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Autore: The_Rake    16/12/2016    1 recensioni
Haise Sasaki è un cliente abituale del re, e Touka è ossessionata dalla sua somiglianza con Kaneki. Ma se veramente è lui, non dà segno di ricordarsi il suo passato. La comparsa di un nuovo personaggio cambierà la situazione?
Attenzione: spoiler da Tokyo ghoul e Tokyo ghoul: re;
Presenti un OC e libertà nell'inventare particolari di momenti della vita dei personaggi non narrati dall'autore dell'opera principale.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kaneki Ken, Kirishima Tōka, Nuovo personaggio, Takatsuki Sen/Eto
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Nel suo ufficio, Haise Sasaki si aggiustò gli occhiali da vista sul naso e guardò l’orario: le 15:45 del 27 ottobre 2015. Erano stati dei giorni pesanti, per lui. Non sapeva ancora cosa fare. Non sapeva ancora cosa volesse. E soprattutto, non sapeva cosa ci facesse, ancora vivo.
Le parole di quel barista, Kamui, gli tornarono alla mente, come un larva di tarlo che rode insistentemente il legno nel buio della sua cecità. Se non hai un motivo per vivere, dovresti semplicemente sparire. Era esattamente quello che aveva cercato di fare due anni prima. Quel giorno, nelle fogne…
Quel giorno volevo morire in grande pompa, pensò.
Aveva voluto mettere fine a tutto. Proprio come sua madre, che era morta di fatica. Che l’aveva picchiato ripetutamente. Che l’aveva lasciato solo, quando ancora era solo un bambino.
Quella volta, in V14, aveva voluto fare lo stesso. Proprio come il verme che lei era stato, lui sarebbe morto. Gli sarebbe stato bene. Sarebbe diventato un ricordo felice per le persone che amava. Però, aveva fallito. E dopo il fallimento, aveva fatto qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Aveva iniziato a desiderare. Lui, che avrebbe dovuto dare tutto per gli altri, aveva desiderato qualcosa per sé.
Prima, un nome.
Aveva scelto lui il proprio nome, Haise. Scritto con i caratteri di “caffè” e “mondo”.
Poi, aveva desiderato una famiglia.
Mado, Arima. Loro erano state le sue figure di riferimento, in quegli anni. Come dei genitori. In seguito, dopo essere uscito dalla squadra 0, gli erano stati affidati i Quinx. Li aveva considerati un po’ come dei figli. Una famiglia fasulla, lo sapeva bene, ma in qualche modo aveva funzionato. Come in un sogno, lui era stato felice.
Ora, però, ricordava. E con i ricordi, gravava su di lui una pesante confusione.
Si alzò dalla sedia per andare a prendere un bicchiere d’acqua dal boccione posizionato in un angolo. Non sapeva davvero cosa fare. Decise di richiedere un permesso per malattia per il pomeriggio. Effettivamente non si sentiva granché bene. Non che si fosse più sentito davvero bene da quando l’avevano quasi sventrato e gli avevano infilato nell'addome gli organi di una sconosciuta che lo voleva per cena.
 
Kamui si massaggiò gli occhi. Nonostante avesse un aspetto migliore di quello del giorno prima, era ancora stanco dalla crisi appena passata e Yomo, informato di quanto accaduto, gli aveva concesso una giornata libera. Ancora non si sapeva cosa fosse andato a fare durante la sua assenza, ma, aveva deciso Kamui, non era affar suo. Al suo posto, avevano chiamato un altro dipendente che, a quanto gli era sembrato di aver sentito, aveva fatto il diavolo a quattro perché ‘aveva un impegno importante’, prima di rassegnarsi a rimandarlo. Prese mentalmente nota di andare a scusarsi, quando avesse finito di raccogliere informazioni.
Era già passato da poco all’Helter Skelter, nella speranza di riuscire a ricavare qualcosa su delle dicerie di cui aveva sentito tempo prima tendendo le orecchie durante le sue ‘passeggiate’ notturne. Era incredibile quante informazioni girassero per vicoli e strade secondarie quando la maggior parte della gente dormiva. Se si sapeva dove cercare, c’era sempre traffico. Droghe, lotte clandestine fra cani, prostituzione: Kamui non si era mai soffermato a pensare quanto denaro sporco potessero fruttar quelle attività, e a dire il vero non aveva neanche intenzione di farlo. Aveva impiegato non poca fatica a trovare qualcuno che sapesse qualcosa su ciò che gli interessava, ma una volta beccati un paio di yakuza sbronzi non ci era voluto molto a farli cantare. Ci avevano rimesso qualche dente a forza di pugni e uno dei due aveva rimediato una frattura al setto nasale - probabilmente in seguito se lo sarebbe definitivamente deviato con una striscia di coca, aveva pensato - ma la storia che alla fine aveva ascoltato Kamui gli aveva permesso di dedicare più tempo alla ricerca di un lavoro. Tutto ciò si era svolto un paio di mesi prima. Buona parte delle informazioni l’aveva scartata ed etichettata come baggianate e fantasie di un ubriaco, ma la minoranza che rimaneva costituiva una sequenza di avvenimenti che si incastravano in maniera fin troppo perfetta per essere una bufala. In fondo, una volta accantonato l’impossibile, ciò che restava, per quanto improbabile, doveva essere la realtà. Aveva cercato di far leva sul periodo in cui aveva lavorato lì, ma il gestore, Itori, si era rivelata un osso duro. Non avendo molto tempo da sprecare né informazioni da scambiare, aveva deciso di utilizzare vie traverse e cercare un informatore umano. In fondo, anche se quella donna gli avesse raccontato qualcosa, avrebbe dovuto prendere qualsiasi parola uscita dalle sue labbra con le pinze. Era pur sempre un clown, voleva solo divertirsi. E nella sua vita aveva imparato che alcune persone avevano modi molto particolari di intrattenersi.
Ora, scartata Itori, si trovava di fronte ad un’altra donna, l’aveva contattata quella mattina e si erano dati appuntamento in un bar. In qualche modo, nella sua vita la compagnia femminile era una costante. La donna in questione sembrava una bambina. Seduta al tavolo, era intenta a gustarsi una coppa di gelato. Kamui aveva lasciato la sua quasi intatta, trovava quel gelato disgustoso, specialmente a confrontarlo con quello che era stato solito mangiare da piccolo. Per quanto ricordasse a se stesso che aveva pagato per avere quel cibo, non riusciva assolutamente a farselo andare a genio. Quindi, non gli restava che aspettare. Chie Hori. Si ripeté il nome del suo interlocutore per evitare di dimenticarlo. Aveva letto di lei su un tabloid, pareva che fosse una fotografa di prim’ordine e per essere una semplice freelancer aveva messo le mani su parecchi scoop. Anche su di lei giravano delle voci; nella fattispecie, una la voleva in rapporti amichevoli con il gourmet scomparso da un po’. Avrebbe testato la loro veridicità alla fine della loro conversazione.
Fu lei a strappare l’uomo alle sue elucubrazioni. “Allora, che ti serve?”, chiese puntandogli addosso il suo cucchiaino. “Che informazioni, intendo”, aggiunse.
Kamui spostò il proprio sguardo dalla finestra verso di lei. Non poté evitare di pensare che fosse davvero particolare. I suoi occhi lo scrutavano come se avesse appena notato una nuova specie di insetto.
“Sai qualcosa di V?”, chiese con naturalezza.
La donna alzò lo sguardo per pensare. Il rumore di sottofondo, il tintinnio dei cucchiaini sul vetro e le chiacchiere degli altri clienti diventò un frastuono alle orecchie di Kamui, che temette per un momento di averle rivolto una domanda inutile. Era pronto a maledirsi per aver dato ascolto a due ubriaconi, quando arrivò la risposta della freelancer:
“Ah, sì. Parecchi dicono che siano una lobby massone, ma nessuno sa veramente di chi o cosa si tratti. Pare che si definiscano ‘arbitri del caos’ e vogliano mantenere lo status quo nelle relazioni fra ghoul e umani, per potersi dedicare tranquillamente ai propri affari.”
Il mezzosangue trattenne un sospiro di sollievo e cercò di mantenere un’espressione quanto più neutra gli riusciva.
“Sai per caso se girano voci secondo cui si siano dedicati ad esperimenti… particolari?”
Sì, particolari andava bene. Per non dire disgustosi.
Chie si appoggiò il cucchiaino al labbro inferiore mentre pensava. “Ho sentito qualcosa mentre scattavo delle foto per un pulp. C’erano questi due tizi con completi neri e cappelli in tinta che parlottavano di qualche ‘fuggitivo’. Sembravano non essere esattamente innocui e ho pensato che sarebbe stato meglio sparire.” Si fermò un attimo, come se si fosse ricordata qualcosa di estrema importanza. “Hai il pagamento pattuito? Le informazioni non sono gratis.”
“Sì. Ma ho anche altro da scambiare, se ti interessa. Credo che mi avvarrò dei tuoi servizi per un po’.” Posò una mazzetta da duemila yen sul tavolo. Era arrivato il momento di giocare il suo asso nella manica. “So che un tuo amico”, continuò, “diciamo, particolare, è angustiato dalla perdita di una persona.” Di nuovo un eufemismo, pensò sarcasticamente.
Hori lo guardò con il suo solito sguardo a metà fra il vacuo e il curioso. Prese i soldi, poi aspettò per far capire all’altro di continuare.
“Mi serve che tu scopra di più su V. Tutte le voci, anche quelle che ritieni infondate. Tutte le possibili infiltrazioni. Tutti i possibili complotti. Una volta che avrò le mie informazioni, se sarò soddisfatto, ti dirò qualcosa su Ken Kaneki.” Tacque, in attesa di una risposta.
Lei annuì. “Ho voglia di un altro gelato”, affermò.
L’uomo acconsentì, pur controvoglia. Però, se quello che Chie Hori aveva detto era vero, lo cercavano ancora. Era fra due bombe pronte ad esplodere al suo minimo passo falso. Cercando di guardare il lato positivo della faccenda, considerò che aveva fatto un gran passo avanti. Aveva un obiettivo reale, anche se estremamente sfuggente. Le informazioni che aveva richiesto erano parecchio rischiose da ottenere; si chiese se quella donna così minuta sarebbe riuscita a finire il lavoro senza morire. Al pensiero di averla coinvolta si sentì leggermente in colpa, ma ormai l’accordo era fatto e non avrebbe ritrattato. Soprattutto se prolungare la conversazione con quella donna significava praticare ulteriori salassi al suo portafogli già leggero.
Separatosi da Chie, Kamui aveva un’ultima faccenda da sbrigare, e sperava che stavolta sarebbe riuscito a sfruttare una sua vecchia conoscenza nell’eventualità che i soldi non gli fossero bastati.
L’insegna del luogo in cui si era recato il mezzosangue recitava HySy ArtMask Studio. Era situato in una via abbastanza degradata, e vicino la porta c’era una vecchia Harley Davidson. Si prese un momento per ammirarne le ottime condizioni, evidentemente il proprietario le dedicava parecchia cura. Entrò.
Subito lo assalì l’odore acre della pelle conciata e delle vernici da aerografo. Cercando di ignorarlo e ringraziando che i suoi sensi non si fossero ancora riacutizzati del tutto, gettò un’occhiata all’ambiente soffusamente illuminato e disseminato di maschere in cerca dell’artista di cui aveva bisogno. Trasalì quando una mano si posò sulla sua spalla sinistra ancora ferita, mandandogli per la spina dorsale un leggero brivido di dolore.
“Come posso aiutarti, Ieyasu?”
Kamui si girò quasi di scatto per vedere una figura che i più avrebbero definito stravagante, se non di cattivo gusto. La persona di fronte a lui indossava delle scarpe strappate, un paio di pantaloni a cavallo basso e una camicia nera, sbottonata. Aveva addosso parecchi piercing e la sua testa era rasata su una tempia. Gli occhi erano neri e rossi e il suo corpo era letteralmente coperto di tatuaggi; uno in particolare, suo collo, citava in lettere greche un epigramma di Marziale: Nec possum tecum vivere, nec sine te.
Kamui storse istintivamente il naso alla scritta: per quanto fosse un dettaglio insignificante nella vita quotidiana, la sua formazione da classicista non gli permetteva di far finta di nulla quando vedeva un’omega utilizzato in luogo di una ‘v’ o di un digamma. Fu solo un momento, poi sorrise cordialmente.
“Uta”, rispose il mezzosangue porgendogli la mano destra, “ne è passato di tempo.”
Dopo essersi scambiati una stretta amichevole di mano, si sedettero in mezzo allo studio e parlarono per un po’ del più e del meno mentre il ghoul spiluccava degli occhi, uno spuntino macabro a cui Kamui non dava troppa importanza. L’aveva conosciuto tempo prima, quando non era in condizioni di permettersi un alloggio, e lui e Itori si erano offerti di aiutarlo a patto che lavorasse all’Helter Skelter. Poi la situazione era precipitata, si erano persi di vista e non avevano più avuto contatti.
Arrivati al punto, Kamui affermò di aver bisogno di una maschera nuova, al che Uta si mostrò parecchio interessato. Senza scendere nel dettaglio, il mezzosangue gli spiegò come si fosse procurato la maschera che ora aveva perduto. Quando Uta gli chiese se avesse preferenze sul design, Kamui si lasciò sfuggire che da ragazzino aveva apprezzato parecchio le maschere di Leatherface, l’assassino di Non aprite quella porta. Dopo aver preso le misure, il ghoul gli comunicò che il prezzo sarebbe stato stabilito a maschera conclusa e che poteva anche andare a sbrigare altre faccende. L’altro ringraziò il ghoul del tempo che gli aveva dedicato e tornò all’aria aperta che non gli era mai sembrata così pulita.
Avendo finito i suoi giri per quel giorno, decise di andare a scusarsi con il cameriere che aveva dovuto coprire il suo turno. Starnutì; di solito, quando succedeva, stava per accadere qualcosa di fastidioso.
Al RE Kamui fu salutato da una voce maschile.
“Salve, come posso…” Si interruppe, per poi riprendere divertita: “Ma sei quello che si è sentito male! Non vedevo Touka così incazzata da anni! Cos’hai fatto?”
Dietro il bancone non c’era niente meno che Nishiki Nishio, lo stesso che era venuto non troppo tempo prima a prendere un caffè con la sua ragazza. L’uomo più vecchio immaginò che l’impegno importante di cui aveva sentito fosse con lei. Alzò un sopracciglio, sorpreso dall’improvviso cambiamento nell’atteggiamento del ghoul verso di lui rispetto a quando si erano incontrati per la prima volta. Si mise una mano sulla nuca e sorrise.
“Ecco, in realtà è una lunga storia. Piuttosto”, si sedette al bancone, “sono venuto a scusarmi per il disturbo. Ho sentito che avevi degli impegni e che hai dovuto rimandarli.”
Nishio si dedicò a pulire dei bicchieri e gli rivolse un ghigno genuinamente divertito. “Non preoccuparti. Quando lei è così è sempre divertente ronzarle intorno.” Indicò Touka, che mentre portava le ordinazioni al bancone li fulminò entrambi con un’occhiata. Nishio sghignazzò. Kamui, leggermente a disagio, pensò che avrebbe dovuto mettere le cose a posto con la ragazza, ma sarebbe stato abbastanza difficile dopo la loro discussione della sera prima. Sospirò e si alzò.
“Mi sono ricordato di aver lasciato una cosa di sopra”, si giustificò in fretta, e salì le scale. Nella stanza ormai familiare in cui aveva dormito, trovò subito l’oggetto che cercava: il libro che Eto gli aveva consegnato nel loro ultimo - e abbastanza traumatico - incontro.
Salito nel suo monolocale, fissò la copertina. Non poteva credere di star prendendo davvero in considerazione di leggerlo. In fondo, nulla lo legava più a quella donna. Quando era stato più giovane, aveva adorato leggere, oltre ad essere un appassionato di cinematografia. Il suo autore preferito era stato Lovecraft, che con le sue storie dell’orrore l’aveva stregato, da ragazzino. Ironia voleva che il suo racconto preferito fosse stato Il modello di Pickman, in cui la componente orrorifica erano dei dipinti raffiguranti degli esseri demoniaci che si infiltravano nella vita quotidiana per uccidere e mangiare. Dei ghoul.
Ma avrebbe dovuto saperlo, lui, che come Lovecraft stesso aveva scritto ne La casa sfuggita, è raro che l’ironia manchi anche negli orrori più grandi.
Fece il passo decisivo. Aprì il volume.


Author's corner:
Stavo pensando che sono già passati tre mesi e mezzo dall'ultimo capitolo. Di questo passo finirò nel 2019, credo. O comunque, più o meno fra qualche anno. I blocchi sono sempre più frequenti e di questo capitolo non sono neanche del tutto soddisfatto, ma è stato quanto di migliore sia venuto fuori dalla mia tastiera in una notte passata a battere, cancellare, integrare, cambiare e a mordermi le mani. Detto ciò, magari le festività mi porteranno consiglio e - si spera - una ventata di ispirazione. Nel frattempo, posso sempre buttare il naso fra le pagine di un buono scritto filosofico e tirarlo fuori quando sarò troppo stanco per connettere fra loro le parole.
No?

T.R.
   
 
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