Gocce di tempo,
attesa sul mare
L'erba è alta,
sulla cima della
scogliera. Fruscia contro la sua gonna, le sfrega le ginocchia, ma
Elizabeth la
ignora e continua a camminare. Ha lo sguardo fiero proprio come alla
fine della
battaglia contro la Compagnia delle Indie e lo tiene fisso
lì, su quell'orizzonte
ora azzurro ora verde, in attesa. Aspetta, mentre il vento ulula nelle
sue
orecchie e le soffia i capelli sugli occhi, quasi volesse impedirle di
vedere
la persona che più le manca al mondo.
Will Turner se n'è andato da tre anni.
In quell'unico giorno di terra ha conosciuto suo figlio, un ometto di
dieci
anni che ha gli occhi di sua madre e i capelli di suo padre; in
quell'unico
giorno di terra, Elizabeth lo ha stretto a sé
così forte da sperare di non
doverlo più lasciare andare, ma l'abbraccio e i baci non
sono bastati a
trattenerlo lì con loro, lì con lei.
Sono trascorsi tre anni e sa bene che
rivedrà il suo amore perduto solo tra sette. Questo
però non le impedisce di
salire tutti i giorni sulla sommità della scogliera,
lì dove lo ha aspettato
insieme al piccolo Henry per la prima volta. Anche allora l'erba era
alta, ma
non come adesso. Anche allora la brezza marina le scompigliava i
capelli, ma
non era tumultuosa e fredda come in questo momento.
Elizabeth si ferma sull'orlo del
precipizio e continua a guardare davanti a sé. Il mare si
distende fino ai
confini del mondo, lo sa bene, ma non ha ancora intenzione di
restituirle suo
marito. Il mare le ha donato la libertà che agognava a Port
Royal, ma le ha
anche rubato la felicità che aveva conquistato. Quei colori
intensi catturano
la sua attenzione e d'improvviso si ritrova a fissare gli abissi che si
aprono
sotto la scogliera: le onde si infrangono sulle rocce, la spuma
imbianca la
spiaggia. Lo sguardo di Elizabeth vaga ancora e ogni angolo della baia
nasconde
un ricordo che si dischiude ai suoi pensieri.
Lì in fondo, dove acqua e sabbia si
confondono, lei e Will hanno portato in secca la scialuppa che li ha
riportati
a terra la prima volta. Si sono tenuti per mano e hanno trovato riparo
più in
là, dietro alcuni massi che il tempo e la pioggia stanno
sgretolando. Ormai al
sicuro, è su quella sabbia dorata e calda che si sono amati
per la prima volta.
Elizabeth lo ricorda bene, nonostante siano passati tredici anni da
allora: si
è seduta a terra, trascinando dietro di sé Will,
e lo ha guidato alla scoperta
del suo corpo. Entrambi nudi, entrambi distesi sull'oro della sabbia,
intrecciati armoniosamente e pieni di tutto l'amore represso nei mesi
che hanno
portato alla battaglia finale. Poi il giorno è giunto alla
sua fine e il
tramonto li ha sorpresi a scambiarsi un ultimo bacio prima dei dieci
anni di
lontananza, mentre la spuma di mare accarezzava e travolgeva i loro
piedi
immersi nell'acqua.
Elizabeth lascia che i pensieri
corrano e le riportano alla mente le ultime parole di Will; un'unica
frase,
pronunciata spostando lo sguardo da lei al forziere portato via a Davy
Jones:
“È sempre appartenuto a te". E in quel momento ha
capito che il cuore del
suo unico amore sarebbe rimasto insieme a lei nonostante lui navigasse
per mari
che le sono inaccessibili. Infine, il monito che riecheggia anche
adesso nella
sua testa: "Tieni gli occhi piantati sull'orizzonte". Proprio
ciò che
ora non le dà pace.
Elizabeth sente il cuore accelerare.
Torna per un momento alla realtà e spinge lo sguardo ai
limiti del promontorio,
ricordando come, tre anni prima, l'Olandese Volante è
entrata nella baia sotto
gli occhi emozionati del piccolo Henry, in piedi al suo fianco
lì sulla
scogliera. Ricorda i colori vivaci del cielo, caldi e festosi per dare
il
bentornato a Will, e li paragona al grigiore che ora prova a
riflettersi sulla
superficie del mare. "Devono trascorrere altri sette anni", pensa.
"Il cielo piangerà con me finché lui non
sarà di ritorno".
Prova a scacciare dalla mente la
malinconia che l’affligge, ma non può scappare
dall’immagine dell’amato che
corre da lei tra le onde, deciso a riabbracciarla dopo la lunga
separazione.
Non può dimenticare come l’impeto della passione
li ha travolti ancora una
volta su quella spiaggia, attenti a non farsi sorprendere da Henry,
intento a
giocare verso casa. Di nuovo stesi sulla sabbia, la pelle che assapora
il
calore del sole, Elizabeth si posiziona su un fianco e sposta dal viso
arrossato dall’amore i capelli resi crespi dal sale,
osservando il petto di
Will alzarsi e abbassarsi al ritmo del cuore custodito sì
nel forziere, ma
impazzito per l’amplesso. L’uomo socchiude le
palpebre, serrate per trattenere
l’immagine del viso della sposa, e sorridendo le restituisce
lo sguardo,
tendendosi verso di lei per baciarla ancora una volta e gettando
lontano
un’alga nerastra che le si è arricciata ai capelli
insabbiati. La guarda ed Elizabeth si chiede se
in lei rivede una dea del mare. Si domanda se per lui è come
Calypso.
“Sette anni”, pensa ancora,
tormentandosi con il contare i giorni, i mesi, gli anni che mancano al
suo
ricongiungimento con Will. “Passeranno, ma sempre
più lentamente. Passeranno e
io sarò ancora qui, ad aspettarti. Mi riconoscerai? Mi
amerai come l’ultima
volta che sei tornato?”.
Il vento ulula più forte e la
costringe a portarsi una mano alla gola per ripararsi dal freddo. Le
dita
toccano appena la mandibola ed Elizabeth trasale accorgendosi che la
pelle
comincia a cedere. Non è più fresca come qualche
anno prima, non ha la stessa
tonicità. Il peggior nemico che abbia mai affrontato non
è Barbossa o Davy
Jones, no: è il tempo. È quel flusso continuo che
plasma in modo indelebile il
suo fisico e la sua anima. Elizabeth ha paura.
Si è accorta del passare inesorabile
del tempo per puro caso, un giorno d’estate. Era seduta nella
cucina di casa,
davanti alla finestra spalancata. Stava osservando il mare, proprio
come ha
promesso a Will, quando Henry è entrato e le ha fatto una
semplice domanda.
-Mamma, vuoi giocare con me?-.
-Quale gioco?-.
-Non lo so… Mi annoio. Cosa posso
fare?-.
Il bambino la fissa con aria smarrita,
allargando le braccia con fare insoddisfatto. Elizabeth sorride e
avanza una
proposta: -Vuoi rendere più bella la tua mamma?-.
Gli occhi di Henry si spalancano per
la sorpresa, ma poi annuisce, curioso di sapere come fare.
-Prendi il pettine-, gli dice sua
madre, indicando il cassetto di un piccolo mobile in legno grezzo.
-Aiutami a
sistemare i capelli-.
Il piccolo obbedisce e si avvicina di
nuovo alla sedia su cui siede Elizabeth. Non sa da dove cominciare ed
è
intimorito, ma gli incoraggiamenti della donna fanno sì che
prenda la prima
ciocca e che passi attentamente il pettine per districare i nodi
causati dalla
brezza marina.
Rimangono in silenzio per lunghi
minuti, riempiti solo dallo strofinio dei denti del pettine a contatto
con la
chioma chiara di Elizabeth. Henry si impegna e poco alla volta, presa
confidenza, chiede a sua madre se le sta facendo male. La risposta
negativa lo
invoglia a continuare.
Di colpo il bambino si blocca. Con la
coda dell’occhio, Elizabeth nota che si è spostato
al suo fianco per osservare
qualcosa. Incuriosita a sua volta, gli domanda se va tutto bene.
-Mamma… Hai dei capelli bianchi,
proprio qui-.
La voce di Henry è molto seria e ciò
la spaventa. All’improvviso, realizzando ciò che
ha detto suo figlio, si sente
colpita da un pugno nello stomaco.
-Davvero?-, chiede, cercando di
mantenere un tono pacato quando in realtà vorrebbe solo
avere con sé uno
specchio per poter esaminare il proprio riflesso.
-Ce ne sono… quattro, cinque… sei.
Sono sei, mamma-.
Henry poggia il pettine sul ripiano
del mobile e afferra con cautela due dei capelli per cercare di
farglieli
vedere; Elizabeth è immobile, irrigidita dalla notizia
ricevuta dal bambino.
Quando finalmente riesce a vederli, sente il mondo crollarle addosso:
per lei e
Will non ci sarà più tempo. Gli anni diventeranno
sempre più lunghi e di colpo
non saranno più dieci, ma sembreranno venti, poi cinquanta,
poi un’eternità. È
tardi, il tempo sta scolpendo il suo corpo a proprio piacimento e lei
non ha
alcun rimedio per fermare lo scorrere incessante dei minuti e delle ore.
Il vento adesso si è abbassato ed
Elizabeth può domare la chioma arruffata. Si spinge dietro
le orecchie le
ciocche impazzite e fissando l’orizzonte vuoto sente gli
occhi pizzicare. Il
pensiero di Will, lontano miglia dal suo fianco, lì dove
dovrebbe e sarebbe
dovuto stare, le fa seccare la gola, mentre interiormente sussurra
“Non ho più
parole”.
Le mancano perché ha trascorso gli
ultimi mesi chiedendosi ripetutamente che cos’è,
in sostanza, il pensiero che
l’affligge. “È qualcosa che a volte
lacrima”, si dice, portandosi le mani al
viso e pressandosi le palpebre per sforzarsi di non esplodere in un
pianto. Il
volto dello sposo lontano freme di nuovo nel buio degli occhi chiusi ed
Elizabeth, ripensando al pettine che gli ha rivelato la
verità, si vede già
vecchia, nella continua attesa di un uomo che, al contrario di lei,
resterà per
sempre giovane perché afflitto dalla maledizione che ha
impedito loro di vivere
insieme l’uno nelle braccia dell’altra, giorno dopo
giorno fino al
sopraggiungere della fine.
Sente le lacrime aprire un varco tra
le ciglia e adesso non riesce più a frenarle. Si lascia
cadere a terra, in
ginocchio, spostando ancora lo sguardo sull’orizzonte,
tremolante attraverso
quel pianto liquido, e resiste alla voglia di urlare tutto il suo
dolore, tutta
la frustrazione nei confronti del tempo che rema contro di lei e contro
il suo
amore dannato. L’erba alta le gratta la schiena sotto
l’alito del vento ed
Elizabeth si sente completamente impotente. Sono lontani i giorni del
coraggio
mostrato in battaglia, sono lontani i giorni dell’ardore. Ora
si sente come
cenere e l’unico pensiero che la consola è che, se
davvero lo fosse, la brezza
potrebbe farla volare in alto, in quel cielo plumbeo, e trasportarla
lontano,
fino ai confini del mondo, fino da Will.
-Mamma?-.
La voce di Henry le arriva come un’eco
lontana. Elizabeth si volta e il figlio accorre al suo fianco,
chiedendole se
si sia fatta male cadendo. Lei scuote la testa, senza pronunciare una
sola
parola, e aggrappandosi al braccio che il ragazzo le porge si rialza,
passandosi velocemente le mani sul viso per asciugare i solchi che le
lacrime
hanno tracciato sulle sue guance.
-Stai bene?-, domanda ancora Henry,
spiando dal basso l’espressione rattristata della madre.
Elizabeth non risponde
ancora; adesso si limita a guardare suo figlio.
“Assomiglia sempre di più a Will”,
riflette, osservandogli i capelli e il fisico asciutto. “Ha
il suo stesso
carattere”, aggiunge, mentre le lacrime tentano di risalire
fino alle ciglia.
Stavolta, però, a provocarle è un sentimento
diverso. “Il pensiero a volte dà
luce”, dice a se stessa; perché Will, in fondo,
non se n’è mai andato davvero.
Il suo cuore è con lei, in quel forziere intarsiato, e la
sua anima giace nel
petto del loro unico figlio, Henry. La sola gioia e unica luce in una
vita in
cui il tempo e il mare le hanno portato via ciò che di
più caro aveva al mondo.
-Sto bene, sì-, afferma alla fine,
lisciando la gonna stropicciata e staccando i fili d’erba
rimasti impigliati
nel tessuto. -Torniamo a casa-.
Poggia una mano sulla spalla del
ragazzo per guidarlo lontano dalla scogliera, ma prima di allontanarsi
non
resiste al desiderio di lanciare un ultimo sguardo
all’orizzonte.
“Sette anni”, pensa di nuovo,
trattenendo un sospiro. Poi torna a puntare gli occhi sulla schiena di
Henry e,
accennando un debole sorriso, sussurra nel vento: -Aspettami anche tu-.