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Autore: Black Swallowtail    09/12/2016    0 recensioni
“Voi Ghost non dovreste essere privi di emozioni?” chiesi, a bruciapelo.
“Ed è così,” si passò una mano sulla gonna a brandelli, nel vano tentativo di pulirla dal sangue del quale si era macchiata, il mio sangue che era gocciolato su di lei “Fingo di averne per cercare di apparire più normale possibile e confondermi tra la folla.”
Quella era una risposta che avrei accettato uno o due anni prima, ma in quel momento, dopo tutto quel tempo, suonava come una bugia talmente grande perfino a lei stessa.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Observer

Il rumore delle ruote delle carrozze che scivolavano veloci sulla pavimentazione grigiastra della piazza bastava ad infrangere con prepotenza l'altrimenti totale silenzio di quella fredda serata di gennaio. L'assordante, ritmico abbattersi degli zoccoli ferrati sulla strada rimbalzò con un frastuono molesto tra i muri dei vicoli laterali che si aprivano anonimamente tra gli edifici vecchi e trasandati, che con la loro tozza forma incombevano su di me, unico viaggiatore in quel freddo pellegrinaggio notturno; la sigaretta stretta tra le labbra era spenta, per quanto avessi frugato nelle tasche della giacca alla ricerca di un fiammifero, non avevo avuto fortuna. Mi appuntai, in un angolo della mente, di passare a comprarne una scatola dopo questa ennesima nottata di lavoro.

Spostai con un cenno nervoso delle dita una ciocca ribelle dall'occhio sinistro, con scarso successo, perché tornò al suo posto dopo solo un paio di secondi, con una beffarda quanto irritante tenacia, che lasciai vincere sulla mia già poca e stanca voglia di agire. Nonostante l'aria seccata, ed il fastidio derivato dal dover camminare per un così lungo tratto di strada nel bel mezzo del gelo invernale, in me ribolliva l'urgenza di giungere il prima possibile a destinazione, perché quella notte sembrava finalmente diversa dalle altre, finalmente una scintilla si era accesa in me, mandandomi un formicolio lungo tutta la spina dorsale.

Non c'era stato bisogno che qualcuno entrasse attraverso la malconcia porta dell'appartamento, che fungeva anche da ufficio di quella sgangherata impresa che chiamavo "agenzia" semplicemente a beneficio della clientela. La facciata, solitamente, bastava a procurarmi abbastanza denaro per vivere decentemente; ma era il vero scopo che si celava dietro all'innocente lavoro a darmi ragione di trascinarmi in quella amara esistenza che definivo “vita” solo per mancanza di altri vocaboli adatti a descriverla. Un cenno della testa, una semplice indicazione, ed ero già fuori nella notte buia e mal illuminata, camminando il più velocemente possibile per arrivare prima che mi sfuggisse nuovamente come fumo tra le dita.

Una campana rintoccò, lontano, ed il suono metallico e stridente fece tremare la mia figura per un istante; quel suono sordo sembrò durare un'eternità, un'eternità che bastò a coprire la mia voce che imprecava in un sussurro al passaggio di una macchina: i suoi fanali accesi squarciarono la semioscurità della stradina, così come ferirono i miei occhi quando il suo incosciente pilota svoltò nella strada da dietro l'angolo. Un sorriso macabro si aprì sul mio volto, al pensiero di aver dato dell'incosciente ad un uomo, quando io ero il primo che mancava di qualunque tipo di amor proprio. O almeno, così mi aveva detto quella dannata. Il suo pensiero bastò a farmi salire la bile fin alla bocca, una rabbia talmente forte da costringermi a digrignare i denti, lacerando irreparabilmente il filtro della sigaretta. La gettai via con noncuranza, schiacciandola sotto lo stivale mentre continuavo a camminare senza dare tregua allo sguardo.

Dopotutto, è normale che uomini come me non tengano mai a riposo l'occhio, che non smettano di guardarsi attorno per nemmeno un istante: ogni momento, ogni singolo secondo, stavo passando lo sguardo febbrilmente su qualcosa, qualunque cosa, come a ricercare un aspetto invisibile e ben nascosto in ogni singolo edificio, mattonella, lampione sui cui mi concentravo anche solo per un istante.

Ogni volta che mi sembrava qualcosa si muovesse al limitare del campo visivo, scattavo immediatamente verso quella direzione, la mano che scivolava nella tasca della giacca, un'azione che ripetevo ogni qualche minuto. Ed ogni volta, potevo quasi sentire la sua voce infantile ed inespressiva che mi riprendeva con parole di scherno, battute sul mio inutile nervosismo o sulla mia eccessiva preoccupazione, che sarebbero suonate taglienti e perfino fastidiose in bocca a qualcuno con un minimo di capacità espressiva; purtroppo, o per fortuna, questa sua mancanza rendeva inutile qualsiasi tentativo di insulto o di semplice espressione al di fuori di una serietà talmente anormale da apparire disumana. Il che, probabilmente, non si allontanava poi tanto dalla realtà.

Un altro rintocco della campana segnò l'una di notte e il mio progressivo avvicinarmi alla meta. Non so esattamente quando iniziai a correre, forse nel momento in cui avvertii, nonostante tutta quella confusione, il flebile urlo di dolore e di sofferenza che conoscevo fin troppo bene, oppure quando realizzai di essere talmente vicino da poter rompere ogni indugio con un ultimo, rapido scatto per attraversare quella dannata piazzola abbandonata, con quella sua altrettanto abbandonata statua equestre arrugginita e ricoperta di escrementi di uccelli; o, forse ancora, quando mi sembrò di vedere un'ombra avvilupparsi informe attorno al campanile della torre e da lì scendere fino a raggiungere una finestra che dava nella sagrestia, scivolandovi all'interno, nell'esatto momento in cui il rumore della campana si interrompeva bruscamente.

Il portale della chiesa era di ferro, un ferro brutto e riciclato, probabilmente acquistato a basso costo per sostituire un più vecchio e decoroso portone adornato da qualche immagine di santi e profeti; invece, quella scura e tetra lastra nerastra, mezza divorata dal maltempo e dal continuo muoversi dei fedeli, era semplicemente ricoperta di piccole borchie sporgenti in un triste tentativo di imitazione che ai miei occhi apparve soltanto come una volgare approssimazione. Non la migliore delle impressioni.

Lei era poggiata al portone, con gli occhi bassi e la ampia gonna a campana ricamata con decorazioni gotiche bianche che svolazzava al soffio gelido del vento invernale; la croce incrinata che teneva al collo brillò di un colore violaceo, quando mi avvicinai a lei, quasi come a riconoscermi, a darmi il benvenuto che altrimenti quella bambina glaciale non si sarebbe scomodata per niente al mondo a porgermi.

Le posi due semplici, secche domande “Quindi è questo il posto?” e “Ha già fatto vittime?”, al quale mi rispose con due cenni del capo altrettanto laconici. Perfetto, sussurrai, mentre la mano affondava nella tasca interna della giacca, questa volta per estrarne una pistola, la rivoltella ben carica che produsse il fedele rumore della sicura che viene tolta quando la strinsi nel palmo con un sorriso di anticipazione. Finalmente, dopo due mesi, due lunghi mesi in cui non avevo fatto altro che collezionare buchi nell'acqua, avrei posto la parola fine a quella dannata missione che stava durando ormai da troppo tempo. Ogni volta che mi era sfuggito dalle mani, per un pelo, non avevo potuto fare a meno di sentirmi quasi soffocare da quel senso di impotenza che nella mia mente era associato al ricordo fin troppo vivido della tragedia di cinque anni prima. Un dolore al petto che non avrei mai voluto provare nuovamente.

I cadaveri che lasciava alle sue spalle erano gli unici testimoni del suo passaggio, quando giungevo sul posto, e quel dannato si era già dileguato da tempo, ritirandosi dal luogo del massacro senza nemmeno attendere un secondo di più del dovuto. Qualunque cosa avesse generato un abominio simile, da qualunque mente perversa o terrorizzata fosse nata, quell'essere era abbastanza efferato da dover essere fermato ad ogni costo; era divenuta una questione di principio fin dal momento in cui si era scatenato nell'orfanotrofio, tinteggiandolo con il sangue delle impotenti ed ignare vittime, quel distorto ammasso di pazzia ed informe, latente paura. Quella chiesa sarebbe stato il palcoscenico adatto all'annichilimento di quella creatura atroce.

“Io vado,” le dissi semplicemente, l'arma pronta nella mano destra, la sinistra che già era poggiata sul portale socchiuso, per aprirlo del tutto; da quella fessura, una soffusa e sporca luce, insieme all'odore di incenso e cera, si diffondeva tenuemente all'esterno, solleticando il mio naso.

Quando ero sul punto di spingere l'ingresso, sentii la sua piccola mano che mi tratteneva delicatamente per il gomito. Voltai appena la testa verso di lei, per gettarle un'occhiata da sopra la spalla, ai suoi occhi di quel violaceo sinistro, liquido, eppure gelido, molto più freddo di quella notte di gennaio. Per un lungo istante, non proferì parola, ma mi bastò sentire la sua presa farsi più forte dopo ogni istante per farmi capire “Non mi servirà aiuto, penso di riuscire da solo.”

Piegò la testa lateralmente, in un gesto che nella sua figura così asettica apparve totalmente fuori posto “Ne sei sicuro?”

“Se dovessi trovarmi in difficoltà, ti chiamerò,” concessi, arrendevolmente. Questo bastò, almeno in apparenza, a calmarla, perché lasciò andare la presa e rimase a guardarmi intensamente. In teoria, non avrebbe dovuto avere sentimenti, sarebbe dovuta essere esattamente come appariva allo sguardo, una bambola distaccata, atipica, non solo gelida, ma oserei dire vuota. Tuttavia, a volte, quelle azioni tradivano la presenza di una sorta di scintilla, in lei, probabilmente talmente nascosta da risultare invisibile, il che mi appariva confortante quanto sbagliato, forse inquietante, al tempo stesso. Lei stessa aveva detto che i Ghost non potevano sentire nulla. Se era così, allora...

Il filo dei miei pensieri fu interrotto da un grido soffocato proveniente dall'interno. Schioccai la lingua con disappunto, e spinsi il portale, spostandolo abbastanza da permettermi di entrare attraverso uno spiraglio; alzai l'arma, pronto a fare fuoco, mentre i miei occhi emettevano un bagliore che fece tremolare l'intero mondo davanti a me, sfocandolo per un istante.

Per una persona normale, quella scena sarebbe sembrata atroce quanto lo era per me, ma sicuramente molto più disgustosa ed efferata. La chiesa, all'interno, era divisa in tre navate illuminate dalle candele con una luce soffusa, che lasciava in penombra quelle laterali. Le panche erano disposte in perfetto ordine, una accanto all'altra, e le statue degli apostoli sporgevano dalle cappelle con i loro sguardi vuoti e le espressioni severe scolpite nel marmo; una imponente statua della signora campeggiava dietro all'altare, stringendo tra le mani la spada la cui punta si alzava di qualche centimetro al di sopra della sua testa; nel complesso, la figura era alta forse due metri. Attorno a lei, quattro candelabri ardevano di una luce intensa, che illuminava l'altare altrimenti buio.

Diciassette cadaveri erano gettati malamente sulle prime tre panche di destra e sulle prime due di sinistra, riversi in pozze di sangue che sgorgava nel suo intenso color cremisi dai loro corpi mutilati. Per la maggior parte, avevano il petto squarciato come da un artiglio o da un grosso coltello, ma alcuni avevano trovato una straziante morte dopo aver perso le braccia o le gambe. Una coscia sporgeva nello spazio tra le due file di banchi, poco prima di arrivare all'altare.

Il forte odore di incenso si mescolò a quello ributtante del sangue e della morte, e qualcosa nel mio stomaco si mosse per un secondo, prima che lo ricacciassi indietro con la forza di volontà. Ringhiai un insulto a bassa voce, senza muovermi dalla mia posizione; il mio sguardo seguì la scia di sangue che dai primi banchi arrivava fino all'altare, dove colava silenziosamente ai lati, per poi terminare esattamente in cima alla spada della signora: sulla punta della sua arma, stava impalato il cadavere dell'officiante con il viso ancora coperto dal cappuccio, e che nascondeva parzialmente la mutilazione che il suo distorto esecutore aveva adoperato, sbattendone il corpo inerme lì sopra.

Diciotto morti, questa volta. Quasi quanto quella volta all'orfanotrofio; ero arrivato troppo tardi per salvarli, ma non era quello l'importante, non avevo tempo per piangere su dei corpi senza nome né volto, quando l'autore di quello scempio era ancora nella stanza. Non poteva esserne uscito, altrimenti lei mi avrebbe avvertito; era ancora lì, che strisciava tra le ombre, guardandomi con il suo corpo senza volto, ascoltando il mio respiro senza usare orecchie, gocciolando del sangue che era rimasto sulla sua massa senza forma, in perenne mutamento, che si contorceva senza mai fermarsi.

Mossi qualche passo circospetto tra le panche, dirigendomi verso l'altare, e quella semplice azione bastò a mandarmi brividi gelidi lungo il corpo. Era come se tutti quegli sguardi vuoti di pietra seguissero ogni mio passo, calamitando il loro silenzioso giudizio verso di me, un giudizio che sembrava volermi incolpare. Ma ormai non sentivo più il peso del peccato da troppo tempo, per potermi inquietare di fronte a quegli stoici volti; mi terrorizzava di più l'idea che le loro buie nicchie fossero il nascondiglio di quell'essere vomitato fuori dagli incubi dell'uomo.

Mi fermai davanti alla prima fila di panche e mi chinai ad esaminare prudentemente uno dei corpi, toccando lo squarcio che dal petto risaliva fino alla spalla, fermandosi poco sotto la clavicola. Sembrava una ferita da arma da taglio pesante, come un'ascia o forse con più probabilità degli artigli, ma quello mi diceva poco, perché alla fin fine l'ombra non usava armi nel senso stretto del termine. Non ne aveva bisogno, vista la sua natura in continuo cambiamento e le sue proprietà fisiche plasmabili.

Per quanto cercassi, non riuscivo ad intravederla da nessuna parte. Non sembrava essersi rintanata in un angolo della stanza, o tanto meno tra le panche o vicino all'altare. Mi avvicinai silenziosamente, con la pistola pronta a sparare un colpo in qualunque istante, con il dito tremolante sul grilletto, ad una nicchia laterale, dove un santo mi gettò sguardi di disapprovazione, che ignorai mestamente insieme al corpo scagliato malamente ai suoi piedi; in quella nicchia non sembrava esserci nulla di sospetto. Le altre dodici contenevano altrettante statue, oltre a dei dipinti di dubbia bellezza artistica e qualche tomba che non ebbi l'accortezza di aprire, rovistare tra vecchie ed ammuffite ossa di uomini religiosi non mi sembrava un'ottima idea.

E fu proprio questo a trarmi in inganno. Tornai ai piedi della grande statua della signora, il sangue che colava dal corpo dell'uomo scivolava fino all'elsa e tra le sue dita in una macabra visione che mi assorbì, per un lungo istante, nella contemplazione. L'odore pungente dell'incenso, quello metallico del sangue si mescolarono e mi avvolsero, intorpidendomi per un istante. L'istante necessario all'ombra per fuoriuscire dalla bara della prima cappella a destra dell'altare, scagliando in aria il teschio, le ossa e le polveri di un pio uomo, insieme a frammenti di vetro e legno, con un fracasso assordante che bastò a distruggere quella specie di sospensione irreale. La statua dell'apostolo tremò sotto l'impeto dell'ombra che emergeva, facendola crollare fragorosamente a terra con uno schianto, mandando in frammenti la sua dura espressione per fare spazio alla ribollente sagoma indistinta ed incolore della mia preda.

Alzai la pistola e fulmineamente sparai tre colpi che si schiantarono impotenti contro il muro distrutto della nicchia; l'ombra informe si sollevò con un balzo, atterrando sopra la quarta e la quinta fila di panche, a destra dell'altare, travolgendole nell'impatto e fracassandole con la sua gocciolante mole. Nera, priva di contorni o di una forma definibile, l'ombra era il nome generico dato a quella tipologia ributtante di esseri che infestavano il mondo oltre il velo e che si trascinavano da un luogo all'altro, mosse dall'urgenza delle paure, ai dubbi, delle domande insolute dell'uomo. Era un discorso intricato e contorto, che ad ogni spiegazione sembrava avere più senso, ma solo dopo averlo dovuto ascoltare per la dodicesima o tredicesima volta.

Una massa di… qualcosa, una specie di materiale indefinito a metà tra il liquido ed il solido, di un colore che l'occhio non captava, incerto, esattamente come l'essenza stessa dell'essere. Non aveva intelligenza, coscienza o istinto. Semplicemente, esisteva perché doveva esistere, perché c'era bisogno di lei.

Davanti a me, l'ombra modellò cinque o sei volti privi di ogni tratto, ad eccezione di una bocca umana biancastra e completamente vuota; quelle facce erano disposte a formare una sorta di corolla attorno ad un altro viso posticcio, dove occhi e bocca erano rappresentati da tre spirali immobili, in una parodia grottesca di una maschera teatrale, una posticcia rappresentazione del volto umano. Poi, contorcendosi, diede vita a delle braccia, una selva intera di braccia, che terminavano con due, tre o quattro dita tremolanti ed affilate, più simili ad artigli animaleschi.

Strinsi i denti, indietreggiando di qualche passo, cercando di aumentare la distanza tra me e l'ombra, che si trovava di fronte al portone della chiesa. Quell'essere informe, demoniaco, per un istante sembrò esitare sul da farsi; presi al volo l'occasione per inserire tre proiettili nel tamburo e spararne due in rapida successione. Il sordo rumore dei proiettili che volarono fuori dalla canna dell'arma lacerò l'aria, come se li udissi per la prima volta; le mie orecchie fischiarono nel momento in cui il tamburo girò per preparare il prossimo colpo, che non partì, perché dovetti gettarmi a terra, scivolando sotto l'altare, per evitare di essere schiacciato dall'assalto dell'ombra.

I proiettili sembravano non averlo ferito. Era molto più resistente delle altre, probabilmente a causa del tempo passato a mietere vittime negli ultimi mesi: era, dopotutto, grande il doppio dell'ultima ombra che avevo affrontato, la sua mole sarebbe bastata a ridurmi in poltiglia, qualora mi fosse caracollata sopra.

Atterrò sopra la statua della signora, tranciandole la testa con gli artigli e facendola cadere penosamente all'indietro; con un fragore infernale, il simulacro collassò sul muro affrescato, frantumandosi, non prima di averlo crepato e averne fatto crollare una piccola sezione.

Approfittando del momento di confusione del mio nemico, scivolai fuori dal mio nascondiglio, riparandomi dietro ad una colonna e respirando a fondo nel vano tentativo di calmarmi. Quell'ombra era troppo resistente per essere uccisa con dei proiettili. Avrei potuto utilizzare una granata, ma avrei rischiato di buttare giù l'intera chiesa e di rimanere sotto le macerie, oltre ad attirare troppa attenzione. Non che importasse, a quel punto, ma sbrigare incombenze con la polizia sarebbe stato un problema.

Mentre tentavo freneticamente di trovare una soluzione, sentii il rumore di qualcosa che fendeva l'aria; mi accucciai appena in tempo, quando tre artigli passarono esattamente dove un secondo prima era il mio collo, distruggendo anche il mio riparo e facendo tremare la struttura. Calcinacci e polvere si alzarono a riempire l'aria, facendomi tossire ed imprecare allo stesso tempo, mentre svuotavo inutilmente il caricatore nel corpo della creatura. I colpi affondarono nella sua massa viscosa, ma i fori aperti in essa non sembravano disturbarla minimamente; quei volti privi di ogni tratto e dal plastico sorriso congelato si contorsero, gli artigli oblunghi mi ferirono il corpo superficialmente, strappandomi la giacca sul fianco, sulla spalla, sul braccio, afferrandomi per qualche istante con estatica passione omicida. Poi, mentre mi divincolavo inutilmente, un colpo secco al petto che non avevo visto arrivare.

Non ricordavo da quanto tempo non venissi colpito così forte, ma fu talmente doloroso da strapparmi tutto il fiato dal corpo. Venni catapultato all'indietro e sbattei dolorosamente le spalle su una panca, che si infranse sotto la violenza dell'impatto. L'urlo morì sulle mie labbra nell'istante in cui la creatura mi sovrastò.

Avevo la gola secca e non riuscivo a muovermi; sentivo il terrore che mi attraversava da capo a piedi, e non riuscivo a respirare, proprio come se il mio petto fosse oppresso da un peso insormontabile. Mi sentivo… no, ero impotente. Proprio come allora, non era cambiato nulla. Strinsi i pugni. Se ero ancora così debole, perché stavo facendo tutto questo? Davvero non era cambiato niente da quel giorno? In quel momento, in quell'esatto momento, mentre l'ombra mi teneva a terra con un braccio, e si preparava a colpire con un altro, mi sentii come il ragazzo impotente di cinque anni prima che era rimasto immobile, impossibilitato a fare nulla se non guardare sua sorella che veniva portata via. Portata via da un'ombra, da un abominio come quello.

“Mi ero ripromesso di non dover mai più sentirmi come quella dannata volta...”

Le parole scivolarono fuori dalle mie labbra in un soffio, un sussurro faticosamente tirato fuori dal petto contratto. La pressione aumentò e un rivolo di sangue colò dall'angolo della mia bocca.

“...eppure eccomi di nuovo qui, senza poter fare niente.”

Chiusi gli occhi per un lungo istante. Morire lì, ucciso da un essere infimo come quello, sarebbe stato proprio da me; ma non potevo accettarlo, non ora, non dopo che mi ero ripromesso di ritrovarla. Non dopo che mi era stata data un'altra possibilità.

Quindi, con una punta di rassegnazione e rammarico, riempii i polmoni con tutta l'aria che avevo, e urlai. Urlai il suo nome con tutto il fiato che avevo in gola, con ogni fibra del mio essere.

Mentre l'artiglio sfiorava la mia pelle, il rumore della porta che veniva strappata dai cardini con un fragore assordante riempì le mie orecchie. Davanti ai miei occhi, nella frazione di un secondo,vidi il corpo dell'ombra, colpito con brutalità inaudita, scagliato all'indietro contro l'altare; il rumore di pietra infranta mi confermò che l'attacco era stato abbastanza violento da farla volare all'altro capo della chiesa.

Abbassò lo sguardo verso di me, in cui leggevo una sorta di rimprovero silenzioso, mentre mi alzavo tossendo e stringendomi il petto. Mi tirai in piedi, estraendo la seconda pistola dalla tasca sinistra e mettendomi al suo fianco.

“Non avevi detto che non ti sarebbe servito aiuto?” chiese lei, mentre quelle zampe di oscurità che partivano da poco sopra il polso e avvolgevano le mani con una forma che vagamente ricordava quella di un demone, composta da tre grandi artigli, sparivano in uno sbuffo di fumo nerastro.

“L'ho sottovalutato. Deve aver avuto tempo di divenire più forte di quanto immaginassi.”

“In questo caso, dobbiamo ucciderlo prima che la situazione peggiori,” constatò, lasciando che di nuovo le mani venissero avvolte da quelle forme mostruose, venate di energia azzurrina, quasi si trattasse di vene in cui scorreva una forma distorta di sangue palpitante.

Si prese un lungo momento per osservare la gonna, quel meraviglioso abito finemente intessuto per un'occasione speciale quale era stata il nostro primo lavoro in coppia. Per quanto tentasse di nascondere le poche emozioni che le si agitavano dentro, quel semplice gesto bastava a rivelarle; ed io, intuendo i suoi pensieri, le poggiai una mano sulla testa, scompigliandole i capelli “Se dovesse strapparsi, te ne comprerò una nuova, Claire.”

Il suo sguardo tornò sull'ombra, senza cambiare espressione, non rispose all'affermazione, ma semplicemente si piegò sulle ginocchia, scattò in avanti, compiendo un balzo che la portò nella sua traiettoria a sovrastare l'essere, ed infine si lanciò in una picchiata contro la creatura claudicante che faticava rialzarsi; intravidi sul suo petto un enorme squarcio lasciato dall'artiglio, e numerose ferite per via della statua che gli era collassata definitivamente sopra, schiacciandolo a terra.

Emettendo uno stridio talmente forte da far tremare il rosone alle mie spalle, mandandolo in mille pezzi, la creatura agonizzante allungò tutte quelle teste in avanti, dieci visi dalla bocca spalancata e gocciolante nero liquame, nel tentativo di intercettare l'attacco frontale di Claire. Ma io fui più veloce: una pistola nella sinistra, una nella destra, e dieci proiettili eruttarono in una raffica di fiamme ed assordanti spari, andando a crivellare i volti dell'ombra, che si agitò inutilmente nella sua dolorosa posizione. Impedita, schiacciata dal masso che la tratteneva ancorata al pavimento da quella parodia di busto in giù, con dieci, palpitanti colli rimasti senza alcuna testa, abbandonati a terra, ululò dolorosamente nell'istante in cui il pugno di Claire colpì.

Il suo corpo si contrasse, schiacciato dal peso dell'attacco, e si inarcò mentre la maschera di spirali si infrangeva con un rumore secco, dopo essersi ricoperta di crepe. Senza mostrare pietà, senza dare tregua, con uno sguardo gelido, nel quale tuttavia potevo riconoscere una punta di rabbia, di odio, la mia piccola Ghost strinse il corpo della creatura, affondando gli artigli sproporzionati nella sua melmosa figura.

L'ululato che l'ombra lanciò, nel momento in cui il suo corpo venne strappato in due parti, risuonò nelle mie orecchie come un coro di voci sofferenti, come l'urlo soffocato di un uomo che, sofferente, vomita tutta la sua frustrazione contro una divinità che non lo ha aiutato, nonostante le preghiere, la carità e la speranza in cui si era prodigato per ricevere soltanto uno sguardo di pietà Come ogni volta, fu quasi un flash, una sensazione passeggera che sparì in un sospiro nell'esatto momento in cui Claire scagliò il corpo agonizzante e tranciato a metà dell'ombra ai miei piedi. Ansimavo per la stanchezza della battaglia e sentivo pulsare ogni ferita ed ogni livido che stava nascendo nel mio corpo; il sangue, il mio sangue, che colava pigramente dal labbro, andò a sporcare il pavimento, mescolandosi con quello delle altre vittime.

Senza una parola di più poggiai le due pistole su quel che rimaneva dell'ombra, che fece appena in tempo a produrre una nuova testa dalle grottesche fattezze umane, con un solo occhio, il sinistro, vuoto, ed una bocca incurvata verso il basso, in una parodia di tristezza che fece nascere in me una repulsione talmente forte da spazzare via ogni dubbio. Posai entrambe le rivoltelle su quel viso posticcio e, senza esitare, sparai gli ultimi due colpi. Senza un rumore, l'ombra si accasciò a terra e si dissolse in una pozza nerastra che sbiadì fino a sparire del tutto, nel più completo e disumano silenzio.

Esausto, crollai a terra, poggiandomi a quel che rimaneva dell'altare. Claire mi si avvicinò, inginocchiandosi davanti a me, gli occhi cercavano silenziosamente le ferite sotto i miei vestiti e la sua mano esitante sfiorò il mio fianco. A quel contatto, mi sfuggì un leggero gemito, e questo bastò a farle storcere la bocca. Per un istante rimase in silenzio, senza parlarmi, prima di poggiare le sue minute e candide mani sulle mie spalle, spingendomi contro il freddo marmo dell'altare frantumato. In fondo ai suoi occhi potevo leggere una vena di mal celata preoccupazione, mentre i capelli le nascondevano il viso.

“Perché non mi hai chiamato subito? Ti sei ferito”.

La sua voce era poco più di un delicato sussurro, appena udibile perfino nell'improvviso silenzio fino dove a poco prima regnava il caos del combattimento. La vidi digrignare i denti per un attimo, prima di spingermi più forte con la sua forza sovrannaturale.

“Non farlo mai più. Tu devi vivere. Non è per questo che hai stretto il patto?”

Le poggiai una mano sulla testa e le carezzai appena quei capelli neri, talmente neri da oscurare perfino il cielo notturno, da risplendere perfino contro l'ebano e l'ossidiana, quei capelli che le toccavano appena le esili spalle. Quella piccola bambina, quella che mi stava rimproverando nonostante questo le costasse una fatica notevole, a causa di quella apatia che per tanto tempo, ed ancora allora, la tormentava, era un'arma, un Ghost, un essere dal potere sconfinato.

Ed io ero il suo compagno. Il suo contraente. Il suo Osservatore. Tesi la mano a stringere la croce che brillava del violaceo colore che sembrava rubato dalle sue stesse iridi, e la tenni tra le dita. Un mezzo sorriso si aprì sul mio volto, ed incrociai i suoi occhi, mentre si piegava verso di me per spingermi ancora di più.

Aveva ragione. Io dovevo vivere. Non potevo permettermi di morire, non ancora, non prima di aver risolto quel mistero che affliggeva la mia intera esistenza da anni, la motivazione per il quale avevo stretto con lei quel folle contratto. Claire lo sapeva fin troppo bene… sapeva che non avrei mai potuto lasciare questo mondo senza prima aver mantenuto fede alla promessa fatta sotto la luna rossastra ed insanguinata di quella notte. Ed io lo sapevo ancor meglio di lei.

“Mi stai facendo male” dissi, abbassando gli occhi e distogliendo il mio sguardo dal suo, che sembrava schiacciarmi più di quanto facessero le sue mani. Senza protestare, si allontanò bruscamente da me e si voltò per uscire dalla chiesa distrutta, da quel campo di battaglia in cui rimanevano solo morti e rovina. Un'altra ombra uccisa, alla fine. Non ne avrei guadagnato nulla, al di fuori della soddisfazione personale e dall'esperienza in battaglia; l'unico vantaggio sarebbe andato a Claire, avendo assorbito una creatura di quella taglia. Ma in quel momento non mi importava, in quel momento avevo solo un pensiero nella testa, il viso di Sheena che veniva strappata via dalle mie braccia. Affondai la mano nella tasca superiore del giaccone lacerto e ne estrassi una piccola catenina d'oro; la strattonai per arrivarne al capo, dove, agganciata con la massima abilità, stava un piccolo orologio dorato. Lo aprii, ma il quadrante non c'era, sostituito da quell'unica foto che mi era rimasta di lei, l'ultima foto della mia amata Sheena, dell'unica altra persona di cui mi potesse importare qualcosa in quel mondo.

La persona che, quattro anni prima, mi era stata portata via con brutale prepotenza da un'ombra sfocata che aveva teso le sue pulsanti e gocciolanti mani verso di lei, trascinandola lontano, sparendo nel mezzo del nulla e lasciandomi in lacrime con la mano tesa nel vuoto, a gridare il suo nome piangendo con tutta la mia forza.

Ero stato debole e non ero riuscito ad afferrare la verità dietro a quell'avvenimento fino a due anni prima. Fino al giorno in cui…

Claire, ferma sui resti del portale in ferro abbattuto dal suo pugno un attimo prima, mi gettò uno sguardo tagliente quando si accorse che la stavo guardando di sottecchi. Mi tirai il cappuccio sul viso, rimisi le pistole al loro posto e la affiancai. Era rimasta immobile ad attendermi, dandomi le spalle, senza dire nulla. Il suo vestito era stato strappato per la maggior parte nella foga del salvataggio, e la gonna a campana si era lacerata durante il salto e l'ultimo attacco all'ombra.

Tesi la mano e le toccai appena la spalla con le dita. Quel contatto fece rilucere di intensità più forte la croce e tanto bastò a farla irrigidire. Si voltò verso di me con aria seccata, mal celata sotto una maschera di indifferenza.

“Voi Ghost non dovreste essere privi di emozioni?” chiesi, a bruciapelo. Nonostante quel che lei stessa mi avesse detto, la pratica sembrava smentire la teoria, perché benché all'apparenza sembrasse distaccata ed apatica, da un po' di tempo a quella parte riusciva a mostrare emozioni più forti e palesi, terribilmente umane.

“Ed è così,” si passò una mano sulla gonna a brandelli, nel vano tentativo di pulirla dal sangue del quale si era macchiata, il mio sangue che era gocciolato su di lei “Fingo di averne per cercare di apparire più normale possibile e confondermi tra la folla.”

Quella era una risposta che avrei accettato uno o due anni prima, ma in quel momento, dopo tutto quel tempo, suonava come una bugia talmente grande perfino a lei stessa che dovette voltarsi di scatto ed iniziare ad ignorarmi nuovamente. Sospirai, dissi qualcosa come “ho capito, ho capito”, e poi la incitai a tornare a casa.

Mi allontanai del tutto dai resti di quell'edificio ormai ridotto ad un ammasso di macerie e morte. Il giorno seguente, la polizia e gli investigatori si sarebbero chiesti cos'era successo, non trovando spiegazione altre ombre sarebbero nate dalle loro domande ed avrebbero iniziato di nuovo ad uccidere, a vagare senza meta, disperse, senza vita, senza istinto, senza nulla, solo involucri vuoti mossi da una volontà labile e sconosciuta come la paura, la follia, il dubbio. Era un cerchio infinito, quello, così mi aveva spiegato Claire. Un cerchio che tuttavia andava ad assottigliarsi con il tempo e minacciava di spezzarsi continuamente.

Dopotutto, il progresso scaccia ogni dubbio ed ogni terrore.

Claire mi si affiancò, senza una parola, ed iniziammo a camminare lentamente, senza fretta, senza alcuna ombra, senza alcun fantasma o abominio alle spalle. Due figure così strane che, l'una accanto all'altra, si perdevano nell'oscurità delle più fosche stradine di Lotthem mentre, da lontano, il campanile di una chiesa ancora integra, non ancora macchiata dal sangue e dalla morte, dove ancora le impure mani delle ombre non erano giunte, batteva le tre.

Due figure così diverse, un adulto ed una bambina, che lasciavano che le tenebre li accogliessero e li riportassero al luogo a cui appartenevano, il luogo che l'uomo non può vedere perché coperto sugli occhi da un velo, in modo che il suo grigiore non possa invadere il mondo sensibile di ogni giorno, non possa contaminarlo più di quanto le ombre non facessero già. Stavamo tornando a casa.

Questa volta, non una carrozza o un cavallo interruppe la quiete notturna, ma solo il ritmico rumore dei piccoli tacchi di una bambina, di un Ghost, che, accanto al suo Osservatore, lasciava che la nebbia le corresse tra le mani, insieme al vento e al freddo dell'inverno.

Erano quelli i momenti in cui, stringendole la mano, mi sembrava di tornare indietro e, chiudendo gli occhi, capivo come scorreva il tempo. Quanto ne era già passato…

Un altro anno. Un altro inverno. Un altro giorno. Un'altra ombra.

La croce che portava al collo mandò un leggero bagliore quando lei, improvvisamente, si fermò, trattenendomi dal proseguire; senza guardarmi negli occhi, si avvicinò lentamente a me, stringendo il manufatto con una forza che le contrasse i muscoli, e lo poggiò tra le mie mani, chiudendovi sopra le dita. La sensazione di improvviso gelo mi mandò un brivido lungo la pelle, ma non potei fare a meno di sentire quel fievole battito che sembrava provenire dall'oggetto penetrarmi sotto la pelle ad ogni impercettibile spasmo, che, come fosse stato un cuore, dopo ogni secondo, lo attraversava. quell'oggetto che valeva tanto per me… per noi, era il testimone eterno del nostro legame, un tetro e perenne avviso della nostra situazione e del mio passato, perché non potessi dimenticare mai la natura del mio contratto.

“Non dimenticare mai la croce che porti sulle spalle, Sebastian.”

Sorrisi, un sorriso privo di felicità, solo un leggero incurvare le labbra, in una pallida imitazione. Alla fine, dopotutto, mi era impossibile scordare quale fosse la mia missione, l'obiettivo che mi ero dato anni ed anni fa, quando incontrai quella strana ed inquietante ragazzina in una buia strada dei sobborghi. Quel pendente dalla forma così bizzarra che ora, tra le nostre mani, riluceva tenuemente, era il simbolo del legame con il mio passato, quanto con il mio presente. Mentre la sua mano scivolava via dalla mia, lasciando sul palmo la piccola croce, l'oscurità ci avvolse e nascose le nostre figure. Lei era già scomparsa, ma io mi presi un momento in più per stringere ancora il piccolo talismano e ricordami di quel che mi attendeva,

“Aspettami ancora un po'. Ti troverò, come avevo promesso.”

Nessuno poteva sentirmi, in quella strada. La persona a cui mi rivolgevo era scomparsa tanti, troppi anni fa.

Observer — End

   
 
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