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Autore: Kira Novecento    20/12/2016    0 recensioni
L'uomo sorride e fa per andarsene, ma io lo blocco: “Lei sa che un tempo qui c'erano delle rotaie?”
Lui alza un sopracciglio e mi risponde: “Si, ne ho sentito parlare.”
“Un giorno un uomo mi salvò la vita, su queste rotaie.”
Lui sposta il suo sguardo verso il parco, e annuisce alla luce del tramonto.
“Ne è valsa la pena?"
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL TRENO PER NEW YORK Non c'era posto, su quel treno, che non fosse occupato. Non era particolarmente veloce, alcuni dei finestrini erano del tutto scheggiati e un profondo puzzo di sudore e vomito infestava i sedili. Tuttavia nessuno sembrava preoccuparsene. Viaggiavano col cuore a mille, sul treno per New York. Sussultavano ad ogni curva e ridevano di ogni cosa. Era gente semplice, quella. Erano pastori in fuga e figli dei campi; erano signore anziane con la veletta in testa. Avevano le tasche vuote e il cuore pieno di sogni, occhi brillanti fra le rughe profonde e i nasi adunchi. I bambini scorrazzavano, fra quei sedili logori, e speravano anche loro che il ruggito di New York avrebbe potuto risvegliare la loro buona sorte. Per questo a nessuno importava dei sedili sporchi e dei finestrini rotti. A nessuno, tranne che a me. Era l'alba del primo giorno dell'anno 1920 quando varcai la soglia della mia cabina di prima classe. “Dove sono le mie valige?” sbottai. “Nel bagagliaio, Miss Taylor”, mi rispose Connor. “Come faccio a truccarmi e a prepararmi senza le mie valige? Devo incontrare il mio futuro sposo, Connor. Vuoi che scappi non appena scendo dal treno?” Connor ritirò le labbra, nascondendo un sorriso sprezzante. Erano ormai anni che rispondeva in quel modo alle mie moine, ed erano anni che facevo finta di non accorgermene. “Questo è Connor, Lynn. Forza, saluta il nuovo dipendente”, mi aveva detto un pomeriggio di 6 anni prima la mia petulante madre. Io alzai la testa dal mio ricamo, e per la prima volta i miei occhi si posarono su quel bambino dagli occhi chiari e i capelli ribelli, lo sguardo spaventato e i vestiti logori. “Ciao Connor. Io sono Lynn, ma tu puoi chiamarmi Miss Taylor.” Lo salutai altezzosa. Lui mi ricambiò il saluto inarcando un sopracciglio e sorridendomi; e da quel giorno non smise mai di farlo. Appresi più tardi che era il figlio della nuova cuoca, e che questo lo classificava come un dipendente che avrei visto poco, occupato com'era a svolgere tutti quegli strani compiti che si affidano ai bambini. Tuttavia quei compiti, come capii dopo poco, riguardavano quasi sempre me. Mi ritrovai, quindi, a svolgere quasi tutte le mie mansioni ed i miei giochi sotto lo sguardo vigile di Edward George Connor. “Questo treno è di gran lunga il mezzo più sporco che abbia mai visto. Le mie cugine di Long Island sono portate a passeggio solo con le carrozze. E invece guarda me: rinchiusa in una cabina con… be’, con te.” “Non capisco perché sei dovuto venire anche tu”, mi lamentai non appena lo vidi entrare. “Non poteva certamente attraversare tutto il paese da sola, Miss Taylor. E poi, con chi altri avrebbe potuto lamentarsi dello sporco e degli agi che lei non ha?” Mi rispose. Gli lanciai uno sguardo truce e gli ordinai di lasciarmi sola con le mie mille domande. Erano passati tre mesi da quando mio padre mi aveva mostrato la foto di un giovane ufficiale di buona famiglia. “Un eroe di guerra, tesoro mio. È un eroe di guerra.” Non mi ci volle molto per capire che “l'eroe di guerra” era destinato a diventare il mio futuro compagno. Non feci nessuna obiezione. Acconsentii, anzi, con estrema gioia. Pensando a quel momento, cominciai a sentire freddo. Un vento gelido creava una patina di ghiaccio sui finestrini scheggiati. Nonostante questo riuscivo a tracciare con lo sguardo il profilo dei monti innevati. Il freddo sembrava calmare tutto e rallentare il tempo. Io, invece, mi sentivo nel bel mezzo di una corsa. L’imponente figura del futuro mi inseguiva, senza darmi tregua. Strisciava, quel mostro fatto di incertezza e ghiaccio. Le sue mani mi graffiavano la schiena ed io stavo affondando nei miei stessi brividi. Mi attendeva una vita piena di soldi e agi. Cosa avrei dato, in quel momento, per essere una stupida. Non avrei voluto rendermi conto, come invece accadeva, che tutto quello a cui stavo andando in contro mi avrebbe solo distrutto e rinchiuso per sempre nel mio stereotipo di signora newyorkese. Decisi di uscire dalla cabina. Gironzolai sul treno e mi diressi, per qualche motivo, nella terza classe. Persone di tutte le età si ammucchiavano nei vagoni dando vita ad una caotica ed esotica musica. Quanta differenza fra ricchi e poveri! Sapevo che a Connor non sarebbe piaciuto, così come sapevo che l’avrei trovato lì. Mi fece un cenno con la testa, come aveva fatto anni fa per portarmi in un giardino segreto. “Vuole vedere qualcosa di davvero mozzafiato, Miss Taylor?”, mi aveva chiesto dopo un pomeriggio passato a non far nulla. Così mi aveva portato nel bosco, lì dove da sola non mi sarei mai recata; ed io lo seguii senza fiatare. Non me ne pentii mai. Non c'erano fiori tinti di arcobaleno né folletti incantati in quell'angolo di bosco. Era la pace, la totale assenza di umanità che faceva di quel posto un altro mondo. “Ti presento il regno di Masin”, mi annunciò fiero. “Il regno di cosa?”, domandai con disappunto, “E da quando ti è permesso di darmi del tu?” Lui piegò laconico la testa di lato e mi spiegò, quasi come fosse lo statuto di una nazione: “Nel regno di Masin, mia cara Lynn, non ci sono né vincitori né vinti. Qui nessuno è superiore all'altro. Non ci sono ceti né titoli, siamo tutti sullo stesso piano.” Iniziai a ridere. “E perché chiedi che io abbia voglia di vedere un posto del genere? Io sono superiore a te.” Lui, stranamente, si unì alla mia risata. “Perché tu, mia cara Lynn, ti nascondi dietro una facciata.” Mi scrutò attentamente, poi continuò: “Lo vedo dalle smorfie che fai ogni volta che qualcuno ti chiama Miss, ogni volta che cerchi di sembrare autorevole.” Avrei potuto farlo licenziare in tronco. Dovevo scappare via e denunciare il disprezzo che avevo visto negli occhi di Connor quel giorno a tutta la mia famiglia. Ma denunciando lui avrei denunciato anche me. Perché quel profondo disgusto che mi invadeva ogni volta che sentivo mia madre parlare della grande fortuna che avevo avuto nascendo in “una delle famiglie più per bene” straripò dai miei occhi e lasciai, senza opporre resistenza, che la maschera che portavo sul viso cadesse rovinosamente sull'erba. Così successe ogni volta che andavamo nel bosco. Quello che succedeva nel regno di Masin rimaneva nel regno di Masin. Lì potevo smettere di fingere di essere Miss Taylor e questo mi rendeva felice, fino a tre mesi prima. Ora avrei voluto essere lì e portare tutti con me. Avrei voluto ascoltare i bimbi che cantavano nel bosco, mentre mi dirigevo verso la mia cabina insieme a Connor. Avrei voluto smettere di avere un posto privilegiato ed essere lì in mezzo a loro; e invece chiudevo la porta. Sarebbe stato meglio per me smettere di fingere ed essere nella terza classe, perché fu in quel momento che il treno deragliò. Fu un attimo. Mi ritrovai stesa sul pavimento, intrappolata da una forza che mi spingeva verso il basso. Cominciai a rotolare verso destra e mi schiantai contro la parete di legno. Sentii una fitta alla spalla e cominciai ad urlare, finché vidi cadere verso di me le valige che tanto avevo voluto con me, e che ora erano diventate un'arma. Come ogni cosa in quella stanza. Chiusi gli occhi e aspettai di sentire un improvviso dolore sulle braccia e sul viso, ma l'unica cosa che sentii fu un boato seguito da un gemito di dolore. Connor. Aprii gli occhi. Lo spigolo d’acciaio della valigia era conficcato nella gamba di Connor. Tutta la metà inferiore del suo corpo era incastrata fra le pesanti valigie e il sedile; un rivolo di sangue scendeva a fiotti dalla sua gamba e il suo volto era già bianco come un lenzuolo. Rimasi a fissare incredula quella macchia insanguinata che si allargava. Il sangue fuoriusciva anche dal mio braccio e le schegge dei finestrini rotti erano finite sul viso di Connor e penetrate nel mio petto creando schizzi cremisi che si affollavano sulle pareti come tanti pipistrelli. “Perché?” Chiesi con un filo di voce. “Stai bene?” Gemette Connor dal basso della sua disperazione. Cercai di alzarmi e caddi verso di lui, le ginocchia che graffiavano il legno rotto. Osservai la ferita trattenendo un conato di vomito. “Aiuto!” Gridai. “Sai, non credo ci sentirà qualcuno.” Gattonai fino al bordo del finestrino e mi lasciai cadere all’indietro. Dei dieci vagoni solo il nostro era rimasto, accasciato sul fianco della montagna solitaria. “Il vagone si è sganciato”, sentenziò Connor, annunciandolo più a lui che a me. Mi avvicinai di nuovo a lui, impotente. Il braccio del futuro ci aveva finalmente raggiunto e strappato dalla strada che credevamo di percorre, gettandoci in quell'enorme baratro che era la realtà. “Bentornata nel mondo di Masin, mia cara Lynn”. La decima volta che andai nel bosco, ci entrai piangendo. I miei avevano avuto la brillante idea di organizzare un party. Era andato tutto bene. Fra champagne e scherzi e risate mi ero quasi persa in quel vortice di risate e fischi. Era andato tutto bene. Il disprezzo per quel mondo svaniva ogni volta che parlavo con un simpatico avvocato, ogni volta che un'anziana vedova si avvicinava per parlarmi. Tutto bene, fin quando il vassoio di Connor non cadde e tutto si fermò. Un fiume di champagne e vetri scorreva lungo il pavimento di marmo. Connor fissava terrorizzato Madame Connowey con il suo fiato corto e il vestito di seta bagnato. “Questo vestito costa più della tua vita”, disse. Mio padre si avvicinò con gli occhi spiritati. “Mi dispiace infinitamente Madame. Provvederò subito a ripagarla dei danni” – “Sarà difficile”, borbottò la “Madame”. “E le assicuro anche, Madame…”, continuò mio padre fissando Connor , “che non vedrà più questo ragazzino nella mia casa”. Gli occhi di Connor si abbassarono. Mi bastò vedere il luccichio del suo sguardo, le guance rosse e le mani tremanti per capire tutto. “Ma è malato”, obiettai, “Non vedi che ha la febbre? Lo avete fatto servire lo stesso.” Mio padre mi guardò in cagnesco. “Lynn, ti prego. È solo un servo.” “Ma non è colpa sua, non puoi mandarlo via”, continuai. “D'accordo Lynn, allora per questa sera puoi congedarti assieme al tuo amico.” Corsi nel bosco piangendo. “Non è successo niente, Lynn” Mi tranquillizzò Connor nel bosco. “Niente? Sarò punita per chissà quanto. E tutto questo solo per difendere te.” Lo attaccai. “Be', grazie” Mi disse in un sussurro. E quando vide le lacrime sul mio viso si avvicinò, mi prese le mani e disse: “E se scappassimo da qui? Se andassimo in altro mondo? Là dove sono davvero tutti uguali; Dove non ci sono maschere né facciate. Non sarebbe perfetto, Lynn?” Lo guardai fisso negli occhi. Gli occhi lucidi e pieni di speranza, i capelli scompigliati e l'aria stanca; le mani gelide e la fronte imperlata di sudore. Sarei davvero scappata con lui. Sarei scappata con lui senza sapere neanche dove mi stesse portando. Ma il giorno dopo mio padre mi disse che dovevo sposarmi e io rimasi immobile con un sorriso di plastica ad ascoltare il ruggito della mia coscienza che mi insultava. “Perché?” Chiesi in un sussurro, di fronte alla gamba martoriata di Connor. Lottai contro le valige che non volevano aprirsi, contro i vetri affilati, contro la mia voce e quella di Connor che, nel profondo, sapeva già come sarebbe andata. Mi chiese di controllare le cabine, così mi feci forza e uscii dal vagone cercando di evitare che le schegge di vetro penetrassero anche nelle mie gambe. Il sole del mattino mi colorò il viso, e riuscii a sentire la flebile voce della speranza che parlava soffocata dalla sconfinata landa che mi separava dalla civiltà. Montagne e prati selvatici affollavano l'orizzonte. Sbirciai anche nelle altre cabine, ma alcune erano vuote e di altre riuscivo solo a vedere corpi stesi a terra. Nessun suono. Non potevo chiedere aiuto a nessuno. Non potevo salvare nessuno, neanche me stessa. Mentre rientravo nella cabina e vedevo la pozza di sangue allargarsi provai quel senso di pace che solo la certezza della morte ti può dare. Mi sedetti vicino a Connor per non alzarmi più, e lo guardai a lungo. Non potevo più rimandare quel momento. Lui mi scrutò con gli occhi stanchi e l'anima a pezzi. Mi prese la mano tremando. Fra poco avrebbe perso conoscenza. “L'avresti sposato davvero? Il damerino dico.” Sorrisi. “Forse aspettavo che tu mi fermassi.” “Siamo due testoni, tu ed io. Non saremo mai felici se continuiamo così.” Disse. Cominciai a piangere. “Se io non fossi stata così stupida tu saresti ancora con me.” “Non è il momento dei melodrammi, Lynn” mi chiuse la bocca, “Avrei dovuto rapirti nel sonno, portarti sulle spalle per tutto il viaggio se necessario. Noi dovevamo scappare.” “E dove saremmo andati?” gli chiesi. “Dicono che a Parigi c'è un bar dove il caffè ha il sapore della lavanda, e dove i fiori crescono sulle pareti, senza controllo” “Ma a me non piacciono i fiori” obiettai. “Allora saremmo andati in Italia. C’è una costa dove le rocce scendono a picco sul mare e gli scogli hanno la forma delle colonne. È quasi inquietante.” “Ma a me non piace il mare”, risi. “Allora potevamo andare in India; e se non ti piacciono i colori delle vesti avremmo invaso Notre Dame. E se non ti piacciono i francesi ti avrei portata a Roma a ballare nel Colosseo fino a sera; fino a che tutti i fantasmi dei gladiatori non si fossero svegliati e ci avrebbero fatto il coro.” Mi immaginai a Londra e a Notre Dame, a Mosca e sul Pont Neuf. Sarei andata dovunque. Risi fra le lacrime, e poi gli risposi: “Ma saremmo stati sempre stranieri. Sempre ospiti e mai padroni. È che noi non sappiamo adeguarci alle regole, noi abbiamo bisogno di mondi nostri, di regole nostre.” “Allora lo avremmo creato davvero, questo mondo di Masin?” “Insieme si”, conclusi. Gli tenni stretta la mano e assorbii quel momento. Le nostre mani erano deboli, ma i nostri occhi erano pieni di immagini esotiche, tesori nascosti, terre inesplorate. Così, quando lentamente perse conoscenza, non eravamo più su un vagone distrutto, ma su un nuovo mondo. Tutti i pavimenti erano fatti d'erba e tutte le case erano di marmo bianco. Al centro una piazza su cui ballavamo una danza straniera sulle note di un infinito valzer. Mentre uscivo dalla cabina senza voltarmi indietro, mentre camminavo per miglia con la veste sporca di sangue e il braccio che pulsava mi persi in quella musica e in quel canto, che a distanza di quarant'anni non smetto di sentire. L'erba è così verde che sembra quella di un dipinto, oggi. I fiori di questo parco non sono mai stati così colorati. Chissà se qualcuno, oltre me, sa la storia che si nasconde sotto quest’erba luccicante. Chissà se qualcuno vede il fantasma di una ragazza senza patria in questa vecchia tranquilla che fissa il cielo. Non tornai più a casa. Mi trovarono che vagavo lungo la strada in fin di vita. Dopo due settimane ero a Parigi. Mandai una lettera ai miei genitori e diedi il ben servito all'uomo che avrei dovuto sposare. Non riuscii mai più a fingere. Affrontai la vita con il mio vero volto, anche quando faceva male; anche quando mettere quella maschera che avevo gettato via per sempre mi avrebbe fatto comodo. Di Connor non seppi più nulla. “È tutto apposto, signora?” Un uomo sulla settantina si siede all'ombra degli alberi, sulla mia panchina. “È che la vedevo così immobile, cosa sta guardando?” Mi chiede. “Nulla”, rispondo in fretta. L'uomo sorride e fa per andarsene, ma io lo blocco: “Lei sa che un tempo qui c'erano delle rotaie?” Lui alza un sopracciglio, e mi risponde: “Si, ne ho sentito parlare.” “Un giorno un uomo mi salvò la vita, su queste rotaie.” Lui sposta il suo sguardo verso il parco, e annuisce alla luce del tramonto. “Ne è valsa la pena?", mi chiede. “Si” Rispondo convinta. L'uomo mi fa un cenno col capo e va via zoppicando. Io, invece, sorrido, perché mi rendo conto che a distanza di tutti questi anni non ha ancora imparato a camminare su una gamba finta.
   
 
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