La Dea Bianca
A
Flos Ignis,
mia stella e guida,
e
alla dolce Leaina.
I – D’Amore e Ombra
Ancora
oggi si narra che Elena fosse nata quando l’alba
già allungava le
rosee dita sulle tenebre: ed era per questo che nel suo sguardo danzava il
bagliore delle stelle morenti.
Si
narra che il Sole rifulgesse con più forza a ogni sorriso, e che a ogni movimento degli eleganti piedi, le
rose si intrecciassero intorno alle sottili caviglie; che nella calda e
multiforme luce che attraversava i suoi capelli si scorgessero le onde
del mare, e la sua voce fosse pacata e soave come l’avvento
dell’Aurora.
Si
narra questo sulla splendida Elena; ma su di me, sull’altra,
si racconta una storia diversa.
Elena
fu sempre parte solamente di metà del mondo: viveva fra la
luce e i
colori, tra le risate e i canti, e fin da bambina, quando il buio
calava, lei si rifugiava nelle sue stanze, attendendo sotto la
protezione dei tripodi sfavillanti l’avvento di un nuovo
mattino.
Sulla
soglia della Notte, a fissare i corni della Luna che ferivano il
suolo e salivano nel cielo, rimanevo solamente io.
Clitemnestra
dai lunghi riccioli bruni.
Clitemnestra
con le ombre nello sguardo e il silenzio sulle labbra.
Clitemnestra
dalla pelle nivea, dal volto severo.
Clitemnestra,
che nacque al crepuscolo, che spinse la Luna ad
abbandonare il cielo per avvicinarsi a Sparta.
La
prima volta che ascoltai queste parole sorrisi senza dare loro troppa
importanza; ma era ancora troppo presto per
capire.
Fu
solo anni dopo, infatti, che vidi per la prima volta quella che, ora
lo posso dire con certezza, sarebbe stata la mia Sorte: essa comparve
in un sogno come una piccola statua raffigurante una donna dai seni
pieni, lasciati scoperti dalla veste; lunghi erano i suoi capelli,
bianche le mani che stringevano con forza due serpenti, quasi a
strangolarli, domarli.
[1] Riposava nel ventre pietroso di un maestoso palazzo dalle
sfumature porpora [2], ma i suoi occhi non erano intrappolati dal
buio: lo sguardo vinceva ogni vincolo, osservava le onde e le
albe, le montagne e le loro genti, e dove questo si posava fiori e
piante crescevano in abbondanza, le belve feroci si acquietavano, i
fiumi impetuosi scorrevano senza far rumore e la Luna sorgeva,
portando la pace.
Veloce
e inaspettato com’era giunto, il sogno cessò; mi
ritrovai a
balzare nel letto, il petto che doleva come se non avessi respirato
per lunghi istanti, la mente e gli occhi pieni di ciò che
avevo
visto.
Mi
alzai, scossa e confusa, e mi avvicinai alla finestra per cercare il
sollievo del vento: Lei
era già alta tra le stelle, i suoi raggi una pioggia
d’argento che
bagnava la mia finestra.
In
quell’istante
compresi che tutti i racconti erano veri... e che Lei
non aveva mai smesso d’osservarmi.
◆
Tutto
ebbe inizio quando il giovane Tantalo [3], re della quieta Pisa [4],
giunse al palazzo di mio padre; Sparta lo accolse quando il Sole era
alto, e splendente come quel giorno era il suo destriero, dorata la
chioma, pari per bellezza alle opali celesti degli occhi.
Chiamate
al fianco di nostro padre, Elena, cresciuta tra gli elogi e le
promesse d’amore, lanciò verso di lui solamente
un’occhiata
prima di abbassare il capo con finto pudore, sdegnosa e tentatrice; io,
invece, non smisi di fissarlo, come sempre facevo con gli uomini. Mi
piaceva osservare la loro espressione mentre le ombre rifulgevano
nelle mie iridi, quasi sfidandoli; e ogni volta, quando gli sguardi inquieti
si spostavano dal mio viso a quello di Elena, io sapevo di aver
instillato un poco di quel timore che si prova davanti a una fiera,
a un Dio… o una Dea.
E
tuttavia… tuttavia Tantalo le mie ombre le abbracciò.
Il suo sguardo incontrò il mio, non lo lasciò per
lunghi istanti;
io lessi in quegli occhi una domanda e poi vidi nascere
l’interesse,
il desiderio.
Arrossii
con violenza, allora, e chinai il volto; quando lo rialzai, mio padre
mi fissava con intensità. Annui lievemente a ciò
che i suoi occhi
dicevano, e un sorriso gli si dipinse sul volto.
Il
mattino seguente, ancor prima che sorgesse il Sole, il mio matrimonio
fu celebrato. Sparta mi attese nelle strade per salutarmi,
danzò e
cantò per me, e l’eco delle sue benedizioni mi
seguì fino alle
porte di Pisa, la mia nuova dimora.
Ti
mancherò, sorella mia?
La voce di Elena, le sue ultime parole, continuavano a risuonarmi
nella mente, e nemmeno le grida di giubilo, la vista dei palazzi
della città o le carezze del mio sposo riuscivano
a
tacitarle. “Forse meno di quanto tu pensi”,
mormorai più volte
in risposta, cercando di ignorare il pungolo che mi pizzicava il
fianco e incrinava un poco la gioia.
Ben
presto Pisa si rivelò essere il rifugio e la pace
che il
mio cuore anelava: ogni notte attendevo di scorgere le stelle che
rilucevano su di essa e ogni mattino cercavo la fragranza dei fiori
che circondavano le mura... e, come imparai ad amare la sua semplice
bellezza, in ugual modo mi innamorai del suo custode.
Tantalo
era nobile quanto passionale, le sue mani gentili ma desiderose
quando mi spogliavano di ogni cosa, lasciando che solo
il chiarore delle fiamme nei bracieri mi ricoprisse la pelle; ma
erano i suoi occhi a tenermi incatenata, quello sguardo bruciante e
colmo di vita che mi possedeva ancor prima della carne, che mi faceva
sentir degna di essere amata.
Per
quanto poco più di un fanciullo, era saggio, legato alla sua
gente e
capace di portare ragione e luce in ogni dove, anche tra le mie
inquietudini; la sua devozione mi riscaldò come un mantello,
e tra
le sue braccia sbocciai come un fiore di croco, liberandomi da molte amarezze e rancori: al
suo fianco iniziai a risplendere, a vivere.
“Mentre
dormivi, un petalo d’ombra ha lasciato la tua chioma, mia
dolce
Clitemnestra”, mi sussurrava il re al sorgere del giorno,
quando mi
svegliava divorandomi il collo e il petto di baci.
“Alcune
di queste ombre sono parte del mio stesso corpo”, cercavo di
rispondere mentre le sue labbra scendevano a tracciare un sentiero
bollente sul mio ventre, spezzando i pensieri.
“Le
tramuterò in luce, una ad una”, rispondeva, e io
morivo e
rinascevo ogni mattino, desideravo che quegli istanti solo nostri si
prolungassero per ore e ore, diventando un’intera esistenza.
Fu
in uno di quei lenti giorni, mentre controllavo l’operato
delle
ancelle, che mi accorsi di lei.
Il portamento e la bellezza le permettevano di dominare sulle altre
come una rosa tra umili viole, quindi mi avvicinai, sicura che il suo
volto mi fosse sconosciuto.
Mi
sorrise, senza abbassare il capo, e allora le feci cenno di seguirmi,
conducendola nei giardini.
“Conosco
tutti coloro che abitano questa casa, eppure il tuo nome è
per me
come nebbia”, esordii quando fui certa che eravamo sole.
Lei
non rispose per un lungo istante, poi schioccò la lingua.
“Sei
potente, signora: il tuo re ha fatto ciò che il glorioso
Tindaro
non è mai riuscito a compiere.”
“Non
voglio lusinghe”, ribattei, “voglio sapere chi sei,
e qual è il
tuo compito qui.”
Un
altro sorriso, poi la donna abbassò lo sguardo sul mio
ventre. I
suoi occhi si illuminarono, la sua voce mutò.
“È Luna piena,
giovane regina. In una terra lontana le donne invocano la Dea:
è
grande il suo amore per noi, femmine e madri, e la sua mano non esita
a consolare chi chiede il suo aiuto. È Luna piena,
Luna
gravida; tu sia benedetta”, mormorò,
voltandosi.
Scossa
da quelle parole, rimasi immobile a guardarla andarsene nell’aria
chiara. Successivamente rientrai nel palazzo, interrogai coloro che
incontrai, ma nessuno sembrava averla vista o conoscerla; decisi
allora di mantenere quell’incontro un segreto, in attesa di
comprendere che cosa ne sarebbe seguito. Grandi cose attendono gli uomini quando gli Dèi fanno la loro comparsa tra di essi, e la mia immagine era appena stata riflessa da uno sguardo immortale.
Qualche
giorno dopo scoprii che il mio ventre ospitava un’altra
vita; e quando quel dono si rivelò essere un maschio, un
forte e
bellissimo principe, danzai per notti intere nel chiarore delle
stelle, senza riuscire a frenare la gioia. Quanto era grande, allora,
la mia sconsideratezza; infatti, come la Luna cambia volto,
così la
mia Sorte stava per intrecciarsi con le nubi di una spietata
tempesta, e mutare la propria trama.
Tutti,
in Acaia [5], conoscevano il nome dell’Atride Agamennone: la
sua
potenza sulle genti era immensa, pari solamente alla brama di
ricchezze e all’amore per la guerra. Così, quando
i suoi passi
risuonarono nel mégaron
[6],
un mattino così freddo da strangolare i fiori nei campi,
nessuno
poté reprimere un brivido.
L’aspetto
del re di Micene, per quanto gradevole, era di tenebra:
scuri i capelli, notturni gli occhi arroganti e nera la cicatrice che
partiva dalla fronte e, sfiorando l’occhio sinistro, terminava
sulla
tempia; anche la pelle, seppur bianca, sembrava emanare il buio. Era tuttavia il
suo sorriso, affilato come una lama, a spaventarmi di più.
Tantalo
si mostrò rispettoso verso le regole
dell’ospitalità, lo accolse
con calore; ma la tensione prendeva forma istante dopo istante,
ammorbava l’aria di silenziose minacce e sibili.
Mentre
guardavo l’Atride fissarci tutti con superiorità,
ghignando della
giovane età del mio sposo, desiderai che il velo che mi
copriva le
chiome mi celasse e insieme con me avvolgesse anche Tantalo, portando
entrambi via da quel luogo; e nonostante le brevi occhiate rivolte a me, per tutto il giorno continuai poi a sentire il suo respiro
sulla pelle, quasi la sua ombra si fosse staccata da lui per unirsi alla mia.
Il
re rimase una notte sotto il mio tetto, trattenendo mio marito
lontano dal talamo; non seppi mai le parole che si scambiarono, ma
quando l’alba venne e il carro di Agamennone svanì
nella polvere,
fu come se fosse ritornata la Primavera.
I mesi che seguirono furono tranquilli; ma sul volto di
Tantalo si agitava spesso uno spettro di timore, nella notte i suoi
occhi guizzavano alle mura della città, come se le stesse
valutando.
Infine,
un giorno le parole che la gente mormorava tra le strade e nel
silenzio delle loro alcove presero forma: l’esercito
dell’Atride
giunse alle porte, unito da un solo grido.
Guerra.
In
poche ore, le nostre certezze si sfaldarono come cenere nel vento,
lasciandoci sgomenti e vuoti di ogni pensiero.
Nelle
case risuonavano preghiere e lamenti, clangore d’armi; nel
palazzo, invece, si udiva solo la voce di Tantalo mormorare parole
che comprendevo solamente dopo lunghi istanti.
“Non
deve averti. Qualsiasi cosa succeda… non deve
averti.”
Qualsiasi
cosa succeda… qualsiasi cosa succeda. Perché? Che
cosa deve accadere?
“Non
oso nemmeno pensare a quello... quello che potrebbe farti.”
Il
Sole era ancora alto, eppure a me sembrava già il crepuscolo.
“Ritorna”,
dissi dopo istanti di silenzio. “Ritorna da me ogni
notte.
Questo mi basterà.”
Lo sguardo del re si posò su di me, e nei suoi occhi vidi
riflessi i miei, vacui, le iridi
un’unica nube di buio.
“Clitemnestra...”
Un sospiro. “C’è un segreto che vorrei
rivelarti: una galleria,
costruita sotto il palazzo. In caso di pericolo potrebbe essere
l’unica via di salvezza… per te e nostro
figlio.”
Non
morire.
Strinsi
con forza i pugni.
Non
morire.
Ritorna
da me.
“Sono
solamente una donna…”, risposi,
“… ma vorrei essere il tuo
scudo e la tua spada, i Numi che pregherai, la notte che
calerà e
porrà fine alle battaglie, la forza che ti
permetterà di ritornare
e ritrovare la strada di casa… vorrei…
vorrei...”
I
miei stessi pensieri mi resero impossibile proseguire, e quasi non
sentii la mano di Tantalo posarsi sui miei capelli. Lui non
replicò
alle mie parole, il suo cuore era quello di un guerriero: non avrebbe
pianto, non avrebbe implorato; avrei versato io le sue lacrime.
“Mostramela”,
mormorai allora, “mostrami la galleria”.
Nei mattini seguenti, essa divenne il mio rifugio: tra le viscere del
suolo, celata al mondo, ascoltavo ogni sussurro che si inseguiva nel
palazzo, ogni richiamo e parola strozzata, ottenendo così le
risposte a ciò che non avrei mai osato guardare.
A
qualche distanza da me, oltre le mura, ribollivano gli scontri; se
smettevo di respirare potevo udire l’eco delle armi che si
scontravano, il rumore delle ruote dei carri, le grida.
Quando
ero sul punto di svenire ingoiavo quanta più aria potessi, e
poi
ricominciavo: ascoltavo, inspiravo e respiravo; ascoltavo,
inspiravo…
respiravo. E intanto, pregavo.
Mio
figlio era sempre con me, addormentato sul mio grembo: non poteva
comprendere quello che accadeva, e ciò lo salvava.
Nutrirmi
d’aria, interrogarla; sperare, piangere, rabbrividire, un
mantello
di freddo e paura a coprire le membra esauste: così
tessevo e
disfacevo i miei interminabili attimi.
Poi,
infine, la Luna compariva e le battaglie cessavano; Pisa risuonava
dei singhiozzi strazianti delle vedove e delle madri private dei
figli, oppure dei pianti sollevati di chi ancora vedeva ritornare il
marito, il fratello, il padre, e ringraziava i Beati.
Io
attendevo; china sul suolo, cuore
a cuore
con il mio bambino, tentavo ogni cosa pur di addormentarmi e al
risveglio trovare il volto di Tantalo a vegliarmi.
Per
molte volte ciò accadde: le sue mani odorose di sangue e
ferro mi
sfioravano i capelli, e io mi ridestavo a poco a poco; riconoscevo le
sue dita, le afferravo, le baciavo. Insieme ci trascinavamo fuori
dalle tenebre, nei bagni, e con pazienza lavavo via ogni lacrima
purpurea dal suo corpo, un unico intreccio di cicatrici e ferite.
Non
parlavamo se non per consolarci e lasciavamo la notte morire nel
sonno o tra i baci, sul letto intriso di sudore e promesse.
Poi,
il mattino giungeva rapido e il tormento ricominciava, tanto
che
a volte imploravo di morire: morire, per smettere di sentire il mio
cuore spaccarsi per il terrore, per non impazzire; e poi mi
insultavo, mi gridavo di resistere. “Rafforza il
cuore”, urlavo,
“costruisci una corazza e combatti, Clitemnestra,
combatti!”
Anche
quel pomeriggio non sembrava diverso da ogni altro; fino a quando,
improvvisamente, il silenzio calò sulla città.
Drizzai
il capo, inquieta: perché nessun rumore
turbava più
il vento? Ero forse divenuta sorda, o… o era tutto finito?
Appoggiai
mio figlio al suolo, mi alzai e avanzai verso l’imboccatura
della
galleria: uno spiraglio di luce si infilava nel pavimento del piano
superiore e mi avvolgeva, riscaldandomi.
Dopo
qualche tempo, lenti passi risuonarono nel mégaron;
infine li udii avvicinarsi a me, nella galleria.
Con
il cuore in tumulto, avanzai verso Tantalo in silenzio: volevo fosse
lui a dirmi che la guerra era ormai lontana.
“Mio
re!”, gridai quando lo sentii a pochi passi da me; ma la
lingua fu
più veloce della comprensione. Questo…
questo non è il suo passo,
mi accorsi dopo un istante, indietreggiando istintivamente.
Dall’ombra
spuntarono due occhi neri; quindi,
il corpo possente di Agamennone comparve davanti al mio sguardo pieno
d’orrore. Le sue braccia… le sue braccia
sorreggevano un corpo,
avvolto in un mantello blu, il
colore dei suoi occhi,
dal quale colavano copiosi rivoli di sangue.
“I
ragazzini dovrebbero lasciare la guerra agli uomini”,
esordì il re
di Micene, violando il silenzio e il mio cuore, “e tuttavia, lui
ha combattuto a lungo e con valore.” Appoggiò il
corpo al suolo e
io caddi in ginocchio, mi trascinai verso di esso.
L’incredulità
mi rendeva impossibile parlare, reagire. “Valoroso,
ma non saggio quanto si diceva; avrebbe dovuto circondarsi di persone
fedeli… non di traditori come quello che mi ha rivelato dove
si
trovi il tesoro di questa casa.”
Chinai
il capo. Le nostre ricchezze avevano perso per me ogni valore; nessun
gioiello, nessuna veste, né oro né argento valevano un respiro del mio dolce
re. “Prenditi pure tutte le ricchezze di Pisa. Non mi servono e non le
voglio”, mormorai, sfiorando il volto di Tantalo attraverso
la
stoffa di quell’orrido sudario.
Le
dita di Agamennone mi sfiorarono il polso, lo strinsero. “Sei
tu
il tesoro che ho bramato fin dai primi attimi.”
Il
fiato mi si spezzò nel petto, e ancor prima che il terrore
mi
colpisse con tutta la sua forza, il figlio di Atreo si protese verso
di me e mi afferrò il volto, la bellezza dei tratti distorta
dalla
bramosia. “Tu, la degna sposa di un grande re”, mi
sussurrò,
avvinghiandomi nelle sue braccia. “Questi occhi non meritano di essere
ammirati da gente senza gloria: devono brillare nella reggia di
Micene, per me. Quanto, quanto ho desiderato di poterti rivedere, stupendo fiore.”
Detto
questo mi gettò al suolo, sotto il suo peso, e sordo alle
mie grida
mi spogliò di ogni cosa, per poi togliersi il suo mantello e
con
quello ricoprirmi. Per tutto il tempo tentai di oppormi e implorai di
morire, che qualcuno avesse pietà di me e mi uccidesse;
nessuno
giungeva a liberarmi da quel tormento, e nonostante questo io
continuai a gridare, fino a indebolire la voce.
In
quegli istanti, tutto ciò che Tantalo aveva fatto sbocciare si chiuse
per sempre, soffocato dalle spine dell’odio: una fiera che
avrei
nutrito per molto, molto tempo… neppure immaginavo quanto.
Tu
sia maledetto,
fu il mio ultimo pensiero mentre tutto, intorno a me, si confondeva e
svaniva, tu
sia per sempre maledetto.
NOTE
[1]
La figura qui rappresentata è quella della Potnia,
“Signora”, dea della natura e dominatrice di fiere.
In tutta
l’area mediterranea e anche in quella asiatica si riscontrano
figure di dee legate alla vegetazione e alla luna, le “Dee
Madri”,
il che ha fatto nascere delle ipotesi riguardo l’originaria
presenza di culti matriarcali, a cui sarebbero seguiti quelli
patriarcali. Alcuni studiosi vedono una reminiscenza di ciò
nella
caratterizzazione delle divinità femminili nei vari pantheon,
le quali avrebbero “adottato” prerogative che un tempo la figura della Dea
Madre
raggruppava.
Secondo
la visione di Untersteiner, anche Clitemnestra e il mito
che la vede protagonista rappresenterebbero questa concezione.
[2]
Si tratta dell’antico palazzo di Cnosso, a Creta.
[3]
Omonimo del più famoso Tantalo che venne condannato a un
infinito
supplizio nel Tartaro.
[4]
Città dell’Elide, nel Peloponneso.
[5]
Antico nome della Grecia.
[6]
La parte principale del palazzo miceneo, dove il re riceveva ospiti e supplicanti e dove
si trovava il focolare.
ANGOLO AUTRICE
Salve
a tutti!
Allora,
inizialmente questa doveva essere una shot… ma stava
diventando
davvero lunga, quindi ho ritenuto opportuno dividerla in più capitoli.
Era
da tanto che volevo scrivere qualcosa su lei, Clitemnestra, questa
splendida figura resa immortale dai tragediografi; il mio interesse verso la sua vicenda è aumentato ancor di
più quando
mi sono imbattuta nell’interpretazione di Untersteiner, e il fatto che pochi conoscano le sue vicende prima dell’incontro
con
Agamennone mi ha dato un’ultima spinta… e quindi
eccoci qui.
Qualche
spiegazione aggiuntiva: per l’aspetto di Elena e Clitemnestra
mi
sono rifatta alla descrizione che Valerio Massimo Manfredi, nel suo
romanzo “Il mio nome è Nessuno – il
Giuramento”, fa di loro:
la prima una meraviglia di luce, la seconda descritta come bella, ma
inquietante.
Nel
testo ho insistito molto sia sul legame della regina con la luna, simbolo di potere femminile, sia sul fatto che lei sia particolare
e, secondo la concezione del tempo, anomala: Eschilo la definisce
“donna dal cuore d’uomo”, che assume su
di sé le prerogative
di un re… come poi, lo vedrete, farà.
Pochissimo
si sa sulla figura di Tantalo, e il mito non dice perché
l’Atride
gli fece guerra; quindi ho tenuto la questione misteriosa.
Per
tutto il resto, se avete dubbi, curiosità, chiarimenti e
osservazioni da presentare, non esitate a farlo.
Alla prossima ^^
Manto