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Autore: antigone7    01/12/2016    3 recensioni
Delia ha sedici anni, un carattere sfrontato e solare, una parlantina un po' eccessiva, un mucchio di nuovi amici e un solo acerrimo nemico: Matt Patterson è l'unica persona che fa uscire il suo istinto omicida. Crescendo, però, si accorgerà che l'odio è un sentimento troppo spesso sottovalutato e che, a volte, le cose non sono esattamente come potrebbero sembrare a prima vista.
Avevo davanti due occhi grigio-azzurri che mi scrutavano sospettosi; e io, dannazione, avevo un debole per gli occhi grigi. Inoltre, il portatore di questi occhi era un ragazzo alto, biondo e davvero, davvero molto bello. Mi sembrava di avere di fronte il Principe Azzurro in persona: mancavano il cavallo bianco e il mantello celeste e, forse, gli avrei detto di chiamarmi Cenerentola.
Come ho già specificato, però, questa mia prima impressione durò un attimo. Il tempo che lui aprisse bocca e avevo già cambiato totalmente idea. Probabilmente avrei dovuto capirlo già dal suo modo di guardarmi, sdegnato e infastidito, o dalla posizione svogliata con tanto di mani nelle tasche dei jeans, che era un completo stronzo.
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Marie's and surroundings'
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9. The scarlet letter


Ricominciare la scuola fu piuttosto difficile per Audrey. Era il nostro Senior Year, avemmo dovuto goderci il primo giorno entrando nei corridoi in pompa magna e sentendoci i padroni del mondo, ma purtroppo all’inizio non andò esattamente così.
Toby non prese bene il fatto che Dave avesse parlato: tentò di difendersi dicendo che si era inventato tutto, pregò Aud di non credergli e cercò di infangare il nostro amico in tutti i modi possibili, arrivando persino a dire che era stato David a provarci con lui quella sera al pub e non viceversa. Ovviamente lei non credette neanche a una parola di quello che lui tentava di propinarle e, anzi, la sua amicizia con Dave uscì rafforzata da quella prova. Ma ci vollero diverse settimane prima che Toby capisse che nessuno di noi avrebbe parlato dell’accaduto per ridicolizzarlo a scuola e decidesse infine di lasciar perdere Audrey.
Quello che invece accadde a me all’inizio dell’anno scolastico fece un bel po’ di scalpore in più e disturbò il mio ritorno a scuola, ma per raccontarlo devo partire dal principio.

Il primo giorno dell’ultimo anno, tolti i problemi di Audrey, fu da me, come sempre, accolto con gran entusiasmo. Arrivai in anticipo come l’anno precedente e andai a prendere posto nella zona caffetteria per aspettare i miei amici, eccitata e ansiosa al mio solito.
Dopo pochi minuti, mentre controllavo l’orario delle lezioni, che ero già andata a ritirare in segreteria non appena quest’ultima aveva aperto, qualcuno si sedette sulla sedia accanto alla mia, salutandomi.
“Delia Gray! Non sei un po’ presto?”
Alzai gli occhi stupita, poiché non avevo riconosciuto la voce. Lì di fianco, sorriso ammiccante e busto piegato in avanti, c’era Thomas Petrovic, Petey per gli amici, che mi guardava con un’espressione apertamente interessata.
“Sei qui anche tu,” ribattei, rispondendo anche al suo sorriso.
Lui scrollò le spalle e si sedette più comodo, appoggiandosi allo schienale della seggiola e prendendo in mano il caffè che aveva precedentemente lasciato sul tavolino.
“Io non vedevo l’ora di provare la mia nuova macchina, che mi hanno regalato i miei stamattina per il compleanno. Qual è la tua scusa, invece?”
“È il tuo compleanno? Auguri!”
Non avevo avuto a che fare con lui abbastanza da sapere quando facesse gli anni, le cose che sapevo sulla sua persona si contavano sulle dita di una mano: era del mio stesso anno, giocava a football nella scalcinata squadra della Winthrop High School, aveva i capelli corti e castani e due grandi occhi verdi che avevano steso più di una ragazza della scuola. Era simpatico, ci avevo parlato qualche volta gli anni precedenti e mi era sempre parso un ragazzo a posto, per quel poco che avevo potuto capire, un po’ troppo cascamorto forse, ma era un dettaglio che non mi preoccupava vista la mia natura libertina.
Petey annuì e si sporse nuovamente in avanti. “Quindi mi dai un bacio?”
Non mi mossi di un millimetro. “Perché?”
“Per il mio compleanno,” spiegò lui ammiccante.
Mi rilassai e decisi di stare al gioco: se un bel ragazzo ci provava con me così apertamente, di certo non sarei stata io a farlo desistere. Mi avvicinai sporgendomi sulla sedia e gli lasciai un bacio sulla guancia, soffermandomi poi un secondo di più per ripetere un “auguri” bisbigliato. Quando mi allontanai lui mi guardava soddisfatto e tornò a mettersi comodo.
“Per stavolta mi accontento, Delia.”
Stavo per rispondergli a tono quando ci raggiunse Nathan Wilde, un altro ragazzo della squadra di football, con cui ero anche uscita un paio di volte l’anno precedente senza combinarci niente di che.
“Petey!” iniziò, arrivando vicino al suo amico e dandogli una pacca sulla spalla. “È tuo il bolide qui fuori, amico? Che colpaccio!”
“Sì, ti avevo detto,” rispose l’altro. “Siediti, Wilde.”
“Ciao Delia,” mi salutò Nate mentre ascoltava l’invito e si sedeva con noi.
“Ehi, ciao, come stai?”
Lui rispose con un “bene, grazie” e poi tornò a parlare col suo amico, così io mi ritrovai nel bel mezzo di una conversazione sui motori di cui avrei volentieri fatto a meno, vista anche l’ora del mattino. Dopo diverso tempo cominciai ad annoiarmi seriamente, stavo giusto prendendo in considerazione l’ipotesi di alzarmi e allontanarmi da quel martirio quando arrivò Josh. Mentre si avvicinava alla macchinetta del caffè mi notò e mi fece un cenno con la mano, dopodiché vide con chi ero seduta e cominciò a farmi espressioni maliziose e a domandarmi a gesti se avessi intenzione di farmi due giocatori di football contemporaneamente. Ridacchiai alla sua sfacciataggine e mi alzai per raggiungerlo, e in quel momento Petrovic e Wilde smisero di ciarlare per guardarmi stupiti.
“Dove vai?” mi domandò Petrovic.
“È arrivato un mio amico, volevo raggiungerlo. Grazie per la compagnia, ragazzi, è stato un piacere,” mentii senza pudore, mentre raccoglievo le mie cose.
Non attesi nemmeno una risposta, mi allontanai senza troppi convenevoli e mi diressi al tavolo dove Josh aveva appena preso posto in compagnia di Patterson, che non avevo idea di quando fosse arrivato.
“Ebbrava piccola Delia,” mi accolse Josh, sul volto un sorriso furbo che feci finta di non notare.
“Non infierire, Parker, ho dovuto sorbirmi discorsi degni di un episodio di Supercar fino ad ora,” sospirai lasciandomi cadere su di una poltroncina consunta, vicino a Josh, pur sapendo che mi avrebbe preso in giro ancora per un bel po’.
“Ah, non stavate organizzando una cosuccia a tre?” chiese infatti lui.
“Non proprio.”
“Sei fortunata che Audrey debba ancora arrivare, se ti avesse vista in quella situazione ti starebbe già bombardando con domande piccanti.”
“Già,” mormorai, pensando che in effetti avrei potuto distrarre Aud con ciò che mi era appena successo.
A quel punto, senza preavviso, Patterson decise di intervenire. “Petrovic è un coglione.”
Mi stupì sentire la sua voce, fino a quel momento era sembrato poco interessato all’argomento della conversazione, quindi rimasi qualche secondo di troppo a pensare a una risposta, finché Josh non mi precedette.
“Mah, non lo conosco abbastanza per dirlo. Nathan Wilde non è male, ogni tanto viene con me e Dave a giocare al campetto, ma con Petrovic avrò scambiato sì e no tre parole in tre anni.”
“È un coglione,” ribadì Matt con decisione.
“Se lo dici tu,” rispose Josh. “Che ne pensi, Dee?”
“Lo conosco a malapena, ma ho visto di peggio.”
“Con quegli occhioni verdi, eh?” mi prese in giro Josh sbattendo le ciglia per esprimere meglio il concetto.
Stavo per scoppiare a ridere quando Patterson parlò di nuovo, con aria annoiata.
“Se ti basta così poco, Gray.”
Mi offesi a morte per quell’insinuazione di superficialità, di certo io non ero il tipo di ragazza che si faceva convincere da due begli occhi, la prova lampante di ciò era proprio il mio odio nei confronti di Matt Patterson, che a scuola era Mister Occhioni per eccellenza.
Lanciai a Patterson uno sguardo fulminante, con l’intenzione, se possibile, di dargli fuoco con la sola forza del pensiero, ma purtroppo non mi riuscì.
“Sei il solito deficiente.”
“Ho detto la verità.”
“Non sai neanche di cosa stai parlando, Patterson. Non mi conosci.”
“Ah, e da quando saresti diventata selettiva nei confronti dei ragazzi con cui esci?”
Boccheggiai, punta sul vivo. “Sempre meglio delle ochette insipide con cui esci tu.”
“Chi? Thomas Petrovic? Sono abbastanza sicuro di conoscerlo meglio di te.”
“Se hai questa fissazione per lui escici tu, allora, principino. Io non ho mai detto che l’avrei fatto.”
Josh guardava il nostro battibecco da fuori, come al solito, limitandosi a ridacchiare per le battute più velenose. Non appena terminai l’ultima frase sentii qualcuno che mi chiamava da poco lontano e mi girai interrompendo il contatto visivo con Patterson per trovarmi davanti proprio Tom Petrovic. Era in piedi poco lontano dal nostro tavolo e aveva appena raccolto il suo zaino per dirigersi, probabilmente, verso il corridoio, dove Wilde lo aspettava.
“Vieni con me all’Homecoming venerdì sera? Dopo la partita possiamo fare qualcosa insieme, se ti va.”
Rimasi interdetta e con la bocca socchiusa per qualche secondo, senza sapere come rispondere: mi capitava un po’ troppo spesso di recente, e non era un bene. Solo quando sentii Matt sbuffare alle mie spalle decisi cosa fare, e prima ancora di rendermene conto stavo parlando.
“Certo.”
“Ottimo!” esultò Petrovic. “Più tardi ci mettiamo d’accordo, allora.”
Si diresse verso il suo amico e io mi voltai verso i miei. Josh ridacchiava apertamente, mentre Patterson mi guardava con aria scettica.
Escici tu, io non ho mai detto che l’avrei fatto?” mi scimmiottò, ricalcando la mia affermazione di poco prima.
“Ho cambiato idea,” borbottai, ancora offesa con lui.
Dopotutto a me Tom Petrovic non era sembrato così male e se quell’idiota di Patterson aveva una pessima opinione di lui non poteva che essere un punto in suo favore.

Inutile dire che l’appuntamento, se così si può definire, fu un disastro totale. Ero talmente determinata a farlo andare bene e a far sì che Patterson avesse torto nel suo giudizio negativo su Petrovic, che finsi di non notare tutti i segnali d’allarme. E ce ne furono a bizzeffe.
L’Homecoming era una tradizione della mia e di molte altre scuole e università del paese, ed era una specie di festa di benvenuto per l’inizio dell’anno scolastico. Di solito ci si radunava per guardare la partita di uno sport praticato a scuola, e dal momento che da diverso tempo la nostra squadra di football non vinceva un incontro nemmeno per sbaglio, quell’anno la scelta era ricaduta sul basket, il secondo sport più popolare da noi. Era prevista una presentazione della squadra della Winthrop High, una partita amichevole contro la formazione del Collegio Saint James e, infine, un party per gli studenti sul campo di football.
Avevo appuntamento con Petey per le sette e mezza, ma lui si presentò con più di mezz’ora di ritardo, mancando la presentazione della squadra. Nessuno dei miei amici era presente alla prima parte dell’Homecoming: Josh e David boicottavano tutte le partite di basket poiché avevano lasciato la squadra al terzo anno, quando il coming out di Dave aveva reso loro la vita impossibile all’interno dello spogliatoio; Audrey era ancora in fase depressiva per la faccenda di Toby e Jude aveva deciso di stare a casa con lei. Sapevo che, nel caso Petrovic mi avesse dato buca, le mie due migliori amiche non mi avrebbero raggiunte nemmeno per il post partita, ma non potevo scommettere lo stesso su Josh e David che, nonostante gli umori altalenanti dell’ultimo periodo, erano da sempre dei festaioli nati.
Ad ogni modo alla fine Petey arrivò, si scusò fiaccamente per il ritardo e si sedette di fianco a me sugli spalti. Pensai con un vago accenno di stizza che avrebbe almeno potuto inventarsi una scusa per quei quaranta minuti di ritardo ma, spinta da una bontà d’animo che di norma non mi apparteneva, decisi di fare finta di nulla e di dargli una seconda possibilità. Gliene diedi una terza quando, durante l’intervallo della partita, incontrò un suo compagno di squadra e si mise a parlare con lui come se io non esistessi, per poi ricordarsi di me quando si girò e mi mise in mano dieci dollari chiedendomi di andare a prendere due birre per lui e Jackson.
“E ovviamente prendi qualcosa anche per te, splendida,” aggiunse, ma non mi sembrò notare il mio sguardo di fuoco.
Tornai portando loro due aranciate con la scusa che al gazebo non vendevano alcolici agli studenti, cosa probabilmente verosimile, ma che non mi ero premurata di verificare.
Concessi a quel troglodita addirittura una quarta possibilità perché, no, proprio non volevo darla vinta a Patterson, dopo che lo vidi correggere la propria aranciata con della vodka che estrasse direttamente dalla tasca interna della giacca, come nei migliori cliché sugli alcolizzati. Non mi scandalizzavo per un po’ di vodka, ma per giustificare la fiaschetta in tasca di Petrovic dovetti ricorrere ai più strani film mentali che potessi farmi: credetti che l’avesse portata per il post partita, mi dissi che di certo non aveva intenzione di ubriacarsi al nostro primo appuntamento, pensai che sicuramente ne avrebbe offerta un po’ anche a me e ai suoi amici. Non me l’offrì. Inoltre alla fine del match era già piuttosto alticcio, anche se non lo dava a vedere, e lo capii solamente a causa di ciò che successe durante il party.
Ci dirigemmo al campo da football e lì Petrovic sparì per qualche tempo, lasciandomi sola. Chiacchierai un po’ con un paio di persone che conoscevo, infine vidi Josh e mi avvicinai a lui, sollevata. Quando notai che era in compagnia di Matt il mio passo si fece più incerto, non avevo proprio voglia di affrontarlo in quel momento, ma andai comunque nella loro direzione per evitare che si accorgessero del mio tentennamento.
“Delia!” mi accolse Josh, felice di vedermi. “Come va il tuo appuntamento?”
“Piuttosto bene, direi,” mentii, stampandomi un sorriso sulle labbra.
“E dov’è… Cutie Petie? Lo chiami già così, vero? Siete intimi?”
Abbozzai un sorriso, ma sapevo che in un altro momento le prese in giro di Josh mi avrebbero divertita. Se ne accorse anche lui, perché smise di infierire e mi lanciò un’occhiata indagatrice.
“Allora, dov’è?” domandò di nuovo.
Evitai accuratamente di guardare Matt mentre rispondevo. “Non saprei, si è allontanato poco fa per salutare qualcuno e… Beh, insomma, con tutta questa gente poi ci siamo persi di vista. Ma sono sicura che è qua da qualche parte.”
Josh annuì lentamente, poi sembrò valutare cosa dire. “Vuoi… Hai bisogno di qualcosa?”
Sapevo che mi stava proponendo un modo rapido e indolore per uscire indenne da quel disastro di appuntamento ma, poco propensa ad abbandonare il mio orgoglio di fronte a Patterson, risposi con un cenno negativo.
“Sei sicura?”
Stavolta era stato proprio Matt a parlare, anche se fino a quel momento era stato muto come un pesce.
“Sì, sono sicura,” risposi senza tentennare. “Dave non c’è?”
Josh scosse la testa. “Ha preferito rimanere a casa.”
Annuii lentamente, senza sapere cos’altro dire, e in quel momento vidi Petrovic a pochi passi da noi.
“Eccolo,” dissi indicandolo ai miei amici. “Torno da lui, ragazzi, ci si vede in giro.”
Li abbandonai con qualche riluttanza e tornai da Petie, intenzionata a inventarmi una scusa per tornare a casa il più presto possibile. Se ci fosse stato solamente Josh forse gli avrei detto la verità, cioè che l’appuntamento si stava rivelando una mezza catastrofe e che mi avrebbe fatto comodo qualcuno che mi salvasse, ma la presenza di Patterson mi aveva in qualche modo inibita.
Petrovic quando mi vide mi fece un gran sorriso, mi raggiunse, mi prese per un polso e mi trascinò in un posto meno affollato. Lo lasciai fare, pensando che volesse portarmi fuori dalla festa, che comunque non era un granché, per fare insieme qualcosa da “primo appuntamento”, un gelato, una passeggiata, due chiacchiere. Ma quando notai che non ci stavamo dirigendo vero l’uscita gli domandai dove stessimo andando.
“In un posto tranquillo,” rispose lui, imboccando un passaggio per entrare sotto le gradinate dello stadio.
Quando ci ritrovammo protetti dall’ombra delle tribune Petrovic si fermò, si girò verso di me e senza troppi complimenti si avvicinò per baciarmi, cosa che ovviamente, tolti i primi due secondi di sorpresa, non gli lasciai fare.
“Cosa diavolo stai facendo?” gli chiesi trafelata, staccandomi da lui.
“Mi sembra chiaro, ti ho portato in un posto isolato così finalmente ci divertiamo un po’.”
Biascicava nel parlare e aveva l’aria di non essere del tutto in sé. Mi allontanai di un paio di passi per prudenza e intanto mi insultai mentalmente per essermi ficcata in quella situazione.
“Sei ubriaco e forse ti sei pure fumato qualcosa.”
“Macché ubriaco, che vuoi che sia! Ti credevo un po’ meno bacchettona.”
“Bacchettona un cazzo!” sbraitai sconvolta. “Non ti avrei toccato nemmeno se fossi stato sobrio, dopo questo appuntamento di merda!”
“Con Nate non ti sei fatta tanti problemi, però.”
“Che paragone idiota! Sono uscita tre volte con Wilde e non si è mai minimamente sognato di comportarsi così.”
Petrovic rise di gusto. “Infatti gliel’hai data subito.”
“Ma ti sei bevuto anche il cervello? Non c’ho fatto sesso!” Feci un paio di respiri profondi per calmarmi e poi continuai. “Senti, pensa quello che vuoi, non devo certo giustificarmi con te. Me ne vado.”
Lui cercò di avvicinarsi a me per fermarmi. “Dai, Delia, scusa, non volevo…”
Gli risposi dandogli le spalle e mi allontanai il più velocemente possibile. Uscii dallo stadio e mi fermai solo per infilarmi il casco e salire sul mio scooter, infine me ne andai senza voltarmi indietro.

Sabato sera, per evitare ulteriori disastri sociali, mi rintanai in casa. David venne a trovarmi e passammo la serata a lamentarci come due vecchie zitelle del fatto che gli uomini facevano schifo e che non avremmo mai trovato la persona giusta.
Quando arrivò il lunedì mattina, in realtà, avevo fatto in tempo a dimenticarmi per bene lo schifoso appuntamento con Petrovic, così racimolai un po’ del mio solito buon umore, mi attaccai in faccia un bel sorriso ed entrai a scuola con l’intenzione di passare una settimana migliore della precedente. Purtroppo i miei buoni propositi  durarono giusto il tempo di arrivare al mio armadietto.
Avevo notato, in corridoio, qualcuno che mi guardava bisbigliando, ma avevo pensato che fosse dovuto al fatto che in testa avevo un cerchietto rosso con dei piccoli pois bianchi che, unito alla mia lunga gonna sui toni del giallo, alla maglietta blu e ai miei capelli scuri, faceva tanto effetto Biancaneve. Così quando giunsi nei pressi del mio armadietto e notai qualche persona di troppo che ronzava lì intorno non mi preoccupai, almeno finché non venni placcata da un David alquanto agitato che tentava di impedirmi di giungere a destinazione.
“Delia, ciao. Devi sapere una cosa prima di vedere il tuo armadietto.”
“Cosa?”
“Innanzitutto questa scuola è piena zeppa di teste di cazzo,” iniziò lui prendendo l’argomento piuttosto alla larga.
“Questo lo so, Dave, si può sapere cosa cavolo non posso vedere?”
“Amore, non rimanerci male. Sei migliore di così, tu non…”
Lo superai e mi diressi spedita all’armadietto, con un allarme che risuonava forte nella mia testa: se David mi aveva chiamata amore sapevo che c’era davvero qualcosa di brutto, perciò non mi stupii quando vidi che sullo sportello, con una bomboletta spray rossa, qualcuno aveva scritto un messaggio semplice e inequivocabile: TROIA.
Sbuffai infastidita, non era la prima volta che vedevo episodi del genere a scuola, non ero mai stata coinvolta personalmente ma avevo imparato che c’era qualcuno che a volte si divertiva a fare anonimamente il moralizzatore di turno. Finsi indifferenza, aprii l’armadietto e ci riposi le mie cose e, mentre lo facevo, sentii Dave appoggiarmi una mano sulla spalla.
“Tutto ok?”
“Sarà il solito stronzo bigotto, non credo sia il caso di preoccuparsi,” minimizzai, cercando di non dare a vedere che il mio umore era rovinato.
“Puoi prendertela, Deels, sai che puoi sfogarti con me.”
“E perché dovrei? Non sei stato tu a imbrattarmi l’armadietto. Adesso siamo in ritardo per Biologia, alla fine dell’ora andrò a denunciare la cosa al preside o a un professore e domani sarà tutto come nuovo. Mi hanno fatto anche un favore, in realtà, magari è la volta buona che mi sostituiscono lo sportello, è difettoso già dall’anno scorso.”
Parlai a voce alta per farmi sentire dalle persone lì intorno, presi i libri che mi servivano, richiusi l’armadietto con una spinta un po’ troppo vigorosa e mi caricai lo zaino sulla spalla per incamminarmi verso il laboratorio di Biologia. David, che mi aveva creduto o aveva finto di credermi, mi seguì in silenzio.
Ma, nonostante il sangue freddo che avevo mostrato, quella scritta era stata come un pugno nello stomaco per me e ciò che mi riferì Audrey durante la prima ora fu la famosa goccia che fece traboccare il vaso. Non l’avevo incontrata in corridoio perché, dopo aver visto la scritta, si era messa d’accordo con Dave e, mentre lui aspettava il mio arrivo, lei era andata in giro a raccogliere informazioni sulla faccenda. Aveva scoperto che nessuno pareva sapere chi avesse usato la bomboletta, ma che a scuola giravano delle dicerie parecchio scandalose e altrettanto menzognere sul mio conto.
“C’è chi dice che ti sei fatta metà squadra di football e metà squadra di basket solo durante l’anno scorso,” mi raccontò Audrey mentre guardavamo a turno dei vetrini al microscopio per poi annotare sul quaderno ciò che vedevamo.
“Sì. Magari, guarda,” commentai stizzita.
“Ma la cosa che mi ha stupita è che ci sono voci molto più specifiche, credo siano il quelle il vero motore di tutto.”
“Cioè?”
Aud mi lanciò un’occhiata dubbiosa e io la incitai a parlare con un cenno della mano: se volevo capirci qualcosa e, magari, trovare un colpevole, tanto valeva sapere tutta la storia.
“Morgan dice che Allison le ha detto che… Ok, chi se ne frega,” tagliò corto notando la mia occhiata disperata. “Dicono che ti sei fatta Nate Wilde, Carter Austin e Jeremy Bell. E che all’Homecoming hai trascinato Tom Petrovic sotto le gradinate del campo da football per fargli un… Sì, insomma, hai capito.”
“Innanzitutto non so nemmeno chi sia questo Jeremy Bell. E comunque: magari la mia vita sessuale fosse tanto interessante! Di certo non passerei il sabato sera reclusa in casa a guardare Desperate Housewifes col mio migliore amico gay.”
“Dee, in quest’impiccio c’entra sicuramente Petrovic.”
“Lo sospettavo già,” annuii io. “Ma per me può mettere in giro tutte le voci che vuole, non vedo chi può credere a un patetico sfigato del genere.”
Aud fece una faccia allarmata e dispiaciuta. “Beh, veramente…”
La interruppi, sconfitta. “Lo so, lo so. Vorrei almeno provare a far finta che i nostri compagni di scuola non fossero tutti degli imbecilli patentati.”
“Morgan e Allison non ci hanno creduto, se ti può consolare. Non a tutto, almeno.”
“In che senso non a tutto?”
“Morgan ha detto che Petrovic aveva aggiunto così tanti particolari alla storia dell’Homecoming che…”
Sbottai, agitando per aria la matita che avevo in mano. “Particolari che si è inventato di sana pianta! Quel coglione mi ha palpeggiata sotto le tribune e siccome l’ho respinto vuol far passare me per una poco di buono!”
“Lo so, Dee, gliel’ho detto e lei mi ha creduto. Ma sai come sono le voci qui a scuola, si spargono a macchia d’olio e…”
“Non fa niente, passerà anche questa,” sbuffai, stufa dell’argomento.
Ma quella conversazione mi lasciò con l’amaro in bocca e con una sensazione di peso alla bocca dello stomaco, tanto che alla fine dell’ora mi allontanai dai miei amici e andai a cercarmi un posto tranquillo dove riposarmi per cinque minuti dalle occhiate maliziose (dei ragazzi) e disgustate (delle ragazze) che mi vedevo piovere addosso.
Vagai a vuoto per qualche minuto, poi, temendo di essere beccata in giro per i corridoi da un professore o, peggio, dal preside Harper, mi decisi e mi infilai nell’Aula Conferenze, che non era altro che una specie di piccolo auditorium dove si tenevano le riunioni plenarie della scuola, gli spettacoli o gli incontri formativi. Visto che non era previsto nessun evento l’aula era prevedibilmente vuota; tirai un sospiro di sollievo e scelsi una fila a caso per buttarmi a sedere su una delle poltroncine rosse in stile teatro, per godermi la pace e la penombra della stanza.
Adesso me ne sto qui, pensai, stremata. Salto Fisica e poi Letteratura e anche Storia, e sto nascosta tutta la mattina. Posso fare la fifona, per una cazzo di volta.
Ovviamente non feci nemmeno in tempo a concludere il pensiero che il mio brillante piano venne rovinato sul nascere dall’ingresso nella stanza di una persona. Lì per lì cercai di far finta di niente, chiusi gli occhi, mi rimpicciolii un po’ sulla sedia e sperai con tutto il cuore di non essere notata dall’intruso. Poi sentii dei passi avvicinarsi e, con gli occhi ancora chiusi e la testa incassata fra le spalle, percepii una sedia sulla stessa fila della mia abbassarsi sotto il peso di qualcuno. Mi accartocciai un po’ di più sulla seggiola, piegando le ginocchia per nascondervi il viso in mezzo, ma non aprii ancora gli occhi.
“Dimmi solo che non sei un professore,” mormorai invece.
“Non sono un professore.”
Nonostante il nervosismo, l’agitazione e la voglia di rimpicciolirmi fino a sparire in uno sbuffo d’aria, riconobbi all’istante quella voce e, se possibile, la cosa mi destabilizzò ancora di più.
“Patterson,” borbottai, aprendo finalmente le palpebre.
Mi tolsi il cerchietto e mi passai nervosamente la mano fra i capelli, più e più volte.
“Biancaneve, sei tu?” mi canzonò lui.
“Preferivo fosse un professore.”
Lo sentii muoversi, probabilmente per mettersi più comodo, e finalmente mi girai per lanciargli una breve occhiata. Era seduto un paio di sedie oltre la mia, si sporse leggermente verso di me e prese il cerchietto rosso che avevo appoggiato al bracciolo, per poi cominciare a girarselo tra le mani, quasi sovrappensiero. Notai che il suo zaino giaceva abbandonato sul pavimento lì di fianco.
“Non ti ho visto alla prima ora,” gli dissi, mentre tornavo a guardare di fronte a me.
“Sono arrivato adesso.”
“Ah.” Feci una lunga pausa, dopodiché mi decisi a parlare, lanciandogli un’altra occhiata. “Quindi avrai notato il mio splendido armadietto.”
Lui mi guardò serio ma non disse niente. Lo presi come un sì.
“Sei qui per questo?” domandai, appoggiandomi completamente allo schienale e buttando la testa all’indietro per guardare il soffitto. “Per rinfacciarmi il fatto che avevi ragione tu su Petrovic?”
Matt schioccò la lingua sul palato. “Quanto stronzo pensi che io sia?”
“Non lo so, ma so che mi odi. Adesso almeno sei in buona compagnia.”
L’ultima frase la borbottai a voce bassissima, quasi inudibile, se non fosse che eravamo immersi in un silenzio pressoché assoluto.
Lui in risposta sbuffò, quasi con impazienza. “Ma finiscila di compatirti.”
Tipico. Riuscivo a innervosirlo anche nelle condizioni pietose in cui versavo in quel momento: se questo non la diceva lunga sul nostro rapporto, non sapevo cos’altro avrebbe potuto farlo. Non avevo nemmeno voglia di litigare, così mi limitai ad alzare le spalle.
“La fai facile, tu. Non hai un’etichetta gigante con su scritto troia stampata in fronte.”
Matt sembrò riflettere a lungo sulle parole da dire subito dopo; quando ormai pensavo che non avrebbe più parlato, mi stupì. “Forse non sono la persona più adatta a dirtelo, ma dovresti fregartene. Sei migliore di un deficiente che scrive cazzate con una bomboletta spray e sicuramente sei migliore delle quattro chiacchiere da spogliatoio che Petrovic ha messo in giro su di te.”
“Chiacchiere?” ripetei, amara, ricordando le sue affermazioni del primo giorno di scuola. “Pensi anche tu che io sia una facile.”
“Non lo penso. E mi dispiace se ho detto qualcosa che te l’ha fatto credere.”
A quel punto ero davvero stupita. “Mi stai chiedendo scusa?”
“Certo che no.”
“Perché sei così carino con me adesso?” insistei.
“Avevi ragione,” rispose serio. “Quest’estate ho cercato di evitarti, soprattutto in quelle serate in cui uscivate per bere e festeggiare.”
“Mi prendi in giro?”
Scosse la testa. “Il problema è che… Dopo che ho bevuto un paio di birre ti odio di meno e cominci a piacermi un po’ di più.”
Il mondo smise di girare per qualche secondo e io mi trovai ad aggrapparmi ai braccioli della sedia. “Comincio a… Cosa?”
“Piacermi. Poco, eh. Ma non va comunque bene.”
Aprii la bocca un paio di volte a vuoto prima di trovare il coraggio di rispondere. “Perché me lo dici ora? Sei… sei sobrio.”
“Perché è una cosa compromettente. Immagino che l’idea di avere qualcosa con cui ricattarmi in futuro possa tirarti un po’ su.”
Ero talmente confusa e stupita che non riuscivo a smettere di fare domande idiote. “Vuoi tirarmi su di morale?”
Lui fece una faccia annoiata, continuando a fissare il mio cerchietto che si passava da una mano all’altra con finto interesse. “Mica per bontà d’animo nei tuoi confronti. Sei lagnosa e più fastidiosa del solito oggi, quasi quasi ti preferisco logorroica e petulante.”
“Non sono lagnosa, stronzo!” mi inalberai subito ai suoi insulti.
Matt alzò finalmente la testa per guardarmi con un sopracciglio alzato. “Eccola qua.”
“E in ogni caso non sono mai petulante.”
“Oh, lo sei.”
Il sorrisetto furbo con cui mi rispose mi fece saltare definitivamente i nervi, così sbottai. “Ma guarda te da chi mi devo far insultare!” mi lamentai incrociando le braccia. “Un damerino altezzoso e pieno di sé che prende lezioni di danza per andare al ballo delle debuttanti. Che comunque, per la cronaca, è una cosa per femmine. Magari i tuoi genitori avrebbero voluto una femmina, almeno sarebbero riusciti a inculcarle un po’ di buone maniere, invece sei uscito tu, una specie di irritante, egocentrico, maleducato…”
Non aspettò che finissi e si sporse un po’ verso di me. “Almeno non puoi negare di essere logorroica.”
Lo ignorai e continuai a insultarlo. “…borioso, bugiardo e indisponente principino viziato.”
“Hai finito?”
“Ne avrei ancora,” bofonchiai, fingendomi più offesa di quello che ero.
“Non ho dubbi. Sembri un dizionario di sinonimi.”
Lo fulminai con un’occhiataccia e lui mi lanciò il cerchietto che acciuffai per un pelo, dopodiché si alzò e fece con la testa un cenno per indicare la porta.
“Andiamo, dai.”
“Non ho voglia di andare a lezione della Mitchell, davvero,” gli risposi senza muovermi di un millimetro. “Vi raggiungo alla terza ora.”
Matt mi sorprese di nuovo. “E facciamo a meno. Non ho voglia nemmeno io.”
Detto questo, raccolse da per terra il suo zaino e la mia tracolla e si diresse verso l’uscita. Potevo passare sopra a tutto, ero praticamente in uno stato catatonico provocato dagli avvenimenti della mattina e dalle parole incredibili di Matt, ma il furto della mia borsa mi smosse.
“Ehi, che stai facendo?”
Lo seguii senza avere risposta e, una volta fuori dall’auditorium, fui colpita dalla luce accecante che illuminava il corridoio e strizzai gli occhi. Quando li riaprii Patterson sembrava essere sparito, tanto che mi ritrovai, spaesata, a guardare più volte nelle varie direzioni in cui poteva essersi mosso, finché la sua testa non spuntò da in fondo al corridoio alla mia sinistra.
“Gray! Veloce, prima che ci veda qualcuno.”
Gli andai dietro senza protestare, ma solo perché avevo paura di dare nell’occhio: i corridoi erano praticamente deserti, la maggior parte degli studenti erano nelle aule, ma poteva sbucare un professore libero da un momento all’altro. Patterson, a sorpresa, s’infilò per uno svincolo di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza, alla fine del quale c’era una porta che dava sul retro del parcheggio. Quando fummo all’esterno continuò a camminare diversi passi davanti a me, raggiunse quella che avevo imparato a riconoscere come la sua macchina, una vecchia Ford marroncina di seconda mano di cui non conoscevo il modello, aprì lo sportello posteriore per buttarci la mia tracolla e il suo zaino, e infine entrò sedendosi sul sedile del guidatore.
Solo allora tornò a puntare gli occhi verso di me, che ero ferma in piedi a pochi passi dall’auto. Mi guardò interrogativo e io mi posai una mano all’altezza del cuore, nell’inutile tentativo di fermare la tachicardia dovuta alla corsa e alla paura di essere scoperta.
“Sei pazzo,” lo accusai, puntandogli un dito contro. “E pericoloso.”
Lui sorrise con aria angelica. “Che fai, non vieni?”
Tentennai qualche secondo, immobile con la mano sul petto e la bocca schiusa per riprendere fiato. Pensai che non ero maggiorenne, che mancavano tre mesi al mio diciottesimo compleanno, che i miei genitori mi avrebbero ammazzata. Poi pensai all’armadietto, alle occhiate che avrei dovuto sorbirmi a scuola, a Petrovic. Infine pensai che per me non era normale pensare così tanto e, proprio mentre Matt sbuffava impaziente e apriva la bocca per dirmi di decidere alla svelta, feci il giro dell’auto, aprii lo sportello e mi accomodai sul sedile del passeggero.
“Devo essere impazzita anch’io,” mormorai tra me e me, allacciandomi la cintura di sicurezza ed evitando di guardare alla mia sinistra.
Patterson accese il motore e partì con un’ultima raccomandazione che ebbe il potere di farmi uscire il fumo dalle orecchie.
“Finché sei nella mia macchina segui le mie regole: puoi usare frasi composte al massimo da venti parole. Niente monologhi deliranti alla Delia Gray.”
“Io non faccio monologhi deliranti alla…”
Mi bloccai alla sua occhiata eloquente, incrociai le braccia e misi su un’espressione offesa. “Non mi sentirai dire una parola, principino.”
“Questa sì che sarebbe una novità.”
“Voglio scendere,” brontolai, non troppo convinta.
“È troppo tardi, Gray,” rispose lui prendendo una svolta a sinistra. “Stamattina sei bloccata con me.”












Hola! Non odiatemi, per favore: il capitolo doveva continuare, lo so. So anche che avrei potuto farlo lungo il doppio e che probabilmente nessuno si sarebbe lamentato, ma avevo paura uscisse un papiro assurdo e, soprattutto, avevo paura di non riuscire a pubblicarlo entro tempi brevi. Ho fatto fatica già a scrivere questa parte e volevo avere qualcosa da far leggere a chi mi segue con tanto amore.

Sto faticando a scrivere e temo che il capitolo ne risenta. Ho bisogno di qualche feedback per capire se sto andando nella direzione giusta o se devo chiudere baracca e burattini. So che sono stata assente per tanto tempo, ma so anche che qualcuno che segue la storia c’è, se trovaste cinque minuti per lasciarmi due righe di recensione mi fareste la persona più felice del mondo!

Per quanto riguarda il capitolo, spero di non aver deluso nessuno, mi sto sforzando di mantenere i personaggi il più IC possibile e non è facile. A volte mi devo trattenere per non fargli dire troppo (non a Delia, lei può parlare quanto vuole, tanto ormai è così), perché trovo che sarebbe inverosimile un dialogo in cui Matt spende troppe parole per consolarla, o le spiega perché è andata a cercarla (sì, stavo per scriverlo, ma poi ho cancellato tutto). Per questo a molti può sembrare che la storia proceda a rilento, ma dal mio punto di vista non è così. L’obiettivo è mostrare un avvicinamento tra due persone tendenzialmente e apparentemente tanto diverse, e forse, sì, mi sto dilungando, ma non voglio nemmeno affrettare le cose. Gli step della storia sono ben chiari nella mia testolina, forse per arrivarci faccio dei giri un po’ assurdi ed esagero? Let me know.

Il titolo del capitolo è ovviamente un rimando al romanzo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne che, per farla breve, parla di adulterio e di gogna pubblica. Mi pareva adatto.
Il Senior Year è l'ultimo anno di High School (le nostre superiori) negli US. Tra qualche capitolo finirà la parte "scolastica", yep.

Aspetto pareri e spero apprezziate lo sforzo di una pubblicazione (relativamente) veloce.
Un bacio grosso a tutti quelli che leggono! <3
  
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