Libri > Edgar Allan Poe, Varie
Ricorda la storia  |      
Autore: Tide    24/11/2016    2 recensioni
Una storia "alla maniera di" Edgar Allan Poe.
Dal testo:
"(...)sfido chiunque a dire di conoscere un essere umano che intenzionalmente cerchi con ogni mezzo di mantenersi sveglio il più a lungo possibile! E non per paura dei mostri che nel sonno dall’oscurità circostante o da quella interiore potrebbero avventargli si contro, ma per orrore del sonno stesso!"
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~SONNO

Quid est somnus gelidae nisi mortis imago?*
(Ovidio)

Non credo che esista, in questo disgraziato secolo XIX, quasi nessuno che non possa contare tra i propri conoscenti almeno un insonne. In effetti non c’è nulla di più comune di una persona afflitta da un senso di inquietudine tanto persistente da farle passare lunghe notti di veglia invocando Morfeo. Ma sfido chiunque a dire di conoscere un essere umano che intenzionalmente cerchi con ogni mezzo di mantenersi sveglio il più a lungo possibile! E non per paura dei mostri che nel sonno dall’oscurità circostante o da quella interiore potrebbero avventargli si contro, ma per orrore del sonno stesso! Forse un unico uomo al mondo soffre tale insensata paura. Ebbene, signori quell’unico uomo al mondo sono io!
Eppure tutta la mia famiglia potrebbe affermare che a lungo godetti di un sonno robusto e rigeneratore, niente affatto molesto, al quale non opponevo alcuna resistenza.
Ma tutto ha una spiegazione, infondo, e voglio spiegare che incredibili eventi mi spinsero a questa penosissima situazione.
Bisogna infatti sapere che la mia famiglia rimase sempre in stretti contatti con i miei zii e  con mio cugino, di una decina d’anni più grande di me.
Ogni estate dunque, i miei genitori, i miei fratelli più giovani ed io ci recavamo alla vecchia casa degli zii per passarvi alcune settimane.
A proposito dell’eccezionale edificio che era la dimora di mio cugino dirò che per me rappresentò sempre un luogo della mente più che fisico, una sorta di castello immaginario: di fatti la casa era antica di almeno due secoli e ogni abitante s’era più volte ingegnato di abbellirla e arricchirla secondo il proprio gusto, senza mai però toccare quanto era già stato fatto dai predecessori. Questo bizzarro procedere aveva prodotto le forme più fantasiose in quella dimora, ormai divenuta enorme a forza di aggiungere stanze senza criterio. Per molti anni non mi riuscì di orientarmi ogni qual volta che entravo o uscivo da una porta.
Inoltre la casa era alquanto discosta dalla città e poteva pertanto permettersi un vasto e rigoglioso giardino.
Il doloroso caso che mi accingo a raccontare ebbe luogo diversi anni dopo l’inaspettata dipartita dei miei zii, quando io ero già un ragazzo e mio cugino era ormai un giovane uomo. A quel tempo era dunque lui a risiedere nella dimora di famiglia. Da pochi anni inoltre la divideva con la sua adorata moglie. I due avevano voluto, anche in memoria dei defunti, protrarre la gradevole tradizione che ci vedeva riuniti nell’antica casa ogni estate e noi avevamo accettato con gioia.
D’altra parte non vi sarebbe stato motivo di rifiutare: io e i miei fratelli amavamo quella casa, teatro di tanti bei ricordi, e mio cugino e sua moglie erano persone assolutamente gradevoli, nonostante alcune singolarità, sulle quali varrà la pena soffermarsi.
Mio cugino infatti era un giovane dal temperamento eccessivamente fantasioso, come d’altra parte s’era rivelato frequente in quel ramo della nostra famiglia, e incredibilmente testardo, tanto che si evitava sempre accuratamente di entrare in discussione con lui. Ma anche questi eccessi gli erano largamente perdonati per il suo buonissimo cuore e la generosa e gioviale ospitalità.
Quanto alla moglie, si trattava di una donna di grande vivacità intellettuale, non particolarmente bella, ma intelligente e gentile, molto abile e gradevole nella conversazione. Tuttavia la sua caratteristica più notevole era una singolarissima malattia, che i molti medici che fin da ragazzina aveva visitato non avevano ancora potuto identificare. Questo malessere le procurava improvvisi e prolungati attacchi di  sonno, che in nessun modo sembravano evitabili e durante i quali non c’era espediente alcuno per svegliarla. Nei primi anni che la conoscemmo, la situazione, per quanto già grave, sembrava sempre sotto il controllo della poveretta, che solo si rammaricava di non essere libera di vivere regolarmente e appieno. E per essere sinceri, di anno in anno questo dispiacere si faceva sempre più profondo, di pari passo all’aggravarsi della malattia. Ogni anno la trovavamo sempre più fiacca e gli intervalli tra un attacco di sonno e l’altro divenivano sempre più brevi, fichè un’estate, di fatti, quasi non la vedemmo uscire dalla sua stanza e quando la vedevamo era in un costante stato d’ansia e agitazione tipico di una giovane mente che molto vorrebbe fare e vedere. Ma se di norma si tratta di una pura illusione che il tempo non basti a vivere veramente, per lei era una triste verità, tanto che spesso ormai non poteva neanche nutrirsi adeguatamente. L’ultima estate che la vedemmo era debole e smagrita al punto da non reggersi in piedi che aggrappata al marito, anch’egli provato dalle sofferenze della moglie.
Eppure la buona donna non aveva mai mancato di salutarci appena possibile al nostro arrivo, per tanto ci allarmammo molto l’estate che ad accoglierci ci fu solo mio cugino, per altro in uno stato pietoso, estremamente eccitato, non come chi abbia una gioia troppo grande da trattenete, ma come chi si sforzi ad ogni modo di non credere a una troppo dolorosa verità.
“Sta bene, benissimo. Sta dormendo.” Rispose concitato, torcendosi le mani, quando gli chiedemmo dove fosse la moglie.
“Oh, no, non è bene disturbarla: la assalgono gli incubi se si fa il minimo rumore!” rispose quando dopo un giorno chiedemmo se potevamo almeno visitarla nella sua stanza.
Per quanto fossimo tutti a disagio, nessuno osava contraddire il padrone di casa, il che sarebbe stato ad ogni modo inutile, data la sua testardaggine. In più i miei genitori erano troppo prudenti e i miei fratelli minori troppo sprovvisti di malizia per pensare di indagare da soli, frugando la casa in cerca della donna addormentata. Io al contrario avevo un certo gusto per le situazioni proibite, per cui mi misi presto in testa di intrufolarmi di nascosto nella stanza della donna. Una volta là, in realtà, mi aspettavo di trovarla adagiata nel suo letto, come spesso l’avevo già vista, sdraiata sulla schiena con le mani giunte in grembo, il viso pallido e scavato, ma sereno, e il respiro tanto flebile da lasciar pensare alla statua di un sepolcro. Eppure per qualche motivo l’idea di poterla osservare da solo e di nascosto mi riempiva di curiosità.
Iniziai la mia opera chiedendo alla servitù, che s’era ridotta quell’estate a una sola, anziana domestica, se avesse visto la padrona di casa. L’anziana signora mi rispose che aveva preso servizio da poco tempo e da che era arrivata non aveva mai visto la moglie di mio cugino e non le era mai stato permesso di avvicinarsi alla stanza della donna: era mio cugino direttamente a occuparsene.
Mi decisi allora a passare all’azione. Già sapevo che mio cugino abitualmente non divideva la stanza con la moglie** e ricordavo quale fosse la camera di lei. Non mi pareva dunque difficile aprire nottetempo quella porta interdetta persino alla domestica, che per me andava assumendo un fascino eccezionale, come un antichità inesplorata o un castello noto per esser popolato di fantasmi. Dunque la terza notte della nostra permanenza sotto quel tetto, scivolai silenziosamente fuori dalla mia stanza e mi avviai faticosamente, smarrendomi un paio di volte in quella innumerevole serie di porte (quasi quattro per ogni stanza, ormai), alla sola luce di una candela. Infine mi ritrovai quasi per caso innanzi alla stanza che stavo cercando. La porta sembrava più alta e imponente nel buio e per un istante mi mancò il cuore di allungare la mano. Infine strinsi le dita intorno alla maniglia e premetti. La porta era chiusa a chiave! Se solo l’avessi preso come un segno del destino! Invece la sorpresa non fece che accrescere la mia morbosa curiosità e di entrare nella camera mi feci un punto d’onore.
Passai il giorno seguente a cercare di indovinare quale delle numerose finestre fosse quella della stanza proibita, facendo mille volte il giro fuori e dentro la casa.
Frattanto mio cugino continuava a ripetere che la moglie stava bene, benissimo, ma stava dormendo e non la si poteva disturbare e di tanto in tanto si assentava e tornava portando i saluti della signora, sempre con quel fare nervosissimo e quel sorriso tirato, quegli occhi illuminati non come dalla gioia, ma come dalla febbre.
Quando ebbi infine riconosciuto la finestra mi ingegnai di trovare un modo per entrarvi. Non fu difficile a dire il vero, dato che su quel lato della casa si inerpicava un robusto glicine che serviva perfettamente allo scopo. Ad ogni buon conto rimandai l’intrusione a quella notte, quando ero più sicuro di non essere notato. Passai il resto della giornata in trepidante attesa, tutto intento a non darlo a vedere. Le ore sembrano non passare mai quando si attende un momento futuro! Ma infine calò la sera e presto ci ritirammo nelle camere. Attesi che tutti dormissero profondamente prima di uscire.
Il caso crudelmente assecondava i miei disegni: era una notte di luna piena. Sarebbe bastata dunque la luce naturale che sarebbe entrata dalla finestra e mi rallegrai di non avere una mano occupata a reggere una candela mentre mi arrampicavo sul glicine.
Come avevo sperato la finestra era aperta, poiché faceva caldo. Le tende erano serrate con gran cura per tener lontana quella gran seccatura estiva che sono gli insetti.
In breve, insomma, ero pronto a saltare dentro la camera, ma qualcosa di indefinito mi trattenne qualche istante. Ero quasi certo di starlo solo immaginando, spinto dal confuso stato d’animo che l’avventura mi metteva in cuore, ma dalla stanza sembrava uscire uno strano odore. Il mio cuore batteva tanto forte che anche tendendo l’orecchio non riuscii a capire se qualcuno fosse nella camera. A un certo momento pensai di scendere e tornare a letto, ma invece, senza nemmeno pensare, saltai nella finestra.
Un fetido odore mi invase le narici, quasi facendomi svenire, tanto spesso e pesante da sembrare palpabile. In un primo momento, stordito, non vidi nulla di anomalo, solo la camera mi sembrò abbandonata. Solo quando fui riuscito a prendere qualche respiro premendomi il fazzoletto su naso e bocca, osservando meglio, notai con orrore una sagoma sdraiata nel letto, coperta fin sul capo dal lenzuolo. Con non so che coraggio mi accostai quel che era necessario e tesi la mano tremante, con estrema lentezza presi con la punta delle dita l’angolo del lenzuolo, esitai col cuore in gola e infine lo levai d’un colpo. Un grido di raccapriccio proruppe all’istante dalle mie labbra: innanzi ai miei occhi, incapaci di distogliersi, stava il volto scavato, contratto in un orribile smorfia, già putrescente, ma ancora riconoscibile della povera moglie di mio cugino!
Sentii solo vagamente bussare violentemente alla porta, tentare di abbatterla e mio cugino gridare come un forsennato “Largo, largo!” e infine aprire con la chiave. Come entrarono, mia madre quasi svenne e mio padre rimase paralizzato dallo sconcerto, mio cugino sbiancò di colpo, tremando visibilmente.
“è morata!” esclamò inorridito mio padre. Allora mio cugino cacciò un grido orrendo e si gettò sul corpo in disfacimento della moglie, come intendesse proteggerlo da un crollo
“No!” urlò “No, dorme! Dorme! Dorme!” 

 

 
*Cos’è il sonno se non l’immagine della gelida morte?
** Nel XIX non era così inusuale che persone felicemente sposate non dormissero sempre insieme.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Edgar Allan Poe, Varie / Vai alla pagina dell'autore: Tide