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Autore: Rynarf    01/12/2016    0 recensioni
Molto spesso è arduo riuscire a far addormentare il proprio pargolo poiché si oppone a quella sonnolenza forzata. Tuttavia vi è un’antica leggenda ricamata attorno ad un bambino: Jecca.
Una volta narrata, ogni fanciullo accettava di buon grado l’idea di riposare senza proferir parola.
“È un’ombra del male, mio caro. Sbuca dall’oscurità per portare via con sé i bambini. “
Genere: Dark, Horror, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“StrangaJecca”

 

I boccoli color del grano, soffici come nuvole, gl’incorniciavano il volto roseo ed aggraziato. Il cielo mattutino aveva donato una porzione di sé nei suoi occhi, i quali sorridevano assieme alle labbra del giovane, perennemente schiuse per mostrare al mondo la perfetta e smagliante dentatura.
Jecca desiderava tanto andare a scuola come i suoi coetanei! Così, un bel giorno, andò dal suo papà per fargli una domanda:
«Babbo, perché gli altri bambini vanno a scuola ed io no? Posso andare anch'io con loro, per favore?»
«Jecca, non vedi che sono impegnato? Non infastidirmi!» rispose il padre con tono brusco e distratto.
Per il dispiacere, dunque, cinque ciocche del piccolo divennero rizze e crespe. L’intera chioma variò dal grano al biondo miele. Gli occhi si tramutarono in grigio. Le labbra si chiusero, nascondendo i denti. Le scocche rosse svanirono dalle guance.
Quindi pose la medesima questione alla madre:
«Mamy, perché gli altri bambini vanno a scuola ed io no? Posso andare anch'io con loro, per favore?»
«No, figliolo. Tu devi restare con noi poiché fuori di casa è pericoloso. Non farmi mai più una domanda del genere, quest'argomento è tabù! Se ne parlerai ancora riceverai una severa punizione!» esclamò la mamma stizzita ed al contempo seccata.
Per lo sconforto, al giovane s’incresparono altri cinque boccoli. Il capo mutò in cenere. Lo sguardo si tinse di nocciola. Le labbra, adesso, davano solo un accenno d’allegria. La carnagione prese un lieve pallore.
Jecca si rifiutava di demordere! Per questo tornò dal precedente genitore per riproporgli nuovamente la faccenda:
«Babbo, io vorrei davvero studiare insieme agli altri bambini…»
«Maledizione, Jecca! Tu non andrai mai a scuola! Resterai per sempre qui in casa dove potrai essere al sicuro. Devi smetterla con queste domande, ti è chiaro?» sbottò adirato il capofamiglia.
Grazie a quella ramanzina, ulteriori ciuffi gli si rizzarono in testa. Questa divenne d’un castano chiaro e del medesimo colore furono gli occhi. Il sorriso si appiattì definitivamente. Lattea oramai la pelle.
Il piccolo uscì dalla propria abitazione per sfuggire al clima teso. Nascondendolo ai genitori, si recò presso la scuola ove tutti i suoi coetanei, in quel momento, godevano della ricreazione. Volendo sapere in cosa consistesse la vita scolastica rivolse gentilmente la parola agli altri compagni:
«Ciao ragazzi! Il mio nome è Jecca e volevo chiedervi se a voi piace fre-» ma il povero ragazzino fu interrotto da fragorose risate.
«Lui è il bambino che non esce mai di casa!» gridò uno puntando il dito verso la sua sagoma.
«Non ha amici ed è strano, guardate i suoi capelli!» echeggiò un’altra giovane vocina.
«Jecca lo strano, incontrarlo è uno spavento… StrangaJecca!» ruggì l’ennesimo pargolo. Intonarono tutt’in coro il nuovo appellativo con tonalità canzonatoria. Jecca diede frettolosamente le spalle alla struttura, così come agli scolari, lanciandosi in una corsa disperata verso casa. Ad ogni falcata qualcosa mutava: nacquero innumerevoli ciocche ancor più increspate sul suo capo. La capigliatura fu scura e bruna, gli occhi della stessa tonalità. Labbra lievemente rivolte verso il basso e carni color cadavere.
Intanto la genitrice venne a conoscenza della fuga del figlio, decidendo così di mantenere la promessa riguardante “la punizione”.
Evocò una fata oscura, malvagia, chiedendole di infliggere un sortilegio alla propria creatura: sei giorni e sei notti insonni trascorsi colmi di stanchezza e sonnolenza, senza però riuscire a chiuder occhi.
Così avvenne.
La sera stessa il giovane provò ad appisolarsi più e più volte, ottenendo risultati nulli. Raggiunse la camera dei suoi, frustrato dalla situazione:
«Madre, Padre, non riesco a prender sonno in alcun modo.»
«È la tua punizione. Ci hai disobbedito e questo è ciò che ti spetta.» freddamente sentenziò la sua mamma avvolta dalle lenzuola.
Jecca, estremamente affranto, tornò nella propria stanza tentando inutilmente di dormire.

Il tempo prese a scorrere con flemma inaudita; straziante risultò il passaggio di quei  primi tre giorni privi del benché minimo riposo. Tutti i riccioli sul capo del piccolo erano oramai aridi e scomposti disordinatamente attorno al volto. Il colorito bruno passò al nero. Lo sguardò acquistò lo stesso colorito della chioma. Il sorriso, una volta gaio e giocondo, aveva ceduto posto ad una smorfia cupa, rabbuiata. Il candore angelico del viso fu spodestato da un marcato grigio-olivastro. L’animo di Jecca si perse assieme alla perenne contentezza con la quale viveva le giornate.
La quarta notte il bambino abbandonò la casa, decidendo di ricercare un briciolo di speranza nella luna alta in cielo; il firmamento risultava privo di stelle.
Passeggiò tristemente tra i viottoli di fitta campagna, pensando a quanto le ombre dovessero sentirsi sole, catalogandosi e riconoscendosi in loro.
Volse il viso alla luna per dedicarle una domanda:
«Luna, per lo meno tu, mi degnerai di accennata risposta a quest’assillante questione? Per piacere…»
La brezza serale smosse poche nuvole, dando così risposta al giovane e coprendo la tondeggiante figura pallida, unica fonte di luce.
Dunque la sagoma scura del bambino si dissolse lentamente, prendendo parte dell’ambiente livido che precedentemente lo circondava.

Così finì Jecca,
così cominciò StrangaJecca.
 
  
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