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Autore: Laila_    02/12/2016    0 recensioni
Robert e Astrid: due nomi, due esperimenti.
Venduti in tenera età vivono e crescono all'interno di una struttura scientifica il cui unico scopo è quello di trasformare loro e altre cavie in armi letali.
Ma cosa succede quando, i nostri protagonisti, riescono a fuggire e a raggiungere il mondo esterno?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza
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È normale che l'essere umano, invece di combattere per proteggere la propria specie, lotti per distruggere i suoi simili?
Me lo chiedo tutti i giorni, da quando sono qui dentro, in questa prigione. Me lo domando tutti i giorni da quando mi hanno sottoposto al primo esperimento. Me lo chiedo tutti i giorni da quando ho visto il primo ragazzo morire sotto ai colpi di un fucile...
Nei libri di scuola, da bambino, leggevo delle guerre dei tempi antichi. Dalla guerra di Troia nata, secondo il racconto di Omero, per un motivo davvero futile; alle guerre puniche e alle guerre persiane, dalle guerre del Peloponneso alle guerre gotiche, dalle sacre crociate alle guerre napoleoniche, fino ad arrivare alle due guerre mondiali. L'intera esistenza dell'uomo è segnata da terribili lotte, è la natura umana che spinge la nostra specie a combattere l'uno contro l'altra. La pace non esiste se non si annienta l'altro. 
Bisogna annientarlo... bisogna... ma perché? C'è davvero questo forte istinto di sopravvivenza negli esseri umani che vivono là fuori? Davvero sono così feroci come dicono qui nel laboratorio?
Medici e scienziati sono sempre più preoccupati. Dicono che devono essere veloci, fare le cose in fretta, che non c'è più tempo; dicono che ormai la guerra è vicina, che non c'è più modo di tornare indietro, alea iacta est. Noi cavie siamo gli esseri che avrebbero dovuto mettere fine una volta per tutte a questo genere di lotte, portare finalmente la vera pace e lasciare che il pianeta venga ripopolato da una stirpe "eletta". Una stirpe formata da coloro che avevano pagato questi scienziati per farci del male. Il loro intento è quello di trasformarci in robot, ma la loro tecnologia non è così avanzata da poter eliminare i nostri sentimenti, le nostre emozioni e, soprattutto, la nostra capacità di pensare.

  Anche per quella mattina avevo concluso la mia stupida sessione di sofferenza. Col respiro ancora affannoso, piegato in avanti dal dolore al fianco destro, zoppicando lievemente venivo scortato fino al mio 'ripostiglio'. Mi piaceva chiamarlo così. Un nome forse un po' sgradevole, ma a cui ero davvero affezionato. Mi sarei portato volentieri una mano al fianco per poter massaggiare la parte dolorante, ma le manette legate alla catena tirata da uno degli uomini che mi scortavano non mi permettevano di avvicinarmi i miei arti al mio corpo. Ci volevano pochi minuti per spostarsi da uno spazio all'altro, eppure quei cilindri metallici mi lasciavano ogni volta degli odiosi segni rossi su tutto l'avambraccio. Guardai infastidito la schiena dell'uomo davanti a me. Erano in due ad accompagnarmi, ma il secondo era dietro a me. Solitamente erano un tipo pelato, col naso schiacciato, e uno biondo con i capelli sempre spettinati - un po' strabico per di più. L'uomo robusto, il biondo, mi trascinava avanti tenendo la catena, mentre il tipo più magro portava con sé un bastone lungo quasi un paio di metri, alla sua estremità vi era un semicerchio. Questo attrezzo, simile a quello usato dagli accalappiacani, serviva a tenermi distante dalla porta mentre loro si affrettavano a chiuderla. Un metodo a dir poco ridicolo: se avessi voluto uscire lo avrei fatto anche con un bastone contro al collo. Neppure le loro ridicole pistole mi facevano paura: quegli esperimenti mi avevano reso più resistente di un uomo normale e una o due pallottole non mi avrebbero fatto nulla. Con il passare degli anni eravamo noi cavie, sempre più forti, a diventare delle vere e proprie armi e vedevamo. Per di più, a nessuno di noi era sfuggita la paura che gli scienziati iniziavano a provare nei nostri confronti. Il loro unico modo per farci stare buoni era quello di drogarci, ma dovevano comunque stare attenti: poteva essere pericoloso se fatto prima di un esperimento o subito dopo.
Mi riposero nel mio stanzino, ovviamente tenendomi distante da loro con il loro magico strumento ed una fucile puntato. Feci finta di volerli attaccare scattando in avanti con la gamba sinistra. Il pelato spinse contro di me il semicerchio in ferro attaccato al bastone, mentre al biondino cadde di mano l'arma. Sorrisi appena guardandoli quasi con tenerezza, poi mi allontanai dal bastone e mi sedetti sul letto. Loro chiusero in fretta la gabbia e si avviarono di corsa verso la cella di qualche altra cavia. 
Nella mia stanza non vi era alcun orologio e la luce era sempre uguale in quanto artificiale. Quindi, in realtà poteva essere anche sera per quello che mi riguardava. Mi ero creato però un mio personale ciclo che mi suggeriva che, in quel momento, era appena trascorsa la mattinata. I giorni all'interno della struttura passavano lentamente, o meglio, sembrava che non passassero mai. E noi restavamo in attesa dell'esperimento successivo. Ogni giorno testavano una nuova forma di dolore. Ci sottoponevano a prove a cui un umano normale non sarebbe mai riuscito a sopravvivere. Un esempio? Fare il bagno nell'acido. Ricordavo perfettamente il mio vicino di cella canterino. Pregava in lacrime di salvarsi. Era un individuo debole dal volto completamente sfigurato dalle cattiverie che aveva dovuto sopportare. Fu acquistato all'età di cinque anni, ma, nonostante i quasi 20 anni passati all'interno della struttura, il suo corpo non era stato in grado di adattarsi alle circostanze. Cantava per distrarsi dai suoi pensieri tristi, quelli di essere trattato come una delle cavie da poter sacrificare per testare qualcosa di nuovo. Non servì a nulla provare a consolarlo, anche noi sapevamo che avrebbe fatto una brutta fine. Non sentimmo più la sua voce gracchiante. 
Chissà quanti altri, prima di noi e negli altri settori della struttura avevano perso la vita. Solo il pensare che sarebbe potuto succedere anche a me mi metteva i brividi. 
Mi buttai così sul lettino guardando il basso soffitto grigio-nerastro ma mi rigirai subito su un lato, non volevo guardare una mosca morire. Mi addormentai stanco. Anche se avevo dormito diverse ore quella "notte" e mi avevano svegliato da non molto, io mi sentivo a pezzi.. Lentamente i miei muscoli sembrarono scoppiare a pezzi, sentivo un formicolio fastidioso percorrermi le mani, le braccia, le spalle, la schiena e le gambe. Uno sbadiglio, dei piccoli brividi e tornai nel mondo dei sogni. 

Mi alzai di scatto quando, combattendo contro un dragone, questi iniziò a suonare la campana d'allarme invece che sputare fuoco. Seduto, sul letto, notai la porta della mia cella spalancarsi lentamente. Rimasi leggermente sorpreso da quel che stava accadendo e, senza pensarci troppo misi i piedi a terra per correre fuori. Vi era già un gran numero di persone che fuggivano eccitate lungo lo stretto corridoio. Mi unii alla massa. La mia corsa non durò molto però. Sentimmo dei potenti spari provenire da una cinquantina di metri di distanza e, tutti ci fermammo quasi all'istante. Gli uomini della sicurezza bloccavano il corridoio con i loro potenti fucili. Non si erano tirati indietro dal colpire le cavie in testa al di gruppo di circa quaranta cavie. Qualcun altro aveva provato a rispondere all'attacco della sicurezza, ma questi aprirono nuovamente il fuoco eliminando anche chi era semplicemente lì vicino. Questo non fece altro che aumentare la rabbia che tutti già provavamo nei confronti dei medici, degli addetti, degli scienziati. Sapevamo che quella era la nostra unica possibilità e nessuno sarebbe tornato nella cella. Avremmo preferito morire. 

Non saprei cosa fosse successo poi. Era tutto completamente buio in quell'edificio, neppure i computer dei medici e degli scienziati funzionavano. Vi erano solo le luci d'emergenza poste sopra alle porte dell'edificio. Nel frattempo le cavie in testa urlavano qualcosa come "l'uscita è là!". Eravamo tutti carichi, pieni di speranza, eccitati dall'idea di essere ad un passo dalla libertà. Ma davvero era così semplice uscire dal laboratorio? Nessuno ci impediva di farlo?
Non feci a tempo a pensarlo che la nostra corsa fu nuovamente bloccata da altri uomini armati. La cavia in testa, proveniente da un settore diverso dal mio, ricevette in pieno diversi proiettili ma questo non lo fermò. Si accese, prese letteralmente fuoco e si scagliò contro i soldati. I suoi compagni intervennero nella rissa, riuscendo poi a disarmare gli uomini della sicurezza. Pensai a come fossero forti quelle cavie. Probabilmente negli altri settori avevano condotto degli esperimenti di genere diverso. Qualcun altro si aggiunse, ma io non rimasi lì. Pensai a me stesso, cercando di allontanarmi dalla massa soffocante di gente. Mi guardai attorno e vidi una lucetta verde. Un uomo che correva verso una porta. Mi feci largo fra la massa e mi portai fino a questo luce. Aprii quasi di nascosto la porta collocata sotto alla luce e l'attraversai. VI erano delle scale che portavano sia verso l'alto che verso l'esterno. A destra, invece, vi era una seconda porta e, sopra a questa, un altro cartellino verde illuminato. Spinsi la porta e mi coprii gli occhi con una mano. La luce del sole mi stava accecando. Non mi fermai troppo a lungo, anche se dovetti sforzarmi per adattare la vista a tanta luce. Scesi i primi gradini quando mi voltai indietro. Dei forti rumori di spari si sentirono provenire dalle mie spalle. Sentii un brivido lungo la schiena, ma continuai la mia discesa. Arrivai nel cortile retrostante al laboratorio. Ora che ero fuori dovevo continuare. Il muro distava solo pochi metri dalla rampa in acciaio. Corsi fino alla rete, guardando a destra e a sinistra che non ci fosse nessuno e saltai sul muro. No, non come una rana! Mi aggrappai, dopo aver fatto qualche passo verticalmente, con le mani sul bordo della parete in mattoni, feci leva sulle braccia tirandomi su. Mi graffiai la punta del naso con il filo spinato, ma in maniera piuttosto veloce riuscii a superare anche quell'ostacolo. Conclusi la mia evasione con una elegante caduta nella neve fredda. Rialzandomi mi accorsi di aver riportato anche delle ferite sulla gamba destra. La divisa bianca e rossa si era tagliata al contatto con il filo spinato. 
Alzai lo sguardo verso l'alto accorgendomi solo in quel momento di avere il respiro pesante. Era stato semplice uscire da lì. Le mura non erano protette in alcun modo. Pensai che fosse perché, guardie e scienziati, erano sicuri che nessuno sarebbe riuscito ad uscire dalla propria cella. 
Sapevo che rimanere ancora lì non era l'idea migliore così mi voltai dando le spalle al muro. Iniziai a correre, ma non feci a tempo a percorrere una cinquantina di metri che sentii una voce femminile provenire dal muro. 
"Aspettami!" strillò mentre cercava di non impigliarsi con gli abiti nel filo spinato. 
Osservai attentamente la giovane dai capelli rossi. Indossava anche lei una tuta come la mia, però di colore nero e viola. Ricordando quella rossa e verde dell'uomo che aveva preso fuoco e dei suoi compagni, immaginai che le divise fossero diverse a seconda del settore. Anche il simbolo del laboratorio, posto sul braccio destro cambiava colore. Ero certo, però, che quello tatuato sulla pelle rimaneva nero. 
Non dissi una parola nel vederla avvicinarsi a me. Mi limitai a studiarla in tutta la sua bassezza. La superavo di ben più di una ventina di centimetri. 
"Cosa fai lì?" domandò quasi stupita. 
Mi superò iniziando a correre. Mi voltai affondando nuovamente nella neve. 
"Mi hai detto tu di aspettarti." borbottai riprendendo a correre. 
Raggiunsi con difficoltà la ragazza che, minuta com'era, si muoveva in maniera agile, saltellando di metro in metro quasi fosse una lepre. 
"Si stanno avvicinando." commentò la rossa preoccupata. 
"Come fai a saperlo?"
Lei non mi rispose. Così, pensando non mi avesse sentito le riproposi la stessa domanda. Questa volta ottenni solo un indice sulle labbra a dirmi di stare zitto. Continuai nella mia corsa, senza sapere dove stessimo andando. Eravamo in un bosco non troppo fitto nel quale non si riusciva ad intravedere alcun sentiero o per lo meno tracce del passaggio di qualche altro essere umano. 
Riprendemmo a camminare solo quando fummo entrambi troppo stanchi per poter continuare a correre. Il sole aveva cambiato la sua posizione nel frattempo, donando al cielo delle sfumature color arancio. I raggi filtravano attraverso i rami spogli degli alberi. Era una cosa normale, ma ai miei occhi appariva magica. 
"Non me lo ricordavo così bello." disse quasi con un filo di voce la ragazza dai capelli rossi fermandosi per qualche istante ad osservare con me lo spettacolo che avevamo di fronte. 
"Io non me lo ricordavo affatto." commentai voltandomi verso di lei. 
La ragazza aveva gli occhi lucidi, fissi verso il cielo. La fissai per ancora qualche secondo quando una lacrima le rigò il viso. Si voltò di scatto dandomi la schiena e si passò la stoffa fredda della tuta ad asciugarsi le guance. 
"È tutto ok?" domandai preoccupato per la giovane
"Sì, sì!" esclamò lei tornando a guardarmi, ma questa volta con un ampio sorriso "Io sono Astrid." si presentò poi gonfiando il petto in modo che potessi leggere il cartellino con il nome e il suo codice.
"Robert." le risposi io con un lieve sorriso. 


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Buona sera a tutti! 
Questa è l'ennesima storia che provo a scrivere, ma sono convinta che questa volta arriverò fino alla fine.
Voglio davvero scrivere questo racconto e voglio davvero portare a termine la storia. Proprio per questo vi chiedo cosa ne pensate e quindi di farmi sapere i vostri pareri (siate pure cattivi, non verrò a vendicarmi, ve lo prometto!). 

Detto questo, spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e vi invogli a continuare. 
Cercherò di mantenere costantemente aggiornato il racconto con pubblicazioni di un capitolo a settiamana più o meno mantenendo la lunghezza del primo capitolo. 

Vi auguro buona continuazione e ... al prossimo capitolo!

  
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