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Autore: s_smile    09/12/2016    2 recensioni
Quella donna mi farà impazzire, se matto già non sono diventato. Ora vuole che scriva anche una specie di "introduzione" ai miei farfugliamenti. Ottimo, l'accontento: signore e signori, ecco a voi una pagina imbrattata. Sono stato troppo minimalista? Beh, se volete saperne di più sprecatevi a leggerla come io mi sono sprecato a scriverla. Non ci vorrà molto, ma perché dovreste darmi retta?
[Riflessioni e blateramenti di un uomo solo]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Inconcludente. 


Per chi, come me, non trova il senso. 
O forse è il senso che si nasconde troppo bene.






 
Affogare.

Vi siete mai chiesti che cosa voglia dire davvero, affogare?

No, non morire, quello viene dopo.

Intendo, affogare: l’atto reale di sentire in maniera palpabile la vita abbandonare inesorabilmente il proprio corpo. Quel miscuglio nebuloso e fugace che causa perdita di controllo.

Perché è di questo che si tratta: perdita di controllo su se stessi, sul proprio corpo, sulla propria intera esistenza.

Credete che la parte peggiore sia la morte? Io non lo credo. A prescindere dal diverso grado di religiosità di cui il nostro bagaglio culturale è fornito, siamo tutti d’accordo sul fatto che la morte è liberazione dalle sofferenze.

Quindi no, decisamente non è la parte peggiore.

Analizziamo l’atto dell’annegamento in maniera più approfondita: il soggetto entra in panico perché ha bisogno d’aria ma l’aria non c’è.

C’è l’acqua, che si intrufola sadicamente nell’apparato respiratorio, inondando i polmoni e lo stomaco come tanti tsunami in miniatura.

Panico, allora.

Spasmi muscolari, movimenti disperati di braccia e gambe, bollicine di anidride carbonica che ottundono la vista ed un fischio – prima quasi un sottofondo, poi una presenza costante – che invade i timpani minacciando di farli esplodere.

E intanto tutto brucia: la gola, il naso, il petto, gli occhi.

“Sto morendo”, pensa.

Il buco che gli squarcia il petto si allarga progressivamente, minacciando di inghiottirlo senza pietà. La vista, intanto, si offusca.

“Non svenire”, pensa.

Ma è inevitabile. È la fase successiva: perdita dei sensi, abolizione dei riflessi, coma, arresto respiratorio. Solo successivamente giunge la morte, a quel punto non più rifuggita bensì invocata.

Niente più dolore, solo un oblio impercettibile.

Ma non è la morte quello che mi interessa, non è neppure l’annegamento, in realtà.

Vi chiederete, quindi, il motivo di tutto questo.

È semplice: siamo sempre molto sicuri di noi stessi, delle nostre azioni, anche quando sappiamo di non sapere cosa diavolo stiamo facendo. Crediamo di poter risolvere tutto, se anche ci perdessimo in uno sbaglio magistrale.

Crediamo di avere il controllo. Ma se non lo avessimo?

Se, senza preavviso, improvvisamente, non fossimo più capaci di controllare noi stessi o il mondo che ci circonda? Come se affogassimo, appunto.

Perdita di controllo, dunque, è questo il succo del discorso.

Io avevo il totale controllo della mia vita. Avevo speso anni a costruirmi una routine che calzasse perfettamente con la mia vita. Avevo le mie certezze anche riguardo  me stesso,  quali fossero le mie possibilità e quali i miei limiti.

Mi ero costruito un’esistenza come si costruisce la scenografia di una rappresentazione teatrale, con tanto di attori nel ruolo di amici, amanti, familiari stretti e meno stretti, conoscenti e colleghi.

Era la mia rocca di certezze in mezzo ad un oceano di variabili. Eppure era effimera, come tutto il resto.

Il vento la spazzò via come fosse sabbia, un vento che non ha nomi di divinità greche o latine, ma che, a modo suo, incute un profondo timore reverenziale anch’esso: tempo.

Fu il tempo a sottrarmi tutto ciò che mi ero costruito e per cui mi ero battuto, tutto ciò che ero diventato improvvisamente non fui più, ma non fui nemmeno una tabula rasa su cui poter scrivere un nuovo capitolo.

Fui un’ombra. L’ombra di me stesso.

Quel “me stesso” che a me piaceva molto, perché ero finalmente come avrei voluto essere. Ero realizzato. Non avrei mai voluto abbandonare ciò che ero per dovermi ricostruire da capo, magari diverso, magari peggiore.

Magari non sarei mai potuto diventare di nuovo ciò che sentivo di essere, per questo mi ero aggrappato a come ero, ma, semplicemente, non lo ero più.

È strano come le droghe ti facciano acquisire la profondità d’animo e la vena malinconica dei poeti decadenti, ma sono questi i pensieri che attraversano la mia mente, mentre, seduto a questa scrivania, una vecchia penna biro in una mano ed uno spinello nell’altra, butto giù di getto queste poche righe.

Spero saranno poche, altrimenti potreste annoiarvi a leggerle.

Beh, l’introduzione non è stata delle migliori, lo ammetto, ma dovevo pur attirare l’attenzione in qualche modo.

Forse sono diventato questo: uno che attira l’attenzione, o almeno lotta per provarci. Non so più nulla di quello che sono diventato dopo l’incidente che ha scombussolato la mia esistenza.

Nulla di grave, sono ancora vivo e vegeto, forse un po’ ammaccato, ma è il minimo che puoi auspicare quando ti fai investire da un tram cercando di evitare ad una donna di fare quella fine.

Ho perso l’uso delle gambe, tuttavia, quindi “ammaccato” forse non è la parola giusta.

Sono meglio paragonabile ad un giocattolo rotto, uno di quei bellissimi trenini telecomandati che sfrecciano come il vento appena usciti dalla fabbrica, ma che, una volta caduti a terra per disattenzione del proprietario, perdono qualsiasi utilità e vengono gettati via con un sospiro frustrato.

Io non sono stato gettato via, non da tutti, almeno. Non subito, almeno.

Sono stato prima trasportato in ospedale, con gli arti inferiori completamente maciullati per l’impatto con quell’inferno di metallo, e la schiena fratturata per l’impatto con l’asfalto rovente di quell’infausto giorno di luglio.

Sono stato operato, tagliato, ricucito, drogato, tagliato ancora, ricucito ancora.

Ad un certo punto ho creduto che sarebbe stato meglio mettermi una cerniera sulla schiena, per ogni evenienza, ma credevo che il chirurgo avesse bisogno di esercitarsi ancora un po’ nel punto-croce, per cui lo lasciai fare.

Poi sono stato compatito: familiari, amici, conoscenti, colleghi. Tutti a portare fiori, a scrivere biglietti e ad infiocchettare bugie e false promesse per alleviare le sofferenze della new entry del club degli storpi.

Nessuno che sia rimasto nella mia nuova vita.

Nuova, sì, e non solo per aver perso il lavoro da tecnico delle costruzioni per “l’impossibilità fisica di lavorare sul campo” (citando il mio diretto superiore), ma anche perché la mia “relazione stabile” (qui cito me stesso e la stupidità che mi ha fatto pensare di poter avere una relazione stabile con quell’ignobile egoista bastarda) finì nel cesso dopo solo due mesi di convalescenza in casa.

Non reggeva la pressione, lei. Beh, io invece ero una pasqua.

E gli amici? Quelli restano.

Restano, fintanto che non pretendi cose surreali come un favore, un passaggio, la compagnia di una persona cara. Poi spariscono tutti.

La verità è che non ti accorgi di quanto le persone siano cambiate e vadano avanti con la propria vita finché non sei lasciato indietro a ricostruire la tua pezzo per pezzo.

È lì che ti rendi conto di quanto sia complicata anche la cosa più banale, e ti chiedi perché per te sia così difficile quando per gli altri è così semplice.

Ma non sono qui per lamentarmi, sono qui perché a quanto pare scrivere i propri pensieri su un pezzo di carta è “terapeutico”, almeno così dice la psicologa con cui i miei genitori mi tengono intrappolato in una stanza tre volte alla settimana per due ore di seduta ciascuna.

La famiglia, quella è rimasta, mio malgrado.

Non so bene cosa dovrei scrivere, quella donna non dà molti suggerimenti al riguardo, escludendo lo “scrivi quello che ti senti”, che in fin dei conti non significa un cazzo di niente. E se non sentissi più nulla? Non credo che questa opzione sia contemplata.

Anche se l’apatia esiste, in realtà: Weber la chiamava “anomia”, male dell’infinito. Ma sto divagando.

Forse è proprio questo il punto, lasciar fluire i pensieri, oppure è una specie di test per capire quanto il mio cervello funzioni ancora. Per ora non sto andando poi così male, e pensare che una volta ero laureato con lode, ma non credo che questo abbia una certa rilevanza ora che mi mantengo grazie all’assegno d’invalidità.

Mi sono chiesto, fin dal giorno successivo a quello del mio incidente, se ci sarebbe mai stato il modo di ricostruire la mia vita, quella routine in cui mi trovavo tanto comodo, ma, dopo aver riletto quello che ho scritto qui sopra, sto realizzando che forse quella routine non era altro che illusione se è servito così poco per farla crollare come un castello di carte.

So cosa state pensando adesso: “Poco? Un incidente che ti è costato le gambe lo chiami poco?”

Non dovrei? Ho perso le gambe, non la vita.

Parlo, respiro, penso ancora bene. Certo, non cammino, è stato un duro colpo ammetterlo a me stesso, ma non è come essere morto. Eppure, per tutti è come se io lo fossi, e non capisco.

Dovrei ricominciare. Forse è questa la chiave: ricominciare assumendo dall’inizio il ruolo di paraplegico, senza infilarmi forzatamente tra i contorni stretti dell’ombra dell’uomo che ero e cercare di restarci a tutti i costi.

E se nemmeno questo dovesse funzionare, solo a quel punto potrei rassegnarmi. Magari diventare uno di quei vecchietti burberi dei cartoni animati che a momenti alterni dormono o sbraitano idiozie. Ovviamente dovrebbe subentrare la demenza ad un certo punto, se sono fortunato.

Sto dicendo cose orribili, vero? Forse. Eppure eccomi qui, le ho dette, le penso. Non ho armi con cui difendermi per cui progetto la mia dipartita, da vero vigliacco. Non saprei dire se lo sono sempre stato o lo sono diventato. Probabilmente entrambi.

Siamo sempre stati quello che dimostriamo di essere, sono le circostanze a far fuoriuscire quello che c’è in noi.

Pensate che io sia poetico? Sicuramente no, sono solo un cazzone.

Un cazzone senza amici e senza fidanzata, con due genitori che credono sia uscito di senno perché un giorno ho messo le mani addosso ad un mio presunto amico che per l’ennesima volta mi aveva consigliato di trovare un lavoro alla mia portata. Non sapevo quale cazzo fosse la mia portata, quale sarebbe mai stata da allora in poi, per cui l’ho quasi strangolato.

Curioso, non ero un tipo violento, ma a quanto pare sì.

Per cui cosa? Non so, ho perso il filo.

Mi succede spesso, ma dato che in queste righe ho per lo più farfugliato in forma grafica non sarà un gran problema. Ho anche creato un’allitterazione, se notate. Forse potrei fare il poeta, dato che sono eccessivamente sconclusionato per fare lo scrittore, ma quando non prendo per troppo tempo i medicinali è inevitabile.

Stasera non li ho presi, volevo vedere cosa la mia mente ormai inesorabilmente marcia avrebbe partorito e sdegnarmi del risultato il giorno successivo, quando sarei stato in un momento buono. Se mai ce ne saranno di momenti davvero buoni.

Non so cosa ho scritto, ma so che stavo parlando con qualcuno, un qualcuno che probabilmente avrà smesso di leggere a questo punto, per cui non vedo cosa mi spinga a continuare a scrivere.

Quella troia in gonnella della mia psicologa dovrà accontentarsi di questo blateramento, compreso l’insulto ingiustificato che le ho indirizzato perché è così che “mi sentivo.”

Sono inconcludente.

So almeno questo del nuovo me stesso.









Angolo autrice:

Buona giornata a tutti! So che la storia non ha né capo né coda, non pretendeva di averne. Più he altro è uno sfogo personale (non chiedetevi in che modo, non lo so nemmeno io) ma spero di non avervi annoiati.


S. 



 
   
 
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