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Autore: PerseoeAndromeda    20/12/2016    4 recensioni
Rimango in attesa: so che, di qualunque cosa si tratti, arriverà da me. Non provo alcuna paura, solo una vaga inquietudine, generata dall'inconsapevolezza e dalla curiosità.
Lo vedo all'improvviso, senza sapere esattamente quando è comparso.
Si tratta di un ragazzo...
[Terza classificata al contest "Scegli un'abitazione e crea una storia" e vincitrice del premio Miglior descrizione]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: La casa di Gabriel
Nickname (sul forum e su EFP): Perseo e Andromeda
Genere: introspettivo
Rating: verde
Abitazione scelta: 4 http://data.whicdn.com/images/252032398/large.png





 
LA CASA DI GABRIEL






 
Riconosco il suono del mare, la prima percezione che colpisce i miei sensi. Vi sono immerso, l'acqua è tutta intorno a me, il sale mi brucia gli occhi.
Eppure respiro.
Perché ciò sia possibile non lo so, non sto soffrendo per quest'immersione che dura da non so quanto tempo. Solo due possibilità mi vengono in mente: o sto sognando o... sono già affogato, quindi tale condizione non può fare più nulla al mio corpo.
La seconda consapevolezza che recepisco è che sto affondando, sempre più giù, mentre provo ad aprire gli occhi, con fatica, fissandoli su un punto, sopra di me, che si sta allontanando, laddove la superficie del mare è scalfita da quella che dev'essere la luce del sole, con i suoi riflessi mobili e cangianti contro lo strato d'acqua: un tetto liquido mai uguale a se stesso, in continuo movimento.
Tendo le mani verso quella luce e scopro di potermi muovere, non sono in completa balia di questo continuo affondare.
Allora, con uno sforzo congiunto di braccia e gambe, modifico la posizione delle mie membra, ritrovandomi in verticale e, una spinta dopo l'altra, comincio la mia risalita. È incredibile quanto semplice sia ogni movimento, la resistenza dell'acqua quasi nulla; sono leggero, come se arti, muscoli, ogni componente fisica di me avesse perso volume.
Leggero, inconsistente...
Forse solo anima, ormai?
O è semplicemente perché sto sognando e nei sogni le leggi del reale non contano?
Il tetto d'acqua si fa sempre più vicino, finché le mie dita lo sfiorano, poi tutta la mia mano penetra il sottile strato e infine emergo, con un urlo liberatorio.
Non so perché sento questo bisogno di liberare i polmoni, benché non li abbia per nulla forzati, ma forse non è per questo che grido, forse è solo l'improvviso bisogno di libertà: in fondo l'oceano mi stava tenendo prigioniero.
Il sole mi trafigge gli occhi in una fitta dolorosa, non vedo nulla per parecchi istanti, accecato da una luce che non posso sopportare.
Con qualche sforzo riesco a schiudere le palpebre e le prime sagome di realtà si delineano davanti a me, dapprima vaghi contorni senza identità che poi diventano rocce, acqua, un cielo azzurro punteggiato da qualche nuvola sparsa, soffice e candida come cotone.
Il mio sguardo riesce infine a distinguere la scogliera che si staglia poco più in là, sovrastandomi; con qualche bracciata raggiungo il frammento di pietra a me più vicino e, facendo leva con tutto il corpo, mi tiro fuori dall'acqua, per ritrovarmi carponi sulle rocce.
La coscienza di me che lentamente ritorna, mi pone davanti alla mia situazione: sono nudo, ogni angolo della mia pelle bagnata rabbrividisce al contatto con l'aria, ma lentamente subentra il sollievo dato dalla carezza del sole.
Mi alzo, stando in piedi sicuro sullo scoglio e mi abbraccio, massaggiandomi con forza, concedendomi anche qualche saltello, quindi ricerco con lo sguardo la sommità della parete rocciosa.
Non posso tuttavia superare l'ostacolo del sole, i cui raggi si infrangono, qualche metro più in alto, su una superficie bianca le cui pareti sono delimitate, a tratti, da quelle che sembrano vetrate.
I raggi sono come lame affilate e devo di nuovo serrare le palpebre per sfuggire al dolore che mi procurano.
Porto una mano alla fronte, a fare da schermo, prima di fare, con cautela, un nuovo tentativo.
Questa volta va meglio e posso comprendere del tutto il significato di quei baluginii e giochi di luce.
C'è un edificio abbarbicato sulle rocce, una struttura composta da vari settori a forma di cubi, tutti bianchi, come uno stormo di gabbiani appollaiati per riscaldarsi al sole. Solo le facciate anteriori di ogni cubo sono delimitate da una vetrata. La costruzione sembra fatta apposta per chiudere fuori il mondo intero, consentendo solo una vista aperta sull'oceano. Alle sue spalle ancora roccia, sopra il cielo e, unica via d'accesso, per quel che posso vedere dal punto in cui mi trovo, ripide scale scavate nella pietra.
Forse è fatta in modo che i proprietari ci possano arrivare unicamente in barca? Eppure non vedo attracchi, niente imbarcazioni, né pontili che possano accogliere uno sbarco.
Con naturalezza comincio a salire, senza soffermarmi troppo a pensare: in fondo è tutto ciò che posso fare, quel che mi circonda non offre molte alternative.
Da un po' mi martella nella testa un pensiero: ho la sensazione che questo luogo sia qui per me e che attenda proprio me. Ogni tratto del suo percorso, il mare, le rocce, questa scalinata che pare messa qui apposta per permettermi la scalata fino a quella strana struttura.
Man mano che mi avvicino riesco a contare con maggior sicurezza il numero dei cubi: sono otto, quattro per piano, accatastati l'uno sopra all'altro. Ricordano un mucchio di scatole o quei giochi di costruzioni per bambini.
All'interno di ogni cubo c'è una stanza, ad ogni passo ne distinguo una diversa: due camere, un bagno... non molto ricche all'interno, la decorazione è semplice e spoglia, essenziale.
Giunto alla fine della scalinata, i miei piedi nudi si posano su una piattaforma di legno, umida e impregnata di sale. Il primo particolare che distinguo è la mia figura che si specchia nella facciata anteriore.
Mi stupisce la struttura di questa costruzione che, a prima vista, non offre alcuno spazio alla privacy eppure, al contempo, credo che nessun luogo possa ritenersi più isolato di questo, per via della sua posizione: gli unici spettatori della vita che si svolge al suo interno potrebbero essere gli abitanti dell'oceano.
Compio gli ultimi passi che mi separano dalla vetrata e la mia immagine si fonde con quello che si trova al di là: se le altre stanze sono decorate in maniera semplice, quella che ho davanti si rivela del tutto disadorna, eccettuato il tappeto dalle fattezze orientali che ricopre il pavimento per tutta la sua superficie. Le pareti interne sono bianche, come quelle esterne e non vi è appeso nulla, né quadri, né manifesti od orologi: se non fosse per il tappeto dai colori sgargianti l'ambiente sembrerebbe del tutto asettico, quasi ospedaliero.
Faccio correre lo sguardo tutto attorno: non riesco a scorgere porte o qualunque accesso che mi permetterebbe di entrare e, benché il mio sguardo possa spaziare lungo gli interni, non vedo anima viva.
Dopo qualche istante in cui rimango lì, immobile, privo di ogni risoluzione, un guizzo dal cubo più lontano attrae i miei occhi, un movimento quasi indistinto, tanto che mi chiedo se non si tratti solo di un'illusione ottica generata dai riflessi del sole contro il vetro. Poi però il medesimo guizzo si ripete, in un'altra stanza, di nuovo effimero, un baluginio che si spegne subito per ritornare, ambiente dopo ambiente, senza che io riesca a capire l'esatto punto in cui avviene il passaggio. Forse ci sono scale o porte che, da qui, non riesco a vedere: i giochi del sole contro le vetrate confondono i miei sensi.
Rimango in attesa: so che, di qualunque cosa si tratti, arriverà da me. Non provo alcuna paura, solo una vaga inquietudine, generata dall'inconsapevolezza e dalla curiosità.
Lo vedo all'improvviso, senza sapere esattamente quando è comparso.
Si tratta di un ragazzo... o un angelo, non lo so, perché ha fattezze umane, ma qualcosa, in lui, lo allontana dall'umano, il modo in cui si muove tra le mura innanzitutto: più che camminare sembra danzare, addirittura fluttuare, simile a spirito. Ha i capelli lunghi sul davanti, un fluente ricciolo rosso ricade sulla fronte, coprendo in parte l'occhio destro. Nelle sue iridi si rispecchia l'oceano, il loro colore è la perfetta armonia di cielo e mare, accesi dai raggi del sole.
Indossa solo una camicia bianca, leggera, che si allunga oltre i fianchi, disegnando morbidamente le curve appena accentuate del suo corpo così pallido da sembrare etereo.
Non oso muovermi, incantato da quegli occhi e da quei movimenti e, al tempo stesso, sento di non poter distogliere lo sguardo da lui, fino al momento in cui si ferma a pochi centimetri dal sottile strato trasparente che ci separa.
Anche lui ha tenuto lo sguardo su di me per tutto il tempo, uno sguardo privo di stupore nel quale leggo, invece, commozione e speranza.
Solleva una mano e la posa sul vetro, le sue labbra si muovono, senza che io possa udire la sua voce; eppure, qualcosa porta a me le sue parole, non so spiegare come sia possibile, ma solo guardando le sue labbra comprendo quel che dice.
"Ti aspettavo".
Sussulto, sbatto le palpebre eppure, in qualche modo, già lo sapevo.
L'impulso mi fa sollevare la mano, in una posizione speculare alla sua, poso il palmo sul vetro, in coincidenza con il suo; per un attimo il vetro pare assottigliarsi, ho la sensazione di poter sfiorare la morbidezza della sua pelle, ma è un'impressione momentanea.
"Abiti qui?" mi viene da chiedere, senza riflettere sul fatto che non può udirmi. Tuttavia, forse anche lui riesce a capire quel che dico, nonostante tutto.
Reclina il capo su una spalla e mi risponde; di nuovo lo comprendo, con estrema chiarezza... e non so se è voce di spirito che supera le barriere o semplicemente leggo le sue labbra, la confusione sensoriale che genera in me questo luogo mi porta a non distinguere ciò che vedo da ciò che sento.
"È il mio luogo di attesa...".
"E cosa attendi?".
Il nostro dialogo inizia così, con naturalezza; non mi importa più il perché della mia presenza in questo luogo. Ciò che conta per me adesso è sapere cosa lui ci fa qui, la mia attenzione è tutta concentrata su di lui, mi interessa sapere solo di lui.
"Il momento giusto per andare".
Mi si stringe il cuore, spingo un po' di più la mano contro il vetro e piego leggermente le dita, colto dall'isinto di afferrare la sua mano e portarlo via con me.
"Non puoi uscire?".
Scuote il capo:
"Non ancora".
"Qualcuno ti tiene prigioniero?".
Sorride, se non fosse così dolce quello sguardo direi che si sta prendendo gioco del mio slancio; fa un altro cenno negativo del capo.
"Ci sono solo io qui, ma è l'unico posto dove ora posso stare... fino a quel momento".
"Quale momento?".
Il suo sorriso si accentua, così come il brillio di aspettativa e speranza dei suoi occhi:
"Non posso dirtelo ora, ma se tornerai a trovarmi, capirai anche tu".


Fu la prima volta che vidi Gabriel, la prima di tante.
Al risveglio ero consapevole che per me avrebbe significato molto più di un sogno. Non ne parlavo con nessuno, non interferiva con la mia vita di tutti i giorni, non era il classico amico immaginario che accompagna l'infanzia di molte persone, perché non lo portavo con me tutta la giornata: apparteneva all'universo parallelo del sonno e nulla più.
Tuttavia era importante, uno di quegli appuntamenti irrinunciabili che si sente di non dover deludere e si spera che mai deluda; attendevo l'arrivo del sonno con piacere, perché Gabriel mi aspettava, sperava nel mio arrivo e io speravo di trovarlo sempre lì ad attendermi.
La mia giornata era scandita in maniera abbastanza regolare, come quella della maggior parte dei bambini e la notte era il momento di Gabriel; non mischiavo le due dimensioni, non pretendevo di condividere con qualcun altro un frammento della mia esistenza che, sapevo, apparteneva solo a me. Pur essendo solo un bambino ero certo che nessuno avrebbe compreso l'importanza che quel sogno aveva per me e, comunque, neanche mi interessava: era mio e di nessun altro, non ci tenevo a che qualcuno comprendesse, in quei momenti contavamo solo io e Gabriel, non desideravo che qualcuno si intromettesse tra noi.
Ero io che dovevo comprendere.
Quegli incontri avrebbero portato a qualcosa, non esaurivano in se stessi il loro significato, ma non avevo fretta, prima o poi tutto mi sarebbe stato chiarito, ne ero sicuro.
Io attendevo e anche Gabriel attendeva, sempre con quel misto di malinconia e speranza che caratterizzavano il suo sguardo fin dal nostro primo incontro.
Cominciai a notare che quella tristezza si accentuava man mano che io crescevo e, insieme ad essa, mi accorsi che nel fondo dei suoi occhi limpidi si faceva strada un fondo di paura.
Crescevo velocemente, mese dopo mese, anno dopo anno, ma lui era sempre uguale, appena entrato nell'adolescenza, così come il primo giorno che lo incontrai.
Giunsi alla sua età, lo superai di poco e, in quel periodo, lo sognai l'ultima volta.




Capisco subito che c'è qualcosa di diverso, nel momento stesso in cui emergo dai flutti e percorro la scalinata che mi conduce al rifugio di Gabriel. Non la chiamo casa, perché questi anni di dialogo tra noi mi hanno fatto capire che per lui non è tale, sembra considerarla più un luogo di transito, prima di andare dove non lo so.
C'è qualcosa di diverso perché sono diverso io, mi sento strano... forse sto crescendo.
Anche Gabriel è strano, me ne accorgo subito quando incrocio i suoi occhi, sono spenti, più tristi che mai.
"Cosa ti succede?" gli chiedo.
Rimango interdetto perché, quando vedo le sue labbra muoversi in risposta, al di là del vetro, non comprendo quello che mi dice, non è mai accaduto prima.
Mi attacco alla parete trasparente, quasi con disperazione e non mi è mai sembrata così spessa, la nostra distanza così pronunciata.
"Non... ho capito cosa hai detto!".
Il suo evidente dolore si stempera in un sorriso intriso di malinconia, come sempre è lui che tenta di rassicurarmi, di confortarmi, come è accaduto tante volte nel corso di questi nostri incontri, qualunque fosse il motivo: un rimprovero dei miei genitori, una lite con gli amici...
Provo, con tutte le mie forze, a far aderire l'orecchio contro il vetro.
"Parlami, vediamo se così riesco a sentirti!".
Continua a sorrdere e scuote il capo; nel suo gesto di rassegnazione è racchiuso ciò che vuole trasmettermi:
"Sarebbe inutile".
Poso entrambe le mani sul vetro, a ricercare le sue, annaspo contro la superficie, come se potessi, così, cercare un frammento più cedevole, infrangerne la solidità, per poterlo finalmente raggiungere.
"Dimmi come posso entrare allora, perché non mi è mai stato concesso?".
Senza cambiare espressione, il suo viso si accosta al vetro, vi posa sopra le labbra, con delicatezza, in perfetta coincidenza con le mie.
Il mio cuore batte all'impazzata e il bruciore dei miei occhi, questa volta, non è dovuto al sale o al bagliore del sole, ma alle lacrime che, improvvise, rompono ogni argine.


Al risveglio mi sentii strano, non ricordo molto delle sensazioni che provai, se non che le mie guance erano ancora umide e il cuore, per un po', pulsò in maniera dolorosa.
Era un sogno e, come tutti i sogni così vividi dell'infanzia, semplicemente è sbiadito, senza che ci facessi troppo caso. Un giorno, con la medesima naturalezza della prima volta in cui mi trovai di fronte a Gabriel e alla sua casa sulla scogliera, smisi di sognare quel bizzarro edificio e il suo unico abitante.
 
***


Uscii di casa presto quella mattina.
Avevo rivisto Gabriel in sogno, dopo tanto tempo e mi sentivo elettrizzato.
Era stato come ritrovare una parte di me anche se, fino a quel momento, non ero consapevole della nostalgia che provavo.
Negli anni della mia adolescenza percepivo un vuoto incolmabile e finalmente capivo, ma fino al ritorno del sogno non l'avevo mai collegato alla mancanza di Gabriel.
Aprii gli occhi nella mia stanza che ancora sorridevo, non ci eravamo detti nulla, eppure sapevo che solo il fatto di averlo rivisto avrebbe sifnigicato un nuovo inizio per lui e per me, non lo avrei più perso, ne ero certo.
Mi alzai, indossai una tuta da ginnastica ed uscii a correre sul lungomare, godendo dell'aria frizzante che mi schiaffeggiava il viso, godendo persino del freddo pungente-
Non so come accadde, tutto quel che ricordo è quel tratto di sentiero senza barriere, a picco sul mare, non esisteva nulla intorno a me, se non il coro congiunto del vento e dell'oceano, gli spruzzi gelidi impregnati di sale sul mio viso e la mia incontenibile euforia. Il resto del mondo era scomparso.
Forse per questo non mi accorsi del ciclista, non udii il trillo del campanello, solo all'ultimo istante il suo grido sconvolto mi ferì le orecchie, mentre la mia corsa si tramutava in volo.
Un raggio di sole mi accecò, poi il violento impatto con la roccia, le onde intorno a me e, infine, il buio dell'abisso.




"Eri malato?".
"Avevo quattordici anni quando sono morto".
"Per questo io non potevo entrare?".
"Non era il tuo momento...".
Mi abbraccio le gambe e guardo il mondo fuori da questa stanza bianca, delimitata sul davanti da una parete di vetro; al di là un cielo azzurro punteggiato da qualche nube e, sotto, l'oceano.
Mi sono risvegliato qui dentro, Gabriel accanto a me; adesso apparteniamo alla stessa dimensione.
Faccio scivolare una mano al mio fianco e cerco la sua che, prontamente, risponde alla stretta.
Ora posso sentire la sua voce, è morbida e dolce, proprio come la percepivano, un tempo, i miei sensi.
"Mi trovavo nell'ospedale dove tu sei nato; mentre tu venivi al mondo, io stavo morendo e, dopo il passaggio, mi sono messo a camminare per i corridoi. Ti ho visto nascere, ho ascoltato i tuoi genitori che ti chiamavano Sean, è stata un'emozione fortissima ma, nel momento in cui ti ho visto, ho saputo... ho saputo quale sarebbe stato il tuo destino. Non mi decidevo ad allontanarmi da te, volevo esserci, per accompagnarti nel momento più difficile. Ma non mi era concesso invadere il tuo mondo, potevo solo aspettare, dietro queste pareti".
Deglutisco e mi aggrappo con forza alla sua mano poi, con lentezza, mi giro verso di lui, ad incontrare i suoi occhi.
"Non è stato poi così difficile".
Certo che non lo è stato, penso dopo averlo detto, proprio perché sapevo che lui mi aspettava.
Gabriel sorride, ma quasi subito distoglie timidamente lo sguardo e posa il mento sulle ginocchia:
"C'è stato un lungo periodo in cui ho temuto che mi avresti dimenticato e che non avrei potuto essere con te nel momento del passaggio".
Osservo il suo profilo cui la luce del sole conferisce una lieve sfumatura, che sembra oro sulla sua pelle bianca. Non resisto e, con un dito, gli sfioro l'ampio ricciolo che gli accarezza la fronte; lui sussulta e socchiude gli occhi, con un sospiro.
"Non avrei mai potuto dimenticarti; durante il periodo di cui parli ero solo inconsapevole. L'adolescenza a volte rende stupidi... e ottusi".
"Io non ho fatto in tempo a conoscerla".
Tra noi cala il silenzio.
Vorrei chiedergli tante cose, se era sempre stato malato, qual era la sua malattia, se questo luogo in cui è stato ad attendermi così a lungo è casuale o ha un significato particolare per lui.
Tante domande, forse troppe anche se, dopo il passaggio, ciò che ci ha portato a compiere il salto non ha più grande importanza. E comunque avremo tutto il tempo a nostra disposizione per parlare e, soprattutto, per stare insieme...
Un tempo lungo come l'eternità.
   
 
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