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Autore: Mitrion    23/12/2016    0 recensioni
Ho provato a raccontare quello che sento in una forma artefatta, forse troppo, da non riconoscere più come tale. Un esperimento che fonde le mie emozioni agli elementi: fuoco, terra, aria ed acqua. Quattro elementi da cui partire o a cui arrivare, per spiegare qualcosa che non so descrivere completamente.
Aldilà degli errori di battitura -che mi piacerebbe comunque mi fossero fatti presenti-, vorrei un parere su quello che ve ne pare dell'artificiosità del testo. Il contenuto, forse, ha risentito in parte di quest'esperimento "letterario", specie nell'ultima parte, quella inerente all'acqua. Ma io, be', ci ho provato.
Parte tutto da un momento di frustrazione -se così si può definire- in cui mi illudo che desiderare qualcuno ed ottenerlo possa farmi stare bene -da qui l'iniziare col fuoco-, per sfociare in una discesa interiore verso una serie di problemi che mi alitano sul collo, fino a diventare sempre più grandi ed opprimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spingo, presso, tutto e subito, ecco il mio modo di fare. Impulsivo? Non è questo, sono passi calcolati, studiati, se possibile, per ottenere ciò che voglio. Mantengo il controllo della situazione, la direzione mia ed altrui, così da ricavarne il meglio per me stesso. Egoisticamente, faccio i miei interessi. Ma ecco, un battito di ciglia, e tutto va via, s’annulla e muore.
Senza cuore? Non credo, vorrei poterne essere privo, ma non funziona così. Sento i dolori, le emozioni, l’affaticamento e il desiderio risalire lungo la mia schiena, si avvinghiano, strisciano, fino a raggiungere i tasti dolenti, quelli capaci di far risuonare l’eco della nostalgia e dell’afflizione. Eppure, in tutta questa giostra interiore, ne esco sempre sconfitto. Finisco per smettere di provare qualsiasi cosa, l’insieme di quell’intricato e straordinario groviglio di sentimenti ed emozioni scema, a volte di colpo, lasciandomi vuoto, freddo, al pari di una bambola di pezza.
Mi definisco complicato, ma credo che il mio problema maggiore sia far bruciare tutto e subito, lasciare esplodere le fiamme interiori della mia anima -per chi ci crede- in un fungo atomico spropositatamente grande, senza lasciare più niente da ardere. E si sa, senza materia prima da divorare, il fuoco è finito, si estingue, lasciando quell’odore di bruciato e distruzione che, per quanto affascinante, non dona i palpiti, la soddisfazione o il calore delle lingue di fuoco divampanti, danzatrici nella notte che ipnotizzano coi loro balli sensuali, eterei, d’un'altra realtà.
O forse è colpa della mia giovinezza. Acerbo, ancora inesperto con le pratiche di un mondo antiquato, abile e crudele nelle sue macchinazioni, da capire l’importanza della stabilità e della forza di un sentimento. Sento di avere ancora un mondo da scoprire, un’esistenza da vivere, eppure il tempo passa, incidendo su di me e su quelli che mi sono accanto. Vorrei possedere la longevità delle montagne, quei giganti per cui centinaia d’anni non sono niente, forse neanche migliaia. Ma non sono mai stato bravo con la geologia, neanche per fare paragoni con quello che sento. Il fascino della terra non è mai penetrato nel mio io e, per quanto apprezzi i frutti che ne derivino, la natura che ha preso piede e che può tutt’ora esistere grazie a lei, credo di esserle il più distante possibile di quanto sia consigliabile. Stabile, imperitura, dona sicurezze che io non so apprezzare, figuriamoci concedere. Probabilmente è colpa dei miei natali: santi uomini e donne i miei genitori e i miei nonni, persone di fede, sebbene tutta loro, reinventata. Hanno vissuto e vivono per la terra, raccogliendone giornalmente i frutti. Suoi schiavi? Un tempo lo credevo, ma ora so di aver sbagliato. Basta guardare quei sorrisi, quei gesti affettuosi, quelle crepe colme di luce e spirito vitale che balugina nei loro occhi stanchi e segnati. Si ostinano ad andare avanti, non vivono di possibilità, “si battono nonostante” per dei valori, per la stabilità e per la realizzazione dei loro figli, inclusa la mia. La mia famiglia è la terra su cui cammino, è ciò che mi tiene in piedi, e mi aiuta a non sprofondare: un’ancora che, per quanto apprezzata, mi ostino a volere abbandonare, ultimo fardello che mi impedisce di spiccare il volo come Icaro, un visionario -o un pazzo-. Superbo, ambizioso, ecco il mio vizio capitale.
L’immensità del cielo mi ha illuso, una menzogna che ho introiettato e accettato. Sono un peccatore di hybris: un reietto per alcuni, un eroe per altri. Ma io, io mi vedo come uno sciocco. L’aria che mi circonda è viziata, tossica, di una natura sbagliata e che mal si sposa col mio desiderio di volare. Vorrei accusare il mondo, dire che la colpa è sua, ma sarebbe pura ipocrisia. Sono io ad averla alterata, rinchiudendomi nella camera della mia mente, serrando la finestra e lasciando che tutto si corrompesse. Mi spinge giù, pesa sulle mie ali di possibilità, forse più dell’ormeggio da cui voglio scappare. L’aria è mia acerrima nemica perché sono io ad averla resa tale, inficiando qualsiasi aiuto potesse regalarmi. L’ho corrotta e lei, nelle sua candide ed infinite possibilità, si è piegata a quest’inutile condizione. Eppure, in questo quadro opprimente, all’ombra di quella finestra serrata, sento ancora gli spifferi fischiare, spiragli che neanche io sono in grado di chiudere o rendere venefici. Lei continua a soffiare, mi spinge a riprovare.  Brava maestra dell’inganno e delle mistificazioni o promotrice della libertà e delle rivoluzioni? Un dubbio che rende ancora più difficile aprire quel vetro, bloccato dalla paura che sia tutta un’illusione, un treno già partito, che ride di me mentre sfreccia sotto il mio naso. Eppure, l’allettante alternativa è ciò che mi rimane, l’ultima speranza per sfuggire ad una vita avvelenata. Ma fino a quando? Fino a quando sentirò il vento battere contro quella finestra? Anche i bugiardi, alla fine, gettano la spugna. Se mai venisse meno l’illusione di una tempesta pronta a sollevarmi nello spazio, se solo riuscissi ad imbrigliarne i venti, cosa accadrebbe? Cosa farei?
Vorrei essere più forte, essere in grado di dirigere il corso della mia vita come i rivoli di un fiume, ma mi sembra impossibile. Sono solo un viaggiatore sperduto, manco dell’abilità e della flessibilità di chi è più esperto e, più il tempo passa, più il mio margine d’errore s’accorcia e, come una spiaggia masticata dalle lingue del mare, così la mie possibilità vengono digerite dalle Parche e dalla società che mi circonda. Sento la mia mente in tumulto, vorrebbe ribellarsi, ma può solo urlare, facendomi sanguinare le orecchie e soffrire, nella speranza che io mi svegli e sfugga a questo mare di oppressione in cui mi sembra di essere sprofondato. Gli altri abitanti di queste profondità sono tutte mie vecchie conoscenze: sogni, progetti e vecchi desideri caduti in rovina, ricoperti da alghe e ruggine, corrosi dall’impietoso scorrere dei flutti e che, se non conoscessi così bene, non riconoscerei neanche come miei. Per fortuna, però, l’immensità dell’oceano, a differenza di quella cielo, non mente, è un monito costante, un destino a cui so di non poter sfuggire: un giorno, conscio o meno, verrò sommerso, tutto verrà affogato in quelle acque scure, avulse dalla luce e dal resto della società. La stessa vita che mi è stata sottratta, o meglio, che ho lasciato scivolare dalle mie dita fradice, sarà la mia tomba. Un finale triste, terrificante, ma è pur sempre una conclusione. Ed è forse questo il mio problema, non accettare la parola “fine”. Lo stesso motivo per cui non riesco ad accettare tante cose, dalla religione ai fatti di vita quotidiana: bellissimo è l’inizio e le miriadi di direzioni che si dipartono da esso, ma angosciante è la fine, quel punto di non ritorno oltre cui c’è solo…
   
 
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