Serie TV > Breaking Bad
Ricorda la storia  |      
Autore: Wawes    22/12/2016    0 recensioni
Jesse, tutto il tuo dolore ha avuto uno scopo? Qui ora e adesso, con la tua maglia lurida e i lividi sulle braccia, cosa hai guadagnato, che cosa hai imparato?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jesse Pinkman
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ho finito Breaking Bad pochi giorni fa (che capolavoro!) e a parte la depressione post finale, mi ha letteralmente fatto andare fuori di testa il destino incerto di Jesse. Su Internet ho trovato molte interpretazioni date da fans, critici, addirittura Vince Gilligan e Aaron Paul stesso, ma in ogni caso avevo bisogno di scriverne una mia. Eccola.
Vi auguro una buona lettura :)



TINY HANDS

Non che avessi mai chiesto di più, o che da ragazzino avessi mai desiderato di diventare dottore, banchiere, avvocato.
Ti è sempre bastato quello che avevi: qualche donna, nemmeno tanto bella ma accettabile per un po’ di compagnia, un po’ di droga per divertirti e abbastanza amici da non sentirti mai solo.
Non che avessi mai preso una posizione in vita tua. Hai sempre osservato lo scorrere del tempo come un tossico strafatto davanti ad un acquario, soddisfatto della tua vita media e del tuo lavoro (se lavoro si può chiamare), felice di non essere impostato come i tuoi genitori, contento di essere ribelle come non lo è tuo fratello.
Eppure, proprio adesso, con le ginocchia piantate nella ghiaia e il fascio di luce dei fari ad accecarti la vista, ti senti come se non avessi mai respirato. Non sai per quanto hai guidato, non sai perché hai preso la strada che porta a Santa Fe, sai solo che non hai smesso né di urlare né di ridere, come un pazzoide disperato che ha perso tutto ma per la prima volta sente che gusto ha l’aria.
Ti fa male la cassa toracica, stai anche morendo di fame. Abbassi lo sguardo sulle tue mani e le trovi piantate al suolo, rovinate e sporche di terra. Ti sei fermato perché inginocchiato in una piazzola di sosta e con il freddo pungente a entrarti nelle ossa, riesci a respirare meglio.
Abbassi il capo e lo appoggi sulle pietre, come se stessi pregando, respiri il sapore della polvere e ti domandi che cosa ne sarà della tua vita adesso che è tutto finito (oppure iniziato?). Ti chiedi perché proprio tu hai dovuto sopportare tutto questo e nemmeno finisci di pensarlo che hai già la risposta.

Mi merito quello che mi succede.

Ti rialzi a fatica, incespicando sulle tue stesse gambe e apri la portiera del passeggero. Tutto quello di cui hai bisogno adesso è fumare e ringrazi un dio in cui non credi quando trovi nel cruscotto un pacchetto di Lucky Strike con dentro sei sigarette più un accendino giallo.
Con la schiena contro la ruota destra anteriore fumi la tua prima sigaretta da mesi. Le tue mani stanno tremando, la tua testa non riesce a smettere di pensare e ti odi da morire per non riuscire a focalizzare la tua attenzione su altro, né su quei bastardi nazisti, né su Andrea e Brock (starà bene?), nemmeno su te stesso e sul male che senti nel punto in cui avevi le catene.

Sarà morto?

Perché tu non puoi, non riesci a smettere di pensare a lui. E ti domandi, mentre spegni la sigaretta e ne riaccendi un’altra, qual è il senso più profondo di tutta questa storia. Che cosa volevi, Jesse? Lo sai? Volevi dei soldi, volevi un lavoro che ti appagasse? Volevi un padre?
Tutto il tuo dolore ha avuto uno scopo? Qui ora e adesso, con la tua maglia lurida e i lividi sulle braccia, cosa hai guadagnato, che cosa hai imparato? Ti odi ancora di più quando ti rendi conto che l’unica cosa che hai vinto è stata la libertà, gentilmente concessa da un uomo che ti ha tolto tutto, anche la vita, quando ti ha guardato negli occhi e ti ha detto, glaciale come un automa, che aveva guardato Jane morire e non aveva fatto niente per salvarla.
Ti domandi, mentre senti la mascella tremare, se potrai mai dimenticare. Chiudi gli occhi e appoggi la fronte sui palmi e nella tua testa c’è ancora lui con la sua barba incolta, a fissare la tua faccia spenta e i tuoi occhi che non riuscivano a reggere il confronto. Puoi sentire ancora addosso il suo peso nel momento esatto in cui si è coricato sopra di te, prendendosi una pallottola per salvarti.
Tra voi c’è sempre stato un rapporto di affari, alti e bassi che vi hanno portato a ridere, litigare, provare ad ammazzarvi. Eppure ci sono stati dei momenti, sporadici certo ma innegabili, in cui gli hai voluto bene, in cui le sue spalle e il suo petto erano un buon posto per nasconderci la faccia e soffocare il dolore. Qualche volta vi siete divertiti, avete riso e condiviso delle birre parlando del più e del meno e ora, con i tuoi occhi spenti premuti sui polpastrelli, ti domandi se respira ancora oppure no. E in ogni caso la risposta ti spaventa.
Quando, tre sigarette dopo, hai abbastanza freddo da non resistere un secondo di più all’aria aperta, sali in macchina e decidi che sei troppo stanco per poter pensare ancora. Appoggi la testa contro il sedile, chiudi gli occhi e finalmente, dopo mesi, riesci a dormire senza fare incubi.

 “Ragazzo! Ragazzo! Stai bene?”.
Dei colpi forti interrompono il tuo sonno e sei costretto ad aprire le palpebre, terrorizzato da aver dormito troppo e di dover far fronte ai calci di Jack.
Ma invece della brutta faccia del sicario c’è un uomo biondo con profondi occhi scuri che ricambia il tuo sguardo da dietro il vetro del finestrino, leggermente spaventato. Ci metti un attimo a capire che sei ancora in macchina, il riscaldamento e i fari accesi. Ci metti molto di più a realizzare che è davvero finita.
Fai un leggero cenno con la testa mentre sbatti le palpebre e ti guardi attorno. Il cielo è chiaro, devono essere le prime ore del mattino.
“Stai bene?” insiste l’uomo e ti rendi conto che sei costretto a rispondere.
Lentamente scendi dalla macchina e guardi l’uomo guardarti sempre più preoccupato, puoi leggere nei suoi occhi quello che vede: un volto disperato e pieno di cicatrici, dei capelli incolti come se dall’ultima volta che sono stati pettinati fossero passati mesi, un ragazzo giovane che ha lo sguardo disperato di chi ormai non può più avere paura di nulla.
Annuisci.
“Sto bene”. La tua voce è rauca e speri che lui non chiami la polizia.
“Hai bisogno di qualcosa?”.
Si, certo. Hai bisogno di dimenticare, di riavvolgere la pellicola del tuo film al momento esatto in cui Emilio è stato beccato e tu sei caduto in mutande da quel tetto. Hai bisogno di sapere che la tua vita non è stata pagata con la morte di Jane, di Gustav, di Drew Sharp, di Mike, del cognato di Mr. White e del suo partner, di Andrea. Hai bisogno di tornare indietro, di chiedere perdono a tutte le persone a cui hai fatto del male, a Gale. Vorresti così tanto scusarti con quell’uomo, dirgli che non volevi ma hai dovuto e che ancora sogni i suoi occhi innocenti. Pagheresti oro per non aver ceduto alle richieste di un malato terminale a cui nonostante tutto ti sei affezionato, di cui non hai potuto fare a meno di cercarne il consenso e l’approvazione, come se ancora foste sui banchi di scuola e il test fosse la vita. Ma non puoi, perché è troppo tardi per riscattarsi.
“Acqua. Ho bisogno di acqua”.

“A che ora hai l’interrogazione, tesoro?”.
Jake spalma un velo di marmellata alle fragole sul pane tostato, poi alza gli occhi puntandoli in quelli azzurri di sua madre.
“Alla terza ora”
“Sei preoccupato?”. Adam finisce in un sorso il suo caffè, poi si alza in piedi per prendere il giornale appoggiato sul bancone della cucina.
È una bella giornata ad Albuquerque, di quelle chiare che promettono un sole caldo.
“Non molto in realtà” sorride Jake, poi da un morso alla sua fetta di pane.
Adam sorride e si risiede al tavolo, aprendo il giornale. Come ogni giorno, prima di leggere le notizie, sfoglia tutte le pagine alla ricerca di qualche foto o qualche titolo in particolare, più impaurito di quanto vorrebbe ammettere di trovare la foto di suo figlio, l’altro, in mezzo all’inchiostro.
Jenny osserva suo marito e solo quando lo vede richiudere il giornale e cominciare a leggerlo dalla prima pagina riesce a distogliere gli occhi. Le sue mani da signora raccolgono i piatti sporchi della colazione, poi si alza in piedi. Con un ordine meticoloso li appoggia nel lavello, posandoci sopra il suo bicchiere sporco di succo all’ananas, non prima di averlo sciacquato dalla polpa rimasta incollata al vetro.
“Mamma, ti ricordi che stasera non ci sono a cena?” domanda Jake mentre si pulisce la bocca.
Adam abbassa il giornale. “Dove vai?” chiede inclinando il capo.
Jake sorride prima di scuotere leggermente la testa.
“Papà, non ti ricordi mai cosa dico. Stasera vado a cena da Daniel”. È vero, suo padre non si ricorda mai cosa dice e nemmeno cosa fa. È come se da un anno a questa parte avesse la testa altrove.
“Giusto, è vero. L’età” sorride lui, toccandosi leggermente la testa.
“Almeno tu te lo ricordavi, mamma?”.
Jake finisce in un sorso la sua spremuta, poi si pulisce la bocca di nuovo. A volte sua mamma era assente. Spesso la sorprendeva con lo sguardo fisso davanti a sé, persa in qualcosa che non voleva raccontare. Un giorno di qualche settimana prima aveva visto i suoi occhi inumidirsi quando un ragazzo con dei jeans enormi e un cappellino rosso si era acceso una canna davanti all’entrata del supermercato.
“Mamma?” domanda di nuovo, leggermente scocciato, senza ottenere risposta.
Jake e Adam si guardano per un breve istante prima di girare la testa per cercare la donna. Jenny è immobile davanti al lavandino, le mani a mezz’aria con ancora stretto lo straccio per ripulire gli schizzi d’acqua sul marmo.
“Tesoro?” la chiama Adam, ma lei non dà alcun segno di aver sentito.
Quando l’uomo si alza in piedi nota che ha gli occhi lucidi di lacrime. Sta fissando un punto imprecisato davanti a lei, fuori dalla finestra sopra al lavello.
“Mamma, che cosa succede?”.
Jake si alza in piedi nel momento esatto in cui suo padre si affianca a sua madre. Per qualche secondo rimane zitto, poi il suo respiro si blocca e le mani cercano appiglio sul bancone. Jake fa ancora qualche passo in avanti, ora leggermente spaventato.
“Mamma? Papà?” ripete, ma non ottiene alcuna risposta. Solamente quando si avvicina capisce, e sente il cuore fermarsi.
Fuori dalla finestra, al fondo del cortile e con gli occhi puntati nei loro, Jesse, suo fratello Jesse, è perfettamente immobile.

Quando tua mamma apre la porta e inizia a correre verso di te, nel sole freddo del mattino e sull’erba bagnata dalla rugiada, scivoli a terra. Aspetti, mentre i pantaloni cominciano a bagnarsi, che ti raggiunga e devi ricordarti che non stai sognando, che lei è reale.
Poi, all’improvviso, lei rallenta e si abbassa e tu puoi sentire, come a rallentatore, le sue mani che si avvinghiano alla tua maglia e il suo petto contro la tua testa. Sta piangendo e allora tu fai la cosa più naturale che ti viene: la abbracci a tua volta incrociando le mani dietro la sua schiena, lasciando che la tua testa scivoli un po’ di più nel suo maglione azzurro che profuma di casa.
“Dov’eri finito?” ti chiede a bassa voce mentre con la mano ti pettina i capelli sporchi. “Jesse, tesoro mio, dov’eri finito?”.
Non le rispondi. Vorresti solo poter rimanere così per sempre, in un odore famigliare che non ricorda né polvere né sangue, dimenticando tutto quello che ti sta dietro.
Ma lei, delicatamente, raccoglie il tuo viso tra le mani obbligandoti a spostarti, e ti guarda per un tempo indefinito. Tu lo sai, lo leggi nei suoi occhi chiari e bagnati che si sta chiedendo dov’è suo figlio col cappellino di lana e perché ha lasciato il posto ad un animale sporco, ferito.
Quando distogli lo sguardo ti accorgi che dietro c’è tuo padre, e dietro ancora, tuo fratello.
Lo stesso uomo che ti ha sbattuto fuori di casa, dandoti del drogato e dell’irresponsabile, lo stesso uomo che si è vergognato di te per salvare le apparenze, ora ti guarda fisso, mentre trema.
“Non farlo mai più” dice, ma non è arrabbiato. È solo terrorizzato come mai l’hai visto prima.
Per la prima volta realizzi che i tuoi genitori devono aver passato otto mesi d’inferno senza sapere dove fossi, vivo o morto. Vorresti spiegare, vorresti vomitare un fiume di parole e piangere fino a finire le lacrime e poi dire che per la prima volta ti senti libero, ma sei troppo stanco per parlare. Sai che ci sarà un tempo per tutto, anche per raccontare.
Tuo fratello ti fissa come se non sapesse cosa dire. Gli fai un leggero cenno con la testa, riesci persino ad incurvare le labbra contratte dalle guance che tua madre ti sta stringendo.
Jake sorride a sua volta e non dice niente e tu, per la prima volta da molto tempo, senti il cuore diventare caldo.
Appoggi le mani sulle mani di tua madre e lei allarga le dita e permette alle tue di infilarsi tra di esse. Hai sempre avuto le mani piccole e una volta, in tempi decisamente migliori, lasciavi che tua madre le scaldasse tra le sue.
“Dov’eri finito?” ti ripete e sai che ha paura di sapere la risposta.
“Sto bene”. È l’unica cosa che riesci a dire ed è anche la prima. “Entriamo?” domandi spostando velocemente gli occhi da tua madre a tuo padre a tuo fratello.
Tua mamma annuisce e poi ti lascia le guance per asciugarsi le lacrime.
“Entriamo” risponde, e ti allunga la mano per farti alzare in piedi, e tu, come un bambino che si è fatto male alle ginocchia, la prendi.

Quello che ti culla mentre sei nel letto in cui dormivi da ragazzino è il silenzio. Non è nemmeno mezzogiorno, ma hai veramente bisogno di dormire così hai abbassato le tapparelle e chiuso la porta. Hai detto loro che spiegherai tutto a tempo debito, magari anche stasera a cena, ma non adesso. Hai mangiato abbastanza da sentire i dolori all’addome e ti sei fatto la doccia più lunga della tua vita, giurando a te stesso che la prima cosa che farai domani sarà andare a cercare Brock.
Seduto sul coperchio del water ti sei tagliato i capelli con le forbici e ti sei fatto la barba, e quando ti sei alzato ti sei specchiato a lungo cercando di reggere per primo il tuo sguardo e poi i tuoi lividi. Ti sei domandato se guarirai mai e hai preferito non risponderti.
Nelle coperte chiare profumate di lavanda chiudi gli occhi e ti sorprendi a immaginare scatole di legno e olii profumati, le tue mani piccole e senza tagli ad accarezzarle, e allora ti immagini l’Alaska e una vita dove fai qualcosa che ti piace in mezzo alle conifere.
Capisci che ti stai per addormentare quando tra il legno vedi il viso invecchiato di Mike sorriderti e quando senti, per purtroppo solo pochi secondi, l’odore che aveva la pelle di Andrea quando si svegliava accanto a te e ti baciava le guance per svegliarti il più delicatamente possibile.
Ti giri di lato, attento a non sentire troppo dolore nel punto in cui hai preso i calci ma all’improvviso, nella tua testa, un batuffolo dai capelli rossi e le mani sporche di polvere si copre la faccia, ridendo. E tu ridi con lui, e dici “Peekaboo!”, e il batuffolo ride e tu speri davvero che la sua vita sia felice.
Come se fossi in un cinema e la tua testa fosse lo schermo osservi volti famigliari, persone conosciute in una vita che ora non sembra la tua, gente che è morta e tu quasi sempre ne sei parzialmente o totalmente responsabile. Ma non è un incubo. Le cose che vedi sono belle e il tuo sogno ti piace. Senti il tuo respiro diventare regolare e cadenzato e pensi che ce la farai a dimenticare, che ce la farai a stare meglio e poi, tra il faccione bruto di Schrader, il disegno di una supereroe che chiede scusa e un cappello nero, finalmente ti addormenti.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Breaking Bad / Vai alla pagina dell'autore: Wawes