Capitolo 22
Non verrò
Quella mattina la
Prefettura di Kanagawa si era risvegliata sotto una spessa coperta di neve, ma
neppure quella sembrò fermare Kaede Rukawa dal prendere la bicicletta e
rischiare di ammazzarsi – e ammazzare – ripetutamente lungo la via del liceo. Come
da copione parcheggiò sopra il Do’aho, già incacchiato nero contro Kiyota per
aver fatto passare una notte insonne alla sua amata sorellina. Un po’ per
vendetta, un po’ per risollevare il morale alla sua Hicchan, iniziò a sparare
palle di neve contro il Volpino, che non poteva non difendersi di fronte a
quell’attacco, e ben presto entrambi si ritrovarono fradici e congelati.
Hime, però, li aveva
sorpassati senza quasi vederli e aveva già raggiunto la sua aula, lasciandoli
di stucco. I due si scambiarono un’occhiata preoccupata, ma entrambi giunsero
alla stessa conclusione senza aprire bocca. Il giorno dopo avrebbero fatto il
culo alla Scimmia e alla sua squadra del cavolo. Poco ma sicuro.
«Ma che ha?», domandò
Ayako, che aveva assistito alla scena con Ryota.
«Lo stronzo l’ha mollata»,
fece Kaede, più freddo del solito.
«Chi? Il tizio del
Kainan?», esclamò Araki, comparendo dal nulla con un sorriso da orecchio a
orecchio. «Ma è una notizia fantastica! Finalmente ho la strada spianata verso
la vittoria!».
Il calcio che si beccò
dagli eterni nemici/amici fu memorabile e gli pregiudicò la possibilità di
sedersi per il resto del mese.
«Che cazzo ti dice il
cervello?», sbraitò il rossino. «Stiamo parlando di mia sorella e sta
soffrendo! Osa nuovamente gioire della cosa e la prossima volta ti ammazzo
davvero!».
Nessuno ebbe il coraggio
di contraddirlo o di farlo calmare. Hanamichi Sakuragi che difendeva la sorella
era persino più spaventoso del Gorilla che proteggeva il buon nome del basket.
Imbronciato e depresso,
si ficcò le mani in tasca per raggiungerla. Con lui Mito e gli altri, che quel
giorno non si azzardarono a sparare cazzate. Erano preoccupati tanto quanto lui
– e non volevano assolutamente collezionare testate che, con molta probabilità,
li avrebbero spediti all’ospedale senza troppe cerimonie.
La trovarono seduta al
suo banco, quaderni e libri già aperti sotto il naso e gli occhi che leggevano
febbrilmente gli appunti della settimana prima. Hime era fatta così: quando
qualcosa non andava a dovere, si buttava a capofitto su qualsiasi cosa pur di
non pensarci, che si trattasse dello studio o del basket. Riempiva talmente
tanto le sue giornate che il più delle volte arrivava a sera inoltrata sfinita,
e crollava addormentata senza neppure avere le forze di riflettere. Il ché era
un bene, da un certo punto di vista.
L’Armata prese posto in
silenzio, sotto lo sguardo attonito dei loro compagni di classe che non li
avevano mai visti così tranquilli – e soprattutto così puntuali. Persino
Yoshikai, nel vederli seduti e taciturni ai loro banchi, per poco non tirò
fuori i fuochi d’artificio per dichiarare festa nazionale fino all’anno nuovo.
Quella giornata di
lezioni trascorse così lentamente che più volte ebbero la brutta sensazione di
qualcuno che portava indietro le lancette dell’orologio. Hana e Yoehi passarono
il tempo a scambiarsi bigliettini su Hime e sulla vendetta che si sarebbero
presi il giorno dopo durante la partita, ma neppure quei gloriosi piani di
rivalsa sembrarono fargli tornare il buon umore.
“A parte umiliarlo sul campo, che hai intenzione di fare con quel Kiyota?”,
scrisse Yoehi, lanciandogli il foglietto piegato.
Hana lo afferrò al volo,
senza farsi vedere dal professore. “Riempirlo
di botte, mi sembra ovvio!”.
“Hime non te lo perdonerebbe, lo sai”.
“Lo farei sembrare un incidente. Magari posso pagare la Volpe per
metterlo sotto con la bicicletta. Immagino sarebbe felice di farmi almeno
questo favore”.
“A proposito di Rukawa, dici che ora si farà avanti?”.
“Gli stacco la testa a morsi se solo osa farlo! La mia Hicchan non si
tocca per almeno altri dieci anni!”.
Yoehi si passò una mano
in viso, per soffocare una risata. Sarebbe stata dura, molto dura per Hime e
qualsiasi altro pretendente combinare qualcosa, con quel demente di fratello
possessivo!
Purtroppo Yoshikai aveva
notato l’andazzo nei banchi in fondo all’aula e stava per sbraitare loro di
andare in corridoio, se non fossero stati graziati dal soave suono della
campanella. Okusu ebbe persino l’ardore di sorridere e salutare con una mano
l’insegnante, che ribolliva di rabbia e se ne andava in sala professori
borbottando come una teiera e promettendo tremenda vendetta.
L’Armata tirò un sospiro
di sollievo e spostò come di consueto i banchi con un gran fracasso, per
mangiare tutti insieme. Il tempo di pranzare all’aperto era ormai un ricordo.
Hanamichi scoccò
un’occhiata alla sorella, che aveva tolto fuori il suo bento ma lo guardava con
indecisione. La vide scuotere il capo e pizzicare un po’ di riso con le
bacchette.
«Programmi per il dopo
allenamenti?», domandò Mito, dopo aver ingoiato.
«Capatina al Bar America,
direi», annuì Takamiya. «Ho proprio voglia di un paio di crepes al cioccolato».
«E ti pareva».
«Hicchan, ti va?»,
domandò timidamente il rossino, forse temendo la risposta. «O preferisci pachinko? O... o una partitella tu e io?».
Lei fece cenno di
diniego. «Ci sono le prove per il concerto e devo organizzare alcune cose con
la zia di Sana. E poi devo studiare, ho trascurato fin troppo ultimamente».
«Tu che trascuri lo
studio è credibile come Hanamichi fidanzato con la sorella del Gorilla ahaha– ahia! Eddai, scherzavo!», aggiunse Noma,
accarezzandosi la fronte arrossata dalla testata di Sakuragi. «Come sei
permaloso».
Hime abbozzò un sorriso,
che però non durò molto. «Hana, finisci tu il mio bento? Non ho molta fame».
«Hicchan, non hai quasi
mangiato. E non hai fatto neanche colazione! Non ti fa bene!», esclamò il
fratello, tremendamente preoccupato. Dannato quel Kiyota e il giorno che
l’avevano incontrato!
«Posso finirlo io, se
Hanamichi non vuole!», si propose il solito Takamiya, che non poté non ricevere
anch’esso una colossale testata per la sua totale mancanza di cervello.
«Tieni pure, Taka-chan», gli sorrise lei, rimettendo i libri in borsa e
alzandosi. «Passo un attimo in biblioteca, ci vediamo dopo». E, dato un bacino
al numero 10 sempre più attonito e salutati gli Altri, lasciò l’aula di gran
fretta.
«Lo ammazzo sul serio,
quello stronzo», sibilò Hanamichi e mai come quella volta fu più serio. «Lo
avevo avvisato di trattarla bene e io stupido ad aver creduto che fosse sincero
quando me lo assicurò!».
Mito sospirò, da una
parte capendo la rabbia dell’amico e provando lo stesso prurito ai pugni, ma
dall’altra conosceva Hime come le sue tasche per sapere che, nonostante tutto,
non avrebbe permesso che si pestassero.
«Dai, Hana, magari hanno
solo bisogno di qualche giorno prima di chiarirsi».
«E cosa devono chiarire?
L’ha mandata al diavolo e le ha detto di fargli schifo, c’è qualcosa da
chiarire? Non mi sembra proprio».
«Io direi di fare così»,
fece Noma. «Domani in partita fai finta di cadergli addosso per sbaglio, magari
cercando di fare una schiacciata delle tue, e te lo levi dalle palle. Tanto non
ti riesce difficile travolgere il Re delle Scimmie, figurarsi quel nanerottolo,
no?».
Okusu, Noma e Yoehi si
scambiarono un’occhiata divertita, ma evitarono di ridergli in faccia. Non
volevano essere la valvola di sfogo di Hanamichi Sakuragi, incacchiato com’era!
*
Kiyo fece cadere la
borsa dell’allenamento sul parquet, seccata. Haruko, che osservava i ragazzi
correre avanti e indietro mentre facevano circolare la palla, sobbalzò per la
sorpresa di ritrovarsela accanto. «Kobayashi-san!».
«Akagi-kun, scusami. Non volevo spaventarti».
«N-no, non preoccuparti.
È che ero concentrata su– su–».
«Su Rukawa, lo so».
Haruko arrossì
furiosamente, coprendosi le guance con le mani. «Oh no, si vede davvero così
tanto? Dici che se n’è accorto?».
Kiyo ghignò. «Quello non
si accorge nemmeno delle macchine quando è in bici, figurati». Fece scorrere lo
sguardo sul campo e vide Mitsui in piedi accanto ad Ayako e al Gorilla, immersi
in una fitta conversazione. Non fu difficile immaginare di cosa stessero
parlando, vista l’importanza della partita del giorno dopo.
«Ehi, Kiyo-san!», fece
la voce squillante di Hime Sakuragi, il cui sorriso però non raggiungeva gli
occhi solitamente sereni. «Niente allenamenti oggi?».
«Manutenzione
straordinaria delle vasche. Si è rotto un filtro e sembra di nuotare in uno
stagno».
«Eww», fu l’intelligente commento
della seconda manager. «Quindi come farete?».
«Oggi si salta, domani
si andrà alla piscina pubblica. Oh gioia». Hime e Haruko ridacchiarono. «I
bestioni come sono messi per domani?».
«Vinceremo, ne sono
sicura!», si esaltò la sorella di Akagi. «Sarà una bella rivincita per noi. Nell’ultima
partita ufficiale abbiamo perso per pochissimi punti».
Kiyo annuì. «Il tuo
ragazzo gioca per il Kainan, no? Sarà dura per te tifargli contro».
Hime perse colorito e
fortunatamente alle sue spalle c’era un panca, altrimenti sarebbe caduta
rovinosamente sul sedere, dato che le gambe smisero di funzionare.
Il tuo ragazzo...
Sentì gli occhi
pizzicarle prepotentemente e mai come allora ringraziò il putiferio che suo
fratello e Kaede stavano scatenando in campo, spostando l’attenzione su di
loro. Approfittò del momento di distrazione per fuggire verso gli spogliatoi e
si richiuse la porta alle spalle, prendendo profondi respiri spezzati dai
singhiozzi.
“Il mio ragazzo...”.
Si fece cadere per
terra, stringendosi le gambe al petto, e pianse. Le lacrime versate il giorno
prima e quella notte, tra le braccia di Hanamichi, non erano ancora terminate,
ma lei era già sfinita. Non erano trascorse neppure ventiquattro ore ma
sembravano mesi da quella discussione da dimenticare. Non avrebbe mai
immaginato che amare potesse essere così penoso.
Sarebbe mai passato quel
dolore al petto e quella terribile voglia di rinchiudersi in camera per non
uscirne più? Di certo sapeva che il giorno dopo avrebbe fatto esattamente così.
Non sarebbe andata alla
partita, non ce l’avrebbe fatta.
Se il solo pensare a lui
le succhiava via tutte le forze dal corpo, non osava immaginare come avrebbe
potuto reagire nel vederselo a pochi metri di distanza. Non voleva vedere
l’odio nei suoi occhi, né assaporare tutto il veleno di cui le sue parole erano
impregnate.
No, non ce l’avrebbe
fatta.
«Hime? Hime, va tutto
bene?», domandò la voce di Ayako oltre la porta, che l’aveva vista scappare
quando si era voltata per chiederle aiuto con quei due dementi di Sakuragi e
Rukawa. Dopo quello che aveva scoperto quella mattina sulla sua rottura con
Kiyota, non fu difficile immaginare che non stesse trascorrendo un bel momento.
«Hime, per favore, fammi entrare. Non vorrai che Sakuragi si accorga della tua
assenza? Sai com’è tuo fratello, quando si tratta di te».
Con un sospiro, Hime si
alzò sulle gambe malferme, asciugò le lacrime sull’orlo della maglia di Kobe Bryant
– così spaventosamente simile a quella del Kainan da fare male – e aprì la
porta. Ayako vi si intrufolò subito, richiudendosela alle spalle e guardandola
con preoccupazione. L’abbracciò senza dire una parola e Hime non poté frenare
il nuovo attacco di pianto che la colse con violenza. Si aggrappò all’amica
come se fosse la sua unica ancora di salvezza e Ayako la consolò come meglio
poteva.
Era già accaduto che la
prima manager la facesse sfogare sulla sua spalla, solo qualche mese prima
durante il famigerato ritiro, e sempre per colpa di Kiyota e di qualche
fraintendimento. Per fortuna tutto si era risolto dopo pochi giorni e i due
avevano iniziato a frequentarsi. Non sapeva con esattezza cosa fosse successo
questa volta, ma aveva la sensazione che non sarebbe stato affatto facile farli
riappacificare.
«Crede che stia con
Kaede. O che comunque sia innamorata di lui», mormorò Hime tra le lacrime.
Ayako le accarezzò i
capelli rossi, sospirando. «E ha ragione?».
La Sakuragi le si
allontanò il giusto per guardarla in viso, con espressione inorridita. «No!
Certo che no! Io sono innamorata di... di
lui, anche se in questo momento mi riesce più semplice odiarlo».
«Tu non– non sei
innamorata di Rukawa? Sicura, Hime?», chiese la prima manager, decisamente
perplessa. «Insomma, dopo tutti i nostri discorsi, mi era parso di capire
che... insomma, che ti piacesse più di un amico».
«Aya-chan, hai avuto
l’impressione sbagliata, credimi. La mia paura era che fosse lui a essere
innamorato di me, ecco», borbottò Hime, arrossendo. La sola idea aveva ancora
il potere di farla arrossire come una bambina colta con le mani nel barattolo
di marmellata.
Ayako si portò le mani
alle labbra, fallendo miseramente nel nascondere lo stupore. «Quindi tu non–».
«No. E questo lo sa
anche Ede».
«Ah sì?».
Hime annuì,
raccontandole del lungo e imbarazzante discorso del giorno prima tra lei e il
suo migliore amico. Ayako non riusciva a credere a ciò che sentiva. Avrebbe messo
entrambe le mani sul fuoco da quanto fosse convinta che quei due si amassero e
che Hime l’avesse finalmente capito. Invece era lei a non aver compreso una
beata mazza. «Dei miei, sto perdendo colpi».
L’altra trovò la forza
di ridacchiare, mentre asciugava le guance dalle lacrime. «Credo proprio di sì».
«Credo che alcune
spiegazioni siano doverose, allora».
Hime annuì e si
sedettero su una panca. Le raccontò di come Nobunaga le avesse praticamente
chiuso il telefono in faccia il giorno della partita contro il Miuradai, dopo
che aveva scoperto dovesse vedersi con Rukawa anziché stare con lui; di come
l’avesse evitata per giorni interi, finché aveva deciso di prendere in mano la
situazione e andare a stanarlo in casa; fino alla discussione che voleva
dimenticare, ancora così vivida da sentire nelle orecchie la vibrazione della
voce nera di lui. «Non è servito a nulla spiegargli che si sbagliasse, mi ha
completamente tagliata fuori e io– io non ho più avuto la forza di ribattere,
perché che senso aveva tentare di far ragionare un muro?». Strinse i pugni
sulle cosce, gli occhi ancora una volta lucidi. «L’ho perso davvero e non so
neanche io perché né come rimediare».
«È geloso, questo lo si
era capito da tempo. Ed è evidente che la sua gelosia lo abbia portato a vedere
cose che non esistono... anche se, ripeto, io avrei scommesso che ci fosse una
tresca in corso tra te e la Volpe».
«È ridicolo. E io ho
sempre avuto fiducia in lui, perché non poteva fare altrettanto?».
«Magari se gli dai il
tempo di sbollire un po’ la rabbia, sarà più semplice farlo ragionare».
Hime scosse il capo. «È
una persona maledettamente orgogliosa, l’ho già provato in passato. Crede che
l’abbia tradito e lui non perdona un affronto simile... non sarà facile per
niente. Non sono neanche sicura di voler tentare e ritrovarmi nuovamente la
porta di casa sul naso». Asciugò ora con rabbia le lacrime, stringendo
impettita le labbra. «E non ho intenzione di rinunciare a Kaede per
accontentarlo. Che vada al diavolo, se è questo che vuole».
Ayako sospirò,
maledicendo quell’idiota in tutte le lingue conosciute. «Facciamo un passo alla
volta, ok? Domani dovrai rivederlo per forza di cose e–».
«No, non verrò», la
interruppe l’altra. «Non verrò alla partita. Ho già parlato con l’allenatore
Anzai e ti assicuro che userò il mio tempo in modo migliore. Ma non verrò alla
partita. Non ce la faccio».
«Hime, non puoi superare
gli ostacoli evitandoli!», s’infervorò la prima manager, alzandosi dalla panca
e fronteggiandola. «L’Hime Sakuragi che ho conosciuto e che mi è sempre
piaciuta affrontava i problemi a testa alta e rispondendo a tono, non si
nascondeva! O mi stai dicendo che sei una codarda?».
«Forse sì!», ribatté quella
con la stessa enfasi. «Forse sono davvero una codarda o forse sto facendo un
favore all’intera squadra non presentandomi in panchina, dato che avrei lo
stesso entusiasmo di un tavolo!».
Purtroppo per lei le sue
parole vennero udite dai ragazzi, che avevano terminato gli allenamenti anche
senza la presenza delle loro manager, e la reazione di Hanamichi fu la
peggiore.
«Hicchan! Cosa diavolo
stai dicendo?! Tu domani verrai!», sbraitò il numero dieci, più rosso dei suoi
capelli, dopo aver spalancato con forza la porta. Persino l’imperturbabile
Rukawa sembrava stupito dalla decisione della sua migliore amica.
«Hana, ti prego, non
insistere».
«Insisto eccome! Abbiamo
bisogno di te, Hicchan! Ho bisogno di
te!».
Hime scosse il capo,
afferrò la sua borsa e se la mise in spalla. «Devo andare ora, Sanako mi
aspetta per le prove. Ci vediamo a casa, Hana».
«Hicchan, non andartene
così!», esclamò il fratello, che allungò una mano per fermarla. Fu più lesta e il
rossino l’avrebbe di certo seguita se non fosse stato per Kaede che lo afferrò
per la maglia e lo tirò indietro.
«Lasciala andare. Le
parlerai più tardi con calma».
Hanamichi fu tentato di
pestarlo per levarselo dai piedi e raggiungere la sorella, ma annuì, tra lo
stupore generale. Hime sarebbe tornata a casa, prima o poi, non avrebbe potuto
scappare per sempre. E allora l’avrebbe placcata e convinta per bene. Non
poteva assolutamente pensare di lasciarli in asso così, per una partita che
aveva il sapore di una finale, invece di una semi. Non glielo avrebbe potuto
perdonare. Lui aveva bisogno della sua Hicchan, come tutti gli altri.
E lei aveva bisogno dei
suoi amici per superare la brutta faccenda.
*
«Ho combinato un casino,
vero?».
Mitsui osservò la sua
ragazza di sbieco, abbozzando un ghigno. «Uno dei tanti, sì».
Kiyo sbuffò,
sinceramente dispiaciuta. Se solo si fosse fatta i fattacci suoi! Quella era
l’ennesima prova che lei e i rapporti sociali erano cane e gatto. Non sapeva
tenere su una discussione senza fare gaffe, era risaputo – quelle con Sana non
facevano testo, dato che tra le due era l’amica a collezionarle una dopo
l’altra.
«Non pensarci troppo,
non potevi saperlo», cercò di rassicurarla Hisashi, accompagnando le parole con
un buffetto sulla guancia. «Nemmeno io ne avevo idea».
La ragazza si strinse
nelle spalle. «Vedi di non ridurti come lei, nel caso dovesse andare male».
Dopo un primo momento di
smarrimento, il cestista scoppiò a ridere alla sola idea. «Conoscendoti, potrei
solo festeggiare!».
«Ah, sì? Ma bene, inizia pure», sbottò con
falsa indignazione la ragazza, che si mise la sacca dell’allenamento in spalla
e si avviò velocemente verso l’uscita.
Hisashi ghignò,
affrettandosi, nei limiti del possibile, a seguirla. Purtroppo quel diavolo di
ragazza che si ritrovava, allungò il passo, lasciandolo indietro e in visibile
difficoltà.
«Ehi, strega! Aspettami!»,
esclamò, borbottando maledizioni tra i denti a quello stronzo di Toshiro che
l’aveva ridotto così, ancora una volta in stampelle e impossibilitato a giocare.
«Vedi di non ammazzarti»,
lo rimbeccò lei, senza rallentare. «Lumaca».
«Donna, sappi che prima
o poi queste stampelle dovrò lasciarle a casa, e allora te la farò pagare», la
mise in guardia il giocatore di basket. «Oh, se te la farò pagare».
«È una minaccia?»,
domandò Kiyo, voltandosi a guardarlo.
«No. Una promessa».
Il sorriso sghembo che
gli increspò le labbra e le implicazioni che quello sguardo nascondeva la
fecero arrossire come una ragazzina alla prima cotta. Scacciò scomode immagini
dalla mente con una scrollata di spalle. «Che fai, torni a casa?».
«Prima riaccompagno te».
Kiyo si morsicò un
labbro. «Non abito lontano, lo sai. Non è il caso che ti affatichi per niente».
«Mi sentirò molto più
tranquillo sapendoti al sicuro».
«Quello lì non può farmi
più niente... per il momento».
Hisashi strinse i denti.
«Ma non sappiamo quando uscirà di galera».
«Oh, beh, allora se
anche dovessimo incontrarlo, come pensi di difendermi?», domandò Kiyo, prima
che potesse fermarsi. «Lo tramortirai con una stampella?».
Mitsui fermò i passi
malfermi, guardandola storto e sentendosi una nullità, per la prima volta dopo
mesi. Aveva ragione, non avrebbe potuto difenderla da un altro assalto, non con
il ginocchio in quelle condizioni. Non poteva neanche giocare, per colpa del
dannato menisco. Non serviva a niente, in quel momento. Era solo un peso.
«Oh, no, non pensarci
neanche per un istante», lo rimproverò Kiyo, avvicinandosi a lui e riconoscendo
quello sguardo furioso con se stesso e demoralizzato. Era lo stesso che gli
aveva visto l’anno prima, quando lei era ancora una matricola in vista della
bocciatura, e lui, tra una scorribanda e l’altra, si faceva vedere a scuola. «Non
ti permetto di ricaderci, dovessi pestarti per fartelo capire!». Hisashi sgranò
gli occhi, ma lei non si scompose affatto. «Hai un passato che ti ha insegnato
a non arrendersi mai, no? Continui a ripeterlo ogni volta che qualche tuo compagno
perde speranza e sei il primo a dover seguire i tuoi consigli, se vuoi che lo
facciano anche gli altri. E, beato te!,
hai così tanti amici pronti a sostenerti in momenti come questi. Hai me. Non ricaderci, Mitsui, o giuro che–».
Sentì un rumore metallico
contro il lastricato del cortile liceale, ma tutto svanì nel momento in cui le
sue labbra vennero baciate da quelle fameliche di lui, che aveva abbandonato le
stampelle sui fianchi e aveva usato le mani per avvicinare il viso al suo. Kiyo
lasciò cadere la sacca dell’allenamento e lo abbracciò con forza, ricambiando
quel bacio rude e infuocato del numero 14, che sapeva di gratitudine e sorpresa
per quelle parole pronunciate con così tanta intensità. Ogni dubbio, ogni
paura, ogni pensiero negativo, vennero affogati tra le labbra, tra sospiri, tra
carezze.
Fu solo quando udirono i
fischi entusiasti di quei due dementi di Hanamichi e Ryota, che furono
costretti a fermarsi – e forse fu meglio così, viste le pupille dilatate e il
respiro accelerato di entrambi.
«Dove diavolo state
andando?», domandò con falsa indifferenza Hisashi, notando che si stessero
avviando verso l’aula magna.
«Prove del concerto di
fine anno», fu l’allegra risposta di Kimi, che si rigirò le bacchette da
batterista tra le dita affusolate. Miyagi, al suo fianco, non pareva ugualmente
felice della cosa e, se non fosse stato per Ayako che, a quanto pareva, ci
teneva più della sua stessa vita che suonasse a quel dannato spettacolo,
avrebbe già spaccato il suo strumento musicale in testa a quella pazza della
signora Tsukiyama e agli scemi dei suoi amici che ancora lo sfottevano per il
fatto che suonasse il basso.
«E tu cosa vai a fare?»,
continuò l’interrogatorio Mitsui, rivolto al rossino.
«A sfottere il Capitano,
mi sembra ovvio!».
Appunto.
Ryota però non diede
segni di irritazione. Come amava ricordarsi, lui era il Capitano. E avrebbe avuto la sua dolce vendetta ai prossimi
allenamenti.
«E a tenere d’occhio
Hicchan», aggiunse in un borbottio Hanamichi. «Ho la brutta sensazione che tenterà
di dormire a casa di qualcuno, pur di non dovermi parlare», aggiunse, scrutando
Ayako in cerca di conferme.
Questa scosse il capo. «Non
mi ha chiesto niente, e anche se dovesse, non accetterei. Anche perché se c’è
qualcuno che può convincerla a venire alla partita sei proprio tu, Sakuragi».
Hanamichi arricciò il
muso, ficcandosi le mani fredde in tasca. «Non ne sono tanto sicuro».
«Do’aho, sai fare solo
una cosa. Vedi di farla bene», fu l’ultimo saluto di Rukawa, che si allontanò
dal gruppo con un vai e ammazzati che
lo seguì fino a casa.
*
Hime strinse le labbra,
mentre osservava i ragazzi della band ritirare i loro strumenti e avviarsi pian
piano verso casa. Sentì il pesante sguardo del fratello perforarle la nuca e
sospirò. Le aveva tentate tutte, pur di non affrontarlo. Aveva chiesto ad Ayako
di dormire da lei, a Sanako, persino alla ragazza di Mitsui con cui non aveva
alcuna confidenza – e che si era persino scusata per la triste uscita di poco
prima –, ma nessuna pareva avere posto in casa per lei. Pareva una congiura.
Prese un bel respiro,
conscia che non avrebbe potuto scappare neppure tardando la stesura di appunti
che non doveva prendere, in quel taccuino che sputava solo “Kiyota ti odio, Kiyota ti odio”. Alla
faccia del mi riempio di cose da fare per
distrarmi.
Accidenti a lui.
«Hicchan, andiamo a
casa? Sto morendo di fame!», si lagnò Hanamichi, che in realtà aveva lo stomaco
chiuso per la partita del giorno dopo e per lo stato emotivo della sorella.
«Perché non inizi ad
andare, Hana? Ti raggiungo tra un attimo, devo ancora finire un paio di cose e–».
Il taccuino le sparì da
sotto il naso e Hanamichi le rifilò un’occhiataccia che raramente gli vedeva in
volto – se non prima di una rissa. «Andiamo a casa, Hicchan».
Con uno sbuffo neppure
tanto celato, la seconda manager si alzò con pesantezza, ritirando le sue cose
e salutando gli ultimi rimasti. Il tragitto verso casa fu insolitamente
silenzioso, privo delle scemenze che solitamente quei due sparavano, pur di
dare fiato alla bocca. Erano poche le volte in cui era successo, soprattutto
era raro che avessero discussioni serie. Non litigavano quasi mai, se non per
futili motivi e per meno di cinque minuti – dato che nessuno dei due amava non
parlare all’altro per così tanto
tempo.
Quella volta, però, Hime
l’aveva combinata grossa, nonostante avesse tutte le ragioni del mondo, e
sapeva che Hanamichi non l’avrebbe perdonata se il giorno dopo non fosse stata
presente in panchina. Ma come avrebbe potuto trovare la forza di farlo e di
affrontare Kiyota come se la cosa non le lacerasse il cuore?
La casa li accolse buia
e silenziosa, segno che la madre fosse ancora in ospedale. Hime tentò la fuga
verso il bagno, per rinchiudersi dentro finché Hanamichi non fosse crollato
dalla stanchezza, ma il fratello aveva altri piani per la testa. La prese per
un polso prima che potesse filarsela e la costrinse a sedersi sul divano
accanto a lui.
«Hana, chiudiamola
subito qui, ok? Non verrò alla partita. Non ce la faccio», esordì Hime, tenendo
gli occhi bassi. «Ho intenzione di andare... di andare a controllare la partita
tra Ryonan e Shoyo, per studiarli un po’. C’è quel Daichi Anami da tener
d’occhio, ricordi? Anzai-sensei è già al corrente
della cosa e sarei davvero più utile così. È uno dei miei compiti, no? Cercare
di capire gli avversari e–».
«E a cosa servirà?», la
interruppe Hanamichi, lo sguardo duro su di lei. «Mitchi non gioca, tu non ci
sarai a sostenerci insieme a lui e Ayako, farò schifo e perderemo. Cosa serve
andare a studiare avversari contro cui non giocheremo?»
«Hana, non farai schifo
solo perché non ci sarò. Tu sei il giocatore che sei perché stai mettendo anima
e corpo in quello che fai, non certo perché una scema come me si mette a
gridare oscenità dalla panchina per spronarti».
«E invece sì!»,
s’inalberò il ragazzo. «Hai idea di cosa significhi per me averti lì? Poterti
guardare e ricevere un tuo sorriso di incoraggiamento? Tu non capisci quanto tu
sia importante per me, Hicchan. Anche quando sono in campo».
Come la piagnucolona che
aveva scoperto di essere in quei due giorni, Hime scoppiò in lacrime e
abbracciò il fratello, commossa e tremendamente in colpa per il suo egoismo. Aveva
dato per scontato che avrebbe capito i suoi motivi e l’avrebbe supportata nella
sua scelta di stare lontana da Nobunaga. Del resto, era normale tentare di
evitarlo per soffrire un po’ meno. Ma Hanamichi era la sua metà perfetta ed era
normale che senza di lei si sarebbe sentito svuotato di una parte di sé. Non
ricordava il giorno in cui aveva iniziato ad amare il basket, un amore
incondizionato che non conosceva limiti: ma da quando Hanamichi aveva deciso di
far parte della squadra del liceo, seppur per far colpo su Haruko, le sorti
dello Shohoku e dei suoi giocatori erano diventate fonte di gioia e
preoccupazione. Mai, in quei mesi, aveva perso un allenamento, tanto meno una
partita, per giunta così importante.
«Mi dispiace, Hana-chan», sussurrò tra le lacrime. «Sono una stupida! Ma
davvero, non ce la faccio. È successo solo ieri e... fa così male».
Il ragazzo le accarezzò
i capelli indiavolati, come sempre ritirati nella sua pinza gigante e marrone,
e sospirò. «Lo so, Hicchan, ma pensaci un attimo: è lui in torto, non tu, no? Lui dovrebbe evitare di farsi vedere, non tu. E non hai pensato a quando
perderanno? A quanto sarà esaltante vederli lasciare il campo con la coda tra le
gambe, mentre noi festeggiamo la vittoria? Vuoi che sia lui a esultare o il tuo
fratellino?».
«Ma che domande fai,
Hana», replicò lei, stringendolo forte tra le braccia.
«Allora verrai, sì?».
Hime strinse le labbra,
combattuta. Oh, quanto sarebbe stato difficile sopportare la sua presenza e le
sue provocazioni – sempre che la degnasse di uno sguardo. Hanamichi aveva però
ragione: era lui in torto, non lei. Non aveva fatto nulla di male e poteva
ancora camminare a testa alta. Sì, sarebbe stato difficile, ma avrebbe stretto
i denti e lo avrebbe fatto per suo fratello, per la sua squadra, per i suoi
amici.
E per se stessa.
«Verrò».
Continua...
* * *
Che sofferenzaaaah. La mia adorata
Hicchan. 3
Perdono per il lungo ritardo – blame
my bosses.
Se non dovessi aggiornare nuovamente entro la fine dell’anno,
approfitto per l’occasione per augurarvi un stupendo 2017 – e un felice Natale,
se lo festeggiate.
GRAZIE a caratteri cubitali per avermi seguita tutto questo
tempo, anche durante la mia lunga assenza. Siete m e r a v i g l i o s i / e.
Un forte abbraccio,
la vostra Marta.