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Autore: Elisa Stewart    04/12/2016    1 recensioni
AU - Zombie Apocalypse.
Loro sapevano. L’avevano sempre saputo, dal modo in cui Camila guardava Lauren durante le interviste. Dall’improvvisa necessità di mordersi il labbro che assaliva la più giovane ogni volta che lei ricambiava lo sguardo e sorrideva.
Era così ovvio, Camila. Perché non te ne sei accorta? Come hai fatto a non renderti conto dei sentimenti che provavi?
Genere: Azione, Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Camila Cabello, Lauren Jauregui, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Chapter 1

 

 

 


Tornare in quel posto, dopo tutto, era stata una sua scelta.

 Insomma, avrebbe benissimo potuto tirarsi indietro e starsene al campo con Ally, lasciare che Normani andasse al posto suo.

Eppure non se l’era sentita. In qualche modo, lo doveva a Lauren. Perché in realtà il vero scopo della missione, per lei, era cercare delle tracce che la conducessero dall’amica, che le dicessero che era ancora viva.

Dopo tutto quel tempo.

Non aveva mai perso la speranza fino ad allora, ma sentiva il bisogno di accertarsi che non si trattasse solo di un’illusione.

E se l’avessero dovuta trovare morta oppure trasformata in una di quelle cose, voleva vederla con i suoi occhi; voleva essere lei a mettere fine alle sue sofferenze. Perché glielo doveva. Non avrebbe sopportato di venirlo a sapere da una delle ragazze. C’era in ballo la sua fermezza mentale, che in un momento come quello era fondamentale per sopravvivere.

E poi era colpa sua, lei l’aveva persa di vista quel giorno, l’aveva lasciata indietro quando era il momento di scappare. Era a causa sua se ora Lauren era dispersa.

Se lo rimproverava ogni mattina, quando si apriva gli occhi e realizzava che l’incubo che l’aveva svegliata rispecchiava la realtà. Quando capiva che lei non era con loro e che non sarebbe bastata una preghierina prima di andare a letto per riportarla indietro.

A volte, invece, le capitava di sognarla lì vicino, sdraiata al suo fianco, che la intimava a tornare a dormire con la sua voce roca e assonnata. Poi apriva gli occhi e il senso di colpa e la malinconia cominciavano a opprimerle il petto, rendendole impossibile di tornare nei suoi sogni dove lei c’era e dove tutto era perfettamente felice.

Era quasi arrivata a odiarsi, a non sopportare il fatto di essere ancora in vita.

Ally diceva sempre che era troppo dura con se stessa, che non era colpa sua, che se Lauren l’avesse sentita parlare così l’avrebbe presa a ceffoni.

C’era una parte di lei che voleva crederle. Ed era proprio quel piccolo pezzo di lucidità che la tratteneva dal rassegnarsi, che continuava ad alimentare le sue speranze.  Le stesse che l’avrebbero comunque distrutta, ma che le avrebbero dato l’effimera sensazione di essere viva ancora per un breve periodo.

E, inutile mentire, quella piccola parte che ancora aspettava di vedere Lauren spuntare nel loro accampamento con il suo solito sorriso stampato in faccia, quella era tutto ciò che rimaneva di Camila Cabello. L’apocalisse l’aveva cambiata radicalmente, così come aveva fatto con tutte le persone che la vivevano.

E più cercava di rimanere integra e innocente come un tempo, più perdeva se stessa nei numerosi fiotti di sangue che l’avevano macchiata, nei visi inespressivi dei morti viventi, nella coscienza che si andava ad appesantire giorno dopo giorno.

E nei suoi stessi occhi. Soprattutto in quelli. Ormai irriconoscibili, privi della luce che li caratterizzava al tempo di X-Factor, delle Fifth Harmony, del Reflection Tour e del 7/27 Tour.

Cos’era cambiato?

Tutto ciò a cui avevano lavorato così duramente, le notti insonni passate a scrivere e registrare canzoni, le giornate intere chiuse in sala prove si erano rivelate inutili. Perché saper twerkare o cantare non ti aiuta a non farti sbranare o a non morire di fame.

Ma ciò che più le mancava, era lei.

Lauren.

La sua luna, la sua luce. La sua ancora di salvezza.

Aveva realizzato di amarla solo dopo averla persa.

Che cosa stupida.

E ora che lei non era lì, vivere non poteva più essere definito tale.

Svegliarsi la mattina e addormentarsi la notte sola, le immagini di quel maledetto giorno ancora a tormentarla. Il senso di impotenza che le opprimeva il petto ogni volta che cercava di immaginarsela, dispersa da qualche parte là fuori. Impaurita, infreddolita, spaesata, ma viva.

Sperava di mettere fine a questa tortura recandosi al teatro insieme a Dinah. Lì la loro vita era finita, ed era cominciato l’inferno. Lì aveva perso un grosso pezzo di sé che non era certa di riuscire a ritrovare.

E poi, molte delle loro cose- vestiti e foto- si trovavano ancora lì, così come uno degli autobus, che doveva essere nel parcheggio. All’interno avrebbero dovuto recuperare del cibo e altra roba utile. Sempre se non fosse già stato saccheggiato.

E magari, chi lo sa, Lauren era tornata lì dopo l’attacco, avrebbero trovato la sua valigia completamente vuota, così come l’autobus. Era soprattutto questa speranza a spingere le ragazze a proseguire.

Non era stato difficile raggiungere l’entrata dell’edificio: i cancelli che un tempo le tenevano separati dai loro fans ora erano spalancati, così come erano stati lasciati quella notte, quando ognuno aveva preso a scappare terrorizzato.

Camila riusciva ancora a vedere le sagome di ragazzi e ragazze attraversare la strada, come fantasmi. Li vedeva correre, spingersi l’un l’altro, cadere a terra, calpestare e venire calpestati. Vedeva anche i primi non morti che mordevano, placcavano e sbranavano persone. I loro visi pallidi, le bocche piene di sangue, gli occhi bianchi, le mani macchiate di rosso, lembi di pelle strappati e dilaniati.

Lei era lì in mezzo, stava scappando con le altre e per poco non veniva investita dal conducente di uno dei due autobus. Ricordava di averlo preso a parole per averle lasciate là, in mezzo all’inferno. Ricordava di aver pianto, gridato e corso come mai aveva fatto prima.

Era terrorizzata, confusa, distrutta. Si era lasciata tutto e tutti alle spalle per mettersi al riparo. Aveva perso Lauren e non era certa che lei fosse ancora viva.

In qualche modo, dopo diversi giorni di cammino, erano riuscite a lasciare la città e si erano trovate a percorrere quella che avevano riconosciuto come la San Fernando Free Way di Los Angeles, in base ai vari cartelli che erano state in grado di trovare.

Si erano dovute fermare diverse volte per riposare, cercare roba da mangiare o da bere. Stavano tutte bene, anche se un po’ ammaccate.

Ma erano esauste, consumate dagli incubi e dal terrore. Dal senso di vuoto che attanagliava tutte loro lo stomaco in un costante promemoria di ciò che avevano perso. I loro genitori, i loro fratelli e sorelle, le loro vecchie vite. Era tutto andato, bruciato.

Alla fine avevano deciso di lasciare l’autostrada e prendere una stradina minore immersa nei boschi.

E ben presto erano state in grado di sistemarsi in una piccola foresta in altura. Gran bel posto: ben protetto dagli alberi ma in grado di offrire un’ottima visuale della vallata.

Sembrava tutto perfetto, ma le ragazze erano oppresse dal peso di ciò che incombeva sulle loro teste e non erano state in grado di dormire sogni tranquilli.

Almeno all’inizio.

In qualche modo erano riuscite a cavarsela per mesi.

Avevano imparato a cacciare, a cucinare. Avevano appreso come combattere e difendersi dai non morti. Erano diventate un vero e proprio gruppo di amazzoni.  

Camila non poteva che essere fiera. Si erano adattate velocemente, lasciandosi alle spalle la loro adolescenza. Erano diventate donne nel giro di un paio di mesi, prendendosi cura l’una dell’altra e combattendo per sopravvivere.

 

Come previsto, l’autobus era ancora nel parcheggio e da fuori sembrava essere nello stesso stato in cui l’avevano lasciato. Le ragazze ci si avvicinarono con passo felpato, scandagliando l’intero spazio con gli occhi e tendendo le orecchie.

Sembravano esserci solo loro, ma come avevano imparato negli ultimi mesi, non si era mai abbastanza prudenti. I non morti erano rapidi a invadere un posto e in alcuni casi si spostavano in branchi, attirati dal rumore.

La portiera principale dell’autobus sembrava essere chiusa dall’interno. Camila provò a forzare la maniglia con il piede di porco che si erano portate dall’accampamento, ma dopo diversi tentativi la ragazza si arrese.

“Qualche idea?” chiese rivolta alla polinesiana, che nel frattempo aveva preso a girare intorno al mezzo, ispezionandolo con gli occhi.

“Nada.” Rispose Dinah alzando le spalle. Camila sorrise e prese a guardare a terra.

“Dovrei continuare a darti lezioni di spagnolo. Sarebbe un ottimo modo per passare il tempo.” Si chinò a raccogliere una pietra e la osservò, lanciandola in aria e riacciuffandola un paio di volte. Si allontanò dall’autobus e invitò la compagna a fare lo stesso. Con un gesto veloce, tirò la pietra contro la prima finestra che le capitò a tiro.

Dinah osservò il vetro infrangersi all’impatto e spezzettarsi un po’ alla volta.

Non aveva fatto molto chiasso, ma la paura di aver attirato uno di quei cosi le spinse entrambe a guardarsi intorno ancora una volta, facendo vagare le iridi da un angolo all’altro del parcheggio. Il silenzio tornò a opprimerle qualche secondo dopo.

Dinah appoggiò la schiena all’autobus, unendo le mani in modo da fare da scaletta a Camila e permetterle di entrare e aiutarla in seguito a fare lo stesso. E nel giro di pochi minuti, e non con poche difficoltà, entrambe furono dentro.

All’interno dell’autobus, tutto era come lo ricordavano: i divanetti, la cucina, le cuccette. Quanti momenti avevano condiviso lì, quante emozioni, soddisfazioni, delusioni. Avevano passato gli ultimi anni della loro vita lì dentro, gomito a gomito, sempre insieme.

Non avrebbero mai potuto prevedere come tutto sarebbe terminato, da un minuto all’altro; come avrebbero perso tutto a causa di un’epidemia che fino ad allora avevano visto solo nei film. Non ci avrebbero mai creduto se non avessero visto con i propri occhi.

Oh, come avevano desiderato che fosse solo un incubo, un sogno, una fantasia.

 

“Da questa parte, Mila.” Si era incantata a fissare il suolo, come spesso le capitava in quel periodo. Dinah la prese per un braccio, trascinandola verso l’entrata. Avevano preso tutto ciò che avevano potuto dall’autobus ed erano uscite, con la voglia di tornare dalle altre che cresceva ad ogni passo.

Era tutto lì, i cereali, il pane ormai stantio, il latte. Nessuno aveva messo piede lì dentro da quella notte.

Era stato un brutto colpo per le due, che ancora speravano di trovare qualche traccia di Lauren. Avevano setacciato l’intero mezzo in rigoroso silenzio, infilando negli zaini cibo, coperte e anche qualche peluche, immerse in pensieri devastanti che avevano come protagonista la loro amica.

“Tutto ok?” tentò la polinesiana, vedendola leggermente scossa. Camila nascose i suoi sentimenti, come si era abituata a fare negli ultimi mesi e annuì.

Aveva appreso che l’unico modo per ingannare le altre era convincere persino se stessa che andava tutto bene, che non stava cadendo a pezzi, che Camila Cabello era ancora lì.

E anche se titubanti, la ragazze le avevano lasciato il suo spazio.

Loro sapevano. L’avevano sempre saputo, dal modo in cui Camila guardava Lauren durante le interviste. Dall’improvvisa necessità di mordersi il labbro che assaliva la più giovane ogni volta che lei ricambiava lo sguardo e sorrideva.

Era così ovvio, Camila. Perché non te ne sei accorta? Come hai fatto a non renderti conto dei sentimenti che provavi?

Il dietro le quinte del teatro era un enorme labirinto di corridoi e scale. Camila giurò di aver girato lo stesso angolo e sceso le stesse identiche fottute scale almeno sette volte.

Ricordava che era stato così anche quando erano arrivate lì quella sera. Solo che allora era divertente.

Avevano girato in tondo per una decina di minuti buona, ritrovandosi ad attraversare il palco due volte di seguito. Avevano incontrato anche un paio di non morti, che però non avevano rappresentato un grande pericolo. Uno di loro era una ragazza dai capelli scuri che assomigliava dannatamente a Lauren.

Avevano avuto un attimo di esitazione, vedendola arrivare. Quando poi erano state in grado di riconoscere i tratti del viso troppo duri per essere i suoi, si erano rilassate e Dinah aveva piantato il suo coltello nella testa dello zombie.

A quel punto Camila era stata in grado di comprendere quanto non fosse pronta per una cosa del genere. Non avrebbe mai potuto e voluto esserlo. Si era fermata ad osservare la chioma corvina, chiedendosi cosa avesse fatto se si fosse trattato effettivamente di lei.

Avrebbe pianto? Avrebbe messo fine alla sua esistenza a sangue freddo?

No, sarebbe rimasta pietrificata, come le era capitato appena prima. L’avrebbe guardata avvicinarsi e staccarle il braccio a morsi senza riuscire a muovere un muscolo.

E avrebbe pensato che fosse giusto così, perché era stata colpa sua. Solo e soltanto colpa sua. L’aveva abbandonata. E Lauren avrebbe avuto tutto il diritto di essere incazzata, delusa.

Camila l’avrebbe capita.

Si riscosse dai suoi pensieri solo quando, per la seconda volta in un’ora, Dinah l’aveva afferrata per un braccio e l’aveva indotta a riprendere la ricerca. Stavolta, però, la polinesiana si era limitata a quello, scossa anche lei da ciò che era appena accaduto.

Trovare i camerini dove si erano sistemate allora fu difficile, quasi impossibile. Avevano sfondato diverse porte, attraversato vari saloni e corridoi.

Alla fine, però, ce l’avevano fatta.

Sembrava esserci tutto, le loro borse, i loro vestiti. Anche le cose di Lauren c’erano ancora.

Camila rimase a guardare la valigia ancora chiusa, le braccia penzolanti, la delusione che cominciava a penetrare in lei. Dinah era al suo fianco. La stessa identica espressione in viso, la stessa identica sensazione di vuoto nel petto.

Lauren non era stata lì.

Cosa poteva significare? Non avevano uno straccio di indizio, niente che le desse la certezza che era ancora viva, persa là fuori ad aspettare di essere trovata.

Non potevano arrendersi, non dovevano perdere la speranza. Il fatto che non fosse stata lì non significava nulla, lei non era morta. Non poteva esserlo, non se lo sarebbero mai perdonate.

Specie Camila. Lei che quella maledetta notte aveva guardato la sua mano scivolare fra le sue dita e aveva visto il suo viso sparire tra quelli terrorizzati degli sconosciuti che scappavano.

Se solo si fosse fermata, l’avesse cercata, l’avesse trascinata con se. Era colpa sua. Se lo rimproverava sempre, ogni giorno.

E si odiava per non aver accettato ciò che provava per lei, perché non ne era consapevole.

Ma era così ovvio, Camila.

Continuare a fissare quella valigia stava cominciando a diventare sempre più doloroso con ogni respiro. E anche le unghie conficcate nei palmi facevano male. E i denti nel labbro, e il buco che continuava ad ingrandirsi nello stomaco.

Non poteva restare lì, sarebbe crollata. Non era il momento di lasciarsi andare, non davanti a Dinah, non in quel fottuto posto.

Prese una grossa boccata d’aria, il respiro che tremava. Si diresse alla sua valigia e senza dire una parola la aprì, svuotandola del suo contenuto e gettando tutte all’interno dello zaino.

Dinah rimase a fissarla, confusa, triste, delusa. Sapeva che soffriva anche più di lei e che faceva di tutto per nasconderlo.

Per questo si assicurava di starle vicino, essere sempre presente. Così che, quando le sue difese sarebbero state abbattute, lei sarebbe stata lì a consolarla e aiutarla a rialzarsi.

L’unione fa la forza, Mani lo diceva sempre. E in un certo senso era diventato il loro motto, perché da sole non avrebbero potuto arrivare fin lì.

Si avvicinò lentamente a Camila e le accarezzò gentilmente un braccio, interrompendo i suoi bruschi movimenti. Era a un passo dallo scoppiare a piangere, poteva vederlo dai suoi occhi rossi.

“Lei sta bene. E’ forte.” Sussurrò in un vano tentativo di convincersi delle sue stesse parole.

“Ha solo bisogno di un aiuto per tornare a casa. Ci troverà, vedrai.” Strinse il suo braccio, rivolgendole un piccolo sorriso. Camila non osò incrociare i suoi occhi e tornò a riempire lo zaino con tutto ciò che le capitava a tiro.

Dinah sospirò rassegnata e la imitò, dirigendosi dall’altro lato della stanza. Svuotò la sua valigia e quelle di Normani e Ally, fermandosi una volta arrivata di fronte a quella di Lauren.

Che avrebbe dovuto fare? Sarebbe stato giusto svuotarla? E se fosse stata ancora viva e le fossero serviti dei vestiti? E se invece non fosse più tornata? Sarebbe stato bello avere delle cose che le erano appartenute. Un modo per non scordarsi mai di lei, per tenerla vicina.

Le altre ne sarebbero state felici, ma Camila? Portarsi a casa quelle cose stava a significare che avevano perso la speranza di ritrovarla. Quella era l’ultima cosa che serviva alla cubana per non cadere a pezzi.

Si voltò a guardarla, ancora intenta a prendere roba a caso, lo sguardo basso, gli occhi tristi. Non se lo meritava. Nessuna di loro meritava tutto quello.

Che schifo.

Dinah sospirò, sorpassando il bagaglio rosa e chinandosi per controllare sotto i tavoli. Qualcosa di colorato attirò la sua attenzione sotto uno dei divani.

Sembrava una scatoletta di cibo di colore rosso. Ma cosa ci faceva una cosa del genere lì?

Si allungò per recuperarla e quando le sue dita vennero a contatto con il metallo freddo, si ritrasse, tirandola a sé. E allora realizzò di aver appena trovato un’inutile bomboletta spray colorata.

“Guarda qua.” Mormorò rialzandosi e voltandosi verso Camila, che nel frattempo aveva esaurito tutto lo spazio a sua disposizione nello zaino. La cubana osservò l’oggetto incuriosita.

“Una bomboletta spray. Qui?”

“Era sotto il divano. Possibile che fosse qui da tempo?”

Camila strappò l’oggetto di mano alla polinesiana, rivoltandolo e osservando qualcosa alla sua base.

“Qui c’è scritto 2013. Credo sia qui da un bel po’.” Costatò scuotendola e stappandola. Spruzzò un paio di volte verso terra e osservò come il colore macchiò la moquette color sabbia.

“Ops.” Mormorò, gli occhi fissi sul cerchio nero che si era formato ai suoi piedi. Sembrava quasi un’indicazione che invitava a scavare proprio in quel punto.

Un indizio. Un aiuto.

Camila sgranò gli occhi e schiuse di poco le labbra. Dinah aveva detto che Lauren aveva bisogno di un aiuto per tornare a casa.

Ma certo.

 Quando prese a guardarsi attorno freneticamente, la polinesiana credette di averla persa del tutto. La seguì fuori dalla stanza, nel corridoio, cercando di acciuffarla per un braccio. E quasi le piombò addosso quando lei si bloccò proprio di fronte al muro bianco.

“Che stai facendo?! Mi hai fatto spaventare!” mormorò a denti stretti, girando la testa prima a destra e poi a sinistra. C’erano solo loro.

“Sto aiutando Lauren.” Rispose la cubana, semplicemente. Ignorò la fitta che le attraversò il petto nel momento in cui il suo nome aveva lasciato le sue labbra e alzò un braccio, spruzzando la vernice direttamente sulle piastrelle bianche del muro.

Dinah la osservò disegnare linee e cerchi, fino a formare una piccola frase. E quando il murale fu terminato, comprese cosa intendeva Camila.

E sorrise, per la prima volta dopo tanto tempo.

La speranza era davvero l’ultima a morire.

 

 

N.d.A.

Eccomi tornataaa!
Penso abbiate già capito che la puntualità non fa per me. Mi scuso per questo, ma purtroppo non sono stata in grado di terminare il capitolo in tempo, malgrado gran parte fosse già pronta.
Comunque eccolo qui.
Cominciamo a capire cosa è successo, dove sono le altre, perché Lauren si è spinta a compiere quel viaggio disperato.
Se non aveste capito, questo è una sorta di flashback, che ci aiuta a mettere insieme i pezzi. Vi annuncio che la vera storia comincia dal prossimo capitolo, quindi spero di non avervi annoiato troppo.
Restate con me per aggiornamenti!

A presto,
Elisa.

  
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