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Autore: _Leviathan    26/11/2016    0 recensioni
È vero che ci ho provato solo una manciata di volte, a staccarmi da questa cosa che mi tortura, ma non mi ha mai portato da nessuna parte con nessuno. Non hanno funzionato né amicizie, né hobby, né il letto di un amante. Ma ripensandoci, forse non mi sono mai impegnata abbastanza. Forse non mi sono mai impegnata.
Ed è colpa mia.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Una lettera


Tutti vogliono sapere il perché per ogni cosa.
Certo, è molto più semplice se c’è qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa. Io ho sempre combattuto alla radice del problema, che sia stata l’assenza o la mia perenne incapacità di difendermi. Non ho mai passato troppo tempo a cercare una soluzione, probabilmente ho dedotto che se sentivo dolore c’era un perché. Punto.
Probabilmente è per questo che ho sempre deciso di scrivere; non solo con delle storie, ma con le lettere che ci stanno in mezzo, per autoesaminarmi.
Il problema, credo, è che mi sono isolata da tutto.
Dagli amici, dalla mia famiglia e dalle mie ambizioni. Dal divertimento.
Mi sono isolata da tutto.
Autolesionista? Probabilmente sì, ma non so tutt’ora se è dipeso esclusivamente da me. E non so nemmeno se il perché abbia un’importanza. A volte le cose succedono e basta, e non ci si può fare nulla.
E in più, comunque sia, sono io l’unica ad averci a che fare.
Quindi se potete farmi tutti il favore di tenere lontane le mani, e la bocca… scusate. Lo so, lo so che sembra che sono arrabbiata, ma non è così, io… io lo giuro. So che sono stata io a farmi tutto questo, e mi comporterò di conseguenza.
E non mi serve il parere di chi non ne sa nulla. Non ho bisogno che mi spieghino i miei problemi, sono i miei, non ho bisogno che me li ricordino, li so meglio di chiunque altro.
E sì, lo so, dovrei cercare una soluzione, un’altra soluzione… magari dovrei cercare di lasciarmi tutto alle spalle, ma secondo me dimenticare e basta non ha alcun senso.

E quindi sono ancora qui.

Lo so che avrei già dovuto dimenticare un secolo fa, dovrei essere felice… ma non è mai stato così semplice per me. O forse sono io a renderlo complicato. Forse è proprio questo che faccio, ogni volta.
È vero che ci ho provato solo una manciata di volte, a staccarmi da questa cosa che mi tortura, ma non mi ha mai portato da nessuna parte con nessuno. Non hanno funzionato né amicizie, né hobby, né il letto di un amante.
Ma ripensandoci, forse non mi sono mai impegnata abbastanza. Forse non mi sono mai impegnata.
Ed è colpa mia.




Beatrìs corrugò la fronte, lo sguardo spento fisso sulla lettera che aveva appena improvvisato. La calligrafia, solitamente ordinata, appariva caotica in quel guazzabuglio di parole.
Sospirò, passandosi distrattamente una mano sul volto stanco. Avrebbe voluto dormire, avrebbe dovuto dormire, ma quando l’anima chiamava, non riusciva a restare impassibile. Era come un vulcano in costante eruzione: avrebbe rischiato un’esplosione se non si fosse ripulita di tutto. Durava poco la sensazione di leggerezza, ma era già qualcosa.
Lasciò il foglio di carta sulla scrivania della camera da letto e abbandonò la stanza. Prese una giacca a caso dall’appendiabiti in corridoio e, gli occhi cerchiati da occhiaie pesanti, uscì di casa. Mentre camminava a passo svelto verso la fermata della metropolitana si strinse nella giacca: Londra non dava alcun segno di pietà quell’inverno, tra forti nevicate e raffiche di vento improvvise che sferzavano ogni centimetro di pelle scoperto.
Beatrìs si rifugiò nella stazione di Turnham Green, dove di lì a pochi minuti sarebbe passato l’ultimo treno della giornata. La piccola stazione era deserta, cosa abbastanza normale visto l’orario: circa mezzanotte e mezza di un anonimo martedì sera.
Si udì in lontananza il tipico rumore metallico di un treno della metropolitana in rallentamento, che dopo una manciata di secondi apparve davanti alla ragazza. Salì sulla district line salutando ancora una volta il suo letto, che ormai non la vedeva da parecchio tempo.

Scese a Westminster e camminò per le vie della città semideserte fino al ponte di Waterloo.  
Era il suo posto preferito in tutta Londra, probabilmente il suo posto preferito al mondo. Di notte, la vista era spettacolare, le toglieva il fiato ogni volta. Beatrìs era capace di passare lì notti intere, a guardare il London Eye ed il Big Ben illuminati, che svettavano nel buio della notte. A Dicembre, con tutte le luci della città, l’effetto era ancora più sconvolgente.
Si appoggiò al parapetto, accese una sigaretta, e cominciò a godersi la notte.
Era sempre stato il suo posto quello, e per quanto una parte di lei avrebbe voluto condividerlo con qualcuno, non ci era mai riuscita. Non poteva semplicemente portare un’amica, o un amante, e farlo entrare nel suo mondo. Era troppo fragile, non avrebbe retto il peso di un secondo intruso. Si sarebbe frantumato in mille pezzi come una boccia di vetro, e lei avrebbe perso tutto.
Nemmeno le sue lettere, infondo, erano mai state lette da qualcuno.
Sospirò. Una profonda pace la pervadeva.
Non seppe quanto tempo passò, ma dopo la quarta sigaretta la quiete perfetta fu infranta da un rumore di passi dietro di lei. Non ci fece caso subito, tenne gli occhi fissi in lontananza, sicura che fosse un semplice passante sulla via di casa, o un vecchio ubriacone che non aveva un posto dove andare. Accadeva sempre. Passavano e poi tutto tornava come prima.
Fu quando smise di udire i passi che si voltò, piano. Dietro di lei c’era un ragazzo. Fermo, in piedi, che la guardava con un sopracciglio sollevato. L’espressione neutra, un vecchio maglione nero rattoppato e dei jeans aderenti. I capelli neri a caschetto si scompigliarono quando una folata di vento lì colpì, impietosa.
- Che stai facendo? - La domanda venne fuori diretta, il tono di voce della ragazza sulla difensiva.
Lui diede una scrollata di spalle. - Niente. Mi hai dato l’ispirazione per il testo di una canzone. – 
- Ah. Mi fa… piacere? – Pronunciò quell’ultima parola lievemente, insicura su quale fosse la risposta giusta da dare. Non le era mai capitato, dopotutto.
- Già, beh… era ora. – Disse lui, più rivolto a sé stesso. – Questo posto è meraviglioso… poetico, in un certo senso. – Si guardò intorno, soffermandosi per qualche istante sull’imponente figura del London Eye. Puntò gli occhi in quelli di lei, all’improvviso. Occhi grandi, occhi espressivi. Il contatto durò per secondi che a Beatrìs sembrarono infiniti, e per quanto si sentisse messa a nudo, si rese conto che non trovava la forza di sottrarsi. Il ragazzo annuì in silenzio, nei suoi occhi una strana consapevolezza, come se avesse capito che non poteva rompere la palla di vetro. Ci aveva solo fatto capolino, ma non osava entrarci.
Poi, lui sollevò una mano. – Ci si vede in giro. – Punto e a capo, l'incanto svanito.
Si voltò facendo per andarsene, ma dopo due passi tornò indietro. Allungò la mano destra verso di lei.
– Sono Brian, comunque. –
- Beatrìs. – Ricambiò la stretta, disorientata. Rimase a guardarlo imbambolata, senza sapere che cosa dire. Che cosa si diceva in una situazione come quella? Si diceva qualcosa?
Ma lui si voltò di nuovo, e questa volta se ne andò. Se ne andò com’era arrivato: in silenzio, impercettibile.

Fu quella notte che Beatrìs capì che la sua palla di vetro infrangibile, non lo era poi tanto.
   
 
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