di una brutta ferita, lo leggo nel suo sguardo colmo di dolorosa sorpresa, lo vedo nel sangue che si diffonde troppo velocemente. Ho pochissimo tempo per reagire, perché il cecchino sta sicuramente prendendo nuovamente la mira. È una decisione facilissima da prendere, non c’è nemmeno bisogno di discutere tra di noi: esplodo, liberando la mia squadra con una comunione d’intenti che non assaporavamo più da molti anni; mentre io mi occupo della nostra Anya, gli altri quattro membri della A1-2-5 si lanciano sul bersaglio, assaporando il gusto della battaglia. Altri colpi risuonano da dietro la prima catasta, andando a segno, ovvio, il cecchino conosce il suo mestiere, ma per sua sfortuna non è solo l’obbedienza agli ordini che ci muove, questa volta. Arretrando di riparo in riparo, l’uomo – un capitano, nientemeno – cerca di riguadagnare una posizione vantaggiosa, ora che la sorpresa è stata vanificata, scaricando i suoi ultimi caricatori su di noi. Dolore, certo, bruciore, sangue che imbratta i nostri corpi lanciati alla carica, ma non possiamo fermarci; più importante ancora: non vogliamo. «Ti daremo la caccia, bastardo! Ti troveremo e ti uccideremo! Dovete lasciarci in pace, hai capito?»
L’unica risposta alla mia domanda è un urlo disumano di terrore, troncato brutalmente dal rumore di mascelle che si chiudono di scatto.

«Come va oggi?»
«Come vuoi che vada? Fa un male d’inferno, ecco come va!» Anya cerca di sollevarsi a sedere sul letto, come al solito, e come al solito devo impedirglielo a forza.
«Testarda come non mai, vero? Quante volte ancora dovrò ripeterti che non devi compiere sforzi? Ti sei beccata cinque pallottole, dannazione! Vuoi davvero lasciarci la pelle?» Questa volta sono arrabbiato sul serio, ho rischiato veramente di perderla e non ho alcuna intenzione di ripetere una simile esperienza.
Lei deve avermelo letto in faccia, perché questa volta cede immediatamente senza protestare: «Scusami.» borbotta «Non volevo farti inquietare, è solo che mi sento inutile: stai facendo tutto da solo, da quando …»
Non termina la frase: ora ci sono altre quattro tombe, in riva al lago, accanto a quella di Charles Anmun; è strano: nonostante i miei alter-ego siano fisicamente morti, colpiti dal capitano Tebaldi, il nostro legame non è stato reciso, anzi, i nostri battibecchi continuano imperterriti nel chiuso della nostra mente.
«Thomas, tutto bene?»
«Benissimo, stavo solo riflettendo.»
«Su cosa? Su come sbarazzarti di una palla al piede come la sottoscritta?»
«Certamente! Cosa credi? Sono stufo di fare da babysitter ad una rompiscatole piantagrane del tuo calibro!»
«Brutto figlio di … Come osi? Dopo tutto quello che ci siamo detti e fatti! Tu …»
Scoppiamo a ridere all’unisono, mentre le accarezzo la fronte, finalmente tiepida dopo giorni e giorni.
«Ti ho portato questi, rompiscatole.» Le mostro un piccolo involto.
«Un regalo? Quale onore! Finalmente ti sei ricordato che esisto?»
«Se non la smetti, me ne vado e ti lascio qui a contare i nodi del soffitto!» le dico e faccio per alzarmi,
«D’accordo, d’accordo! La smetto, promesso!» Prende l’involto dalle mie mani, impacciata e cerca di svolgerlo: «Bastardo! Lo sai che faccio fatica con una mano sola! Ammettilo, ce l’hai con me!»
«Certo, certo, hai ragione: ti odio profondamente.» la sfotto mentre l’aiuto.
«Un ciocco di legno e uno scalpello? E io che mi aspettavo un anello con brillanti!»
«Sei tu che mi hai chiesto di insegnarti ad intagliare, quel giorno, ricordi?»
«Ma sono convalescente! Non riesco quasi a muovermi, come pensi che possa imparare qualsiasi cosa, in queste condizioni?»
«Ti aiuterò io, i primi tempi: tu dimmi cosa vorresti scolpire e ti spiegherò come potresti riuscirci.»
Anya sorride, il più bel sorriso del mondo, prima di rivolgersi al nostro ospite: «Tu cosa vorresti scolpire, Firhotha?»
Dal suo angolo la creatura apre un occhio sonnacchioso, sbadiglia, muove la coda e torna a dormire, voltandosi dall’altra parte.
«Ottima risposta! Non fa niente, tanto abbiamo tempo, per decidere!» Anya mette da parte legno e scalpello, si mette più comoda sul cuscino, poi chiede: «Thomas, ti andrebbe di mangiare qualcosa? Ho fame!»
«Ricevuto! Vado subito a preparare qualcosa.»
Esco dalla stanza a passo svelto, diretto in cucina. Anya ha ragione: ora che un incrociatore trasformato in una fossa comune per appestati veglia silente su di noi, percorrendo la sua orbita, abbiamo tutto il tempo che vogliamo, e magari, quando sarà guarita, decideremo di valicare le montagne, in cerca di Vlad, chissà.
«E perché no? È stata lei a dire che abbiamo fatto male a non esplorare il nostro nuovo mondo! Voi che ne dite?» chiedo alle statuine in riga sull’architrave sopra la finestra; la maggior parte non risponde, ma il mezzo busto di Anya, colpito da un raggio di sole riflesso da un bicchiere, sembra ammiccare, danzando nella luce.
«Allora è deciso!»
Sorrido, mi volto ed entro in cucina, diretto ai fornelli.
   
 
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