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Autore: Makil_    24/12/2016    6 recensioni
In un'epoca medievale in cui il mondo ruota attorno agli intrighi, reduce di una vita trascorsa ad affrontare creature di ogni genere e forma, Ser Carlos di Calisbur si ritroverà a complottare contro i tre Giganti di una cittadina ormai decaduta e trapassata, solo e soltanto per portare a compimento la sua più grande missione: essere un cavaliere onorevole.
La storia partecipa al contest organizzato sul forum da onlyfanfiction ‘Fantastic Beasts-Non siamo solo mostri’.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ser Carl e i Giganti di Karaan
 



Un lupo stava ululando oltre l’immensità bruna della radura.                                                                                                                      
Quel suono macabro e raccapricciante fece gelare il sangue di Ser Carl, mentre un brivido gli scendeva lungo la schiena. Se era vero che la notte portava consigli, Ser Carl non poteva dirlo. In effetti, adesso che ci rifletteva un momento, tutte le sue avventure più ostili e caotiche avevano preso il sopravvento durante la notte. E ne aveva fatte davvero tante, di avventure avverse! Con immenso piacere e delicato cordoglio aveva ampi ricordi di quando aveva sconfitto il temuto Serpente delle Fosse nella sua piccola cittadina di Calisbur, salvando così i suoi concittadini dalla sciagura delle spire della bestia. E ancor di più amava rammentare i numerosi  colpi che aveva inflitto al famelico Idra di Oxbur, quando il suo sovrano glielo aveva comandato. Ne aveva fatta di strada prima di arrivare a ciò che era, e, alla veneranda età di sessant’anni, poteva affermare apertamente che di creature ne aveva affrontate a centinaia. “Un lupo non può terrorizzare un altro lupo”. Questo pensiero lo consolò ampiamente. Il freddo era pungente quella notte. Ser Carl giaceva stravaccato sotto un pioppo, la schiena poggiata sul tronco e le braccia conserte. Il fumo grigio che fuoriusciva dalla sua pipa si sparpagliava nell’aria ad intervalli di tempo più o meno estesi, formando forme contorte ed inusuali. Osservare le tenebre gli dava conforto e lo tranquillizzava sempre. Nel vuoto poi, poco lontano dal suo padiglione, si stagliava l’enorme residuo di quella che, in tempi più prosperi, era stata la cinta muraria della cittadina di Karaan. Le pietre con cui era edificata erano di un nero simile alla pece. “Pare proprio che qualcuno gli abbia dato fuoco” pensò l’anziano mercenario. Le fondamenta di ciò che restava di quelle rovine malandate parevano gengive appuntite, sporgenti da un terreno tanto ostile quanto curioso. Le mura lo stavano scrutando così come lui scrutava il loro snodarsi lungo tutta la valle. Ser Carl era sempre stato affascinato dal mistero e da tutto ciò che sembrava terrorizzare il resto del mondo. Sua moglie, una volta o due, glielo aveva fatto notare aspramente. «Non è un limite, è il mio lavoro. Combatto per salvaguardare gli ideali dei buoni. Rischio la vita, è vero, ma lo faccio per una buona causa». Lei però, non lo aveva mai capito. A volte, Ser Carl ripensava a quei momenti passati con sua moglie, prima che passasse a miglior vita. E vi erano volte in cui Ser Carl pensava con rammarico di non aver dedicato alla sua amata il tempo che avrebbe dovuto dedicarle. C’erano sere in cui Ser Carl si spogliava della sua armatura e abbandonava a lungo il suo gladio sul giaciglio. Era in quelle notti che di Ser Carl restava solo Carl; un uomo come tanti altri, un anziano signore senza casa né alloggio, senza famiglia né amore. Ed era in quelle notti che il suo pensiero si rivolgeva in toto alla sua donna. “La mia casa è l’onore”, così si consolava.                                                                                                                                                              
Un refolo di vento gelido si schiantò contro il corpo del mercenario adagiato sul terreno. Il brivido che lo attraversò per tutta la schiena, ancora una volta, gli bastò per convincerlo a tornare dai suoi uomini. Nell’alzarsi, Ser Carl si resse solidamente ad un ramo sporgente del tronco del pioppo su cui si era accomodato. Poi, ripose la pipa nel taschino. Carl era un uomo dal viso burbero e l’aspetto tozzo (non puramente casuale per la sua età!). Amava portare un’atipica barbetta a punta dai laterali rasati per apparire più giovane. Ma non c’era rimedio, aveva notato troppo spesso, all’anzianità. Oramai, le sue articolazioni si erano irrigidite, la pelle aveva iniziato a cedere e a macchiarsi. Pur tuttavia, per quanto il suo aspetto lasciasse a desiderare, egli era un uomo molto forte ed agile. Lentamente, nella penombra notturna, si apprestò a raggirare l’accampamento in cerca del suo padiglione. Aveva lasciato che fossero i suoi venti uomini a montarlo. “Devono fare le loro esperienze. Feci anch’io la mia quando entrai al servizio di sua signoria Horace l’Ammazza-draghi”. Era da quell’uomo che ser Carl aveva ereditato parte dei suoi valori e, forse, tutto il suo coraggio. In breve, oltre la stradicciola dell’accampamento quadrangolare, ser Carl avvistò il suo padiglione. Impossibile non farlo, dopotutto. I bagliori di luce fioca che emetteva erano tali da poter essere visti da molto lontano. I suoi uomini lo avevano preparato egregiamente. Quando vi entrò dentro, il mondo parve stravolgersi in pieno. Ogni suono notturno si affievolì totalmente, subito sostituito da canti allegri, grida e vocii discontinui. Il suono più dolce, però, era quello prodotto dai boccali di birra che si andavano schiantando lungo il tavolo centrale. Il tepore della sua tenda era un perfetto contrasto con il resto del mondo stagliato di fuori. L’ampio locale su cui era disposto il tendaggio accoglieva una lunga tavolata di legno scuro, un caldo caminetto e numerosi tappeti striati, simboli del riconoscimento che avevano avuto per lui diversi comandanti esteri. Tuttavia, non poté fare a meno di notare che i suoi uomini avevano posizionato la tenda esattamente nel punto in cui egli non l’avrebbe mai posizionata. “Troppo poco distante dalle mura di queste rovine malandate” rifletté amareggiato “e troppo in vista”. Avrebbe preferito passare inosservato. “Inosservato certo, dai giganti”. Era proprio per quel motivo che ser Carl si trova lì quella notte. Re David lo aveva incaricato di portare a compimento una missione davvero tanto complessa: scacciare tre giganti dalle rovine di quella cittadina già tremendamente decaduta. Immediatamente fu fermato da un suo cavaliere.                                                                                                                                 
«Mio signore, bentornato.» lo accolse il ragazzo poggiando l’avambraccio sul suo petto. Era Walter, altresì detto il Monco. Non aveva più il piede sinistro da un pezzo, e al posto del naso cresceva una strana infezione grigiastra. «La luna è alta nel cielo, non è forse ora di sederci?».                                                                                                      
A Carl bastò fare un cenno col capo per vedere Walter muoversi immediatamente. 
Ser Carl non aveva mai imparato a dare ordini, per quanto strano fosse. Pur avendo talmente tanti anni di esperienza alle spalle da essere eletto capo di quella spedizione ardita, egli era sempre stato nulla più di un mercenario dalle umilissime origini. Un uomo che aveva sempre combattuto per sé stesso e nessun altro. Re David, signore di Calisbur, lo aveva insignito mentore dei venti cavalieri che avrebbe dovuto condurre fin dentro le rovine di Karaan. In giro per il mondo aveva ricevuto diversi appellativi. Capo Mercenario, Carl il Senzaterra e Carl Manoguantata erano i suoi preferiti.                                                                                                                                                                                                                
In pochi attimi, tutti i cavalieri che stavano attendendo fuori dalla tenda si catapultarono al suo interno, mentre quelli che vi si trovavano già dentro presero posto alla tavolata. Rapidamente la sede mobile del mercenario fu piena fino ad esplodere. Ser Carl slegò la cappa di cuoio che indossava e la gettò sul letto. Infine estrasse il gladio dal fodero. La lama invecchiava ogni giorno di più, proprio come il suo padrone.  “Un giorno o l’altro dovrò sostituirti, quantomeno prima che tu sostituisca me”. L’impugnatura dell’arma era stata fabbricata a partire dall’osso di un kraken dalle enormi dimensioni. Era stato lo stesso Carl ad abbatterlo, e a decidere che, una volta tanto, avrebbe dovuto tenere un pezzo di uno dei suoi tanti nemici. Sul pomolo svettava la disomogenea caricatura del suo volto giovanile, che era stata fabbricata dal celeberrimo Uggh il Fabbro su sua immagine e somiglianza.  “Ecco un’altra cosa che dovrei sostituire alla svelta” pensò “Preferirei cingere tra le mani la chioma di un leone o le fauci di un drago. Sì, mi darebbe più vigore che cingere le guance glabre di un me ragazzino”.                                                                                                                       
Walter il Monco gli si avvicinò lentamente. Le pieghe delle sua tunica svolazzavano ogni volta che si muoveva. Ser Carl era seduto ad un’estremità della lunga tavolata scura. Entrambi i lati erano pieni di cavalieri assonnati e caotici, immersi in chiacchiere e disquisizioni di dubbia utilità.                                                    
«Questa, mio signore, è per te». Walter estrasse dalla tasca una pergamena recante un sigillo dorato e lo posò sotto il naso di Ser Carl. A giudicare dall’aspetto, quell’epistola doveva essergli stata mandata da Re David in persona. La aprì strattonandola dai lati e ne lesse rapidamente il contenuto. La grafia di Re David era una delle più sottili e curate che avesse mai visto.  
 
“A Ser Cavalier Carlos di Calisbur, augurandomi che la tua combriccola sia giunta sana e salva a destinazione. Ti invito ad osservare per bene tale messaggio. Mauryel mi ha informato circa la presenza assidua di tre giganti nelle rovine di Karaan (di cui se non erro ti avevo già parlato ampiamente). Ho bisogno che tu liberi le rovine affinché parte dei naufraghi delle Isole Belle tornino a vivere nella loro casa. Il ricco fondo monetario mi darà la possibilità di restaurare Karaan, ma per farlo ho bisogno che qualcuno estirpi il male alle radici. Puntualizzo: nel caso in cui dovessimo terminare i fondi, sarà mio compito chiedere dei prestiti esteri, così da non causarti problemi. Abbiamo ricompense per ognuno dei cavalieri che si adopererà grandiosamente per scacciare quelle creature dalla nostra casa. Ti prego di convincere ognuno di loro a seguirti. Trovo inutile ribadire il concetto, dal momento che quegli uomini sono lì proprio per tale proposito. Portami le teste dei tre giganti, Ser Cavaliere, e non ti mancheranno titoli ed onori!”          

La lettera si concludeva così. Nulla di nuovo da aggiungere a ciò che Carl non sapesse già.                                                                   
«Ebbene Walter, grazie per avermela mostrata.» disse Ser Carl. Poi alzò lo sguardo verso il vasto corridoio di teste che lo circondavano. Quando gli occhi gelidi e grigi di Carl incontrarono gli sguardi vacui degli altri cavalieri inesperti, il silenzio calò sulla tenda. “Mi temono come temono i giganti. Ancora qualche ora e dovrò evitare la loro ira”. Ser Carl non poté astenersi dal pensare che, se avessero potuto farlo, sarebbero già fuggiti via tutti. Strinse il pugno sul tavolo, si mise comodo sulla sedia alta ed iniziò impettito:    
«Signori, se siamo qui riuniti è per discutere di una faccenda che ci riguarda ampiamente tutti. Ho piani, soluzioni, problematiche ed ipotesi da proporvi.  E – me ne voglia altamente il cielo se mai dovessi sbagliarmi – vorrei che tutti noi collaboriamo nel migliore dei modi!».                                                                            
Fece una pausa, tirò un sospiro e poi riprese.                                                                                                                                                   
«Al sorgere del sole vorrò trovarmi tra le mani le tre teste dei tre usurpatori che Re David desidera. Non una in più, non una in meno. Se è vero, però, che un gigante equivale a dodici uomini (o forse più), sarà pur vero che per farne due ce ne vorranno ventiquattro. E noi, ahimè, siamo solo in ventuno … mentre i giganti sono tre.»    
Tra tutte le creature che poteva dire di aver visto in vita sua, Ser Carl non aveva mai avuto modo di conoscere i giganti. Creature enormi, si diceva, dalle fattezze umane decuplicate. In molti sostenevano che il loro cervello fosse nemmeno una piccola parte di quello umano. La loro stupidità e la loro ingenuità era tanto grandi quanto la loro possanza e la loro forza. “Be’, non resta che appurare tali supposizioni” pensò.                                         
«Giganti!? » tuonò una voce all’angolo dell’altra estremità del tavolo. La voce apparteneva al giovane Pitywick, un ragazzino tutto brufoli e sogni.                                                                                                                     
«Ovvio, pulcino.» rispose un’altra voce, questa volta proveniente dalla metà sinistra della tavolata. Aveva tutta l’aria di sfottere il ragazzo. «Per cosa credevi di essere stato reclutato? Mangiare i miei polli? Cavalcare una puledra? Sono i Giganti di Karaan lo scopo di questa missione.»     
«Esattamente quelli.»  riprese Ser Carl «Gli stessi Giganti che hanno usurpato questo regno poco tempo fa. Miei prodi cavalieri, siamo qui per combatterli e scacciarli da queste rovine, su ordine del saggio Re David.»                                              
I cavalieri esplosero in chiacchiere ancora una volta. Il dubbio e l’ansia modellarono infine i loro sguardi, e questo preoccupò non poco Ser Carl. “Chenon siano all’altezza di tale impresa?”                                                                                              
«Tutti voi siete stati addestrati a lungo per una missione di tale calibro. Non potete chiedere di restarne fuori proprio ora. Per quanto possano essere spaventosi, i Giganti hanno meno cervello di un branco di cagne.»                                                      
«Conosco i Giganti, messere.» esordì con veemenza una voce alla sua destra «E conosco le loro capacità.»                                                         
A Ser Carl non piacque il tono strisciante con cui si esprimeva quell’uomo. Si trattava di Tom il Tappabuchi, di cui Carl non sapeva dire con esattezza il motivo del suo soprannome.                                                                                       
«Ancor meglio, ser Tom. Conoscere l’avversario ci mette un piede avanti a lui.»                                                                                                                                                                                                                   
«Anche i Giganti conoscono noi uomini». Questa volta fu Edgar a parlare. Ser Carl gli rivolse un rapido sguardo colmo di dissenso, incrociando i suoi occhi con quelli verdi dell’uomo. Ser Edgar era un uomo sulla quarantina dai lineamenti aspri, il naso robusto e la fronte schiacciata.                                                                                                                                                                                    
«Vero» ribatté Ser Carl «Ed è anche vero che noi abbiamo modo di pianificare per gran parte della notte.  Non per nulla ho dato ordine di montare questo padiglione.»                                                                                   
Padiglione in cui calò il silenzio. Ser Carl, adesso, udiva soltanto lo scricchiolio del fuoco ardente sulla pira accanto al tavolo. In breve riprese a parlare:                                                                                                                                                                 
«La mia idea è semplice: entrare, ovviamente, all’interno delle mura diroccate di questo ammasso di rovine, e quindi recarci a cercare i nostri nemici. Ho già detto, però, che non è possibile farlo senza prima averne discusso. Per cui, ecco ciò che intendo fare nel dettaglio. Ci divideremo in tre gruppi, e così esploreremo le vie di Karaan. Siamo una compagnia di ventuno uomini, per questo, se non avete nulla da obiettare, ho deciso che ogni gruppo sarà formato da sette membri.»                                                                                                                                   
Qualcuno ovviamente obiettò, altri tacquero, altri ancora risero o imprecarono. Infine però fu una sola voce a prevalere sulle altre; quella di Walter.                            
«Sette cavalieri contro un gigante?» domandò il ragazzo, la faccia butterata completamente contratta in un’espressione di incredulità. «E come crederesti di farcela?»                                                                                           
Con tenacia, arguzia ed un pizzico di coraggio” pensò Ser Carl, ma ciò che disse fu: «I numeri non fanno la differenza, Walter. È la strategia che prevarrà questa notte. I Giganti saranno colti nei loro giacigli senza che neppure se lo aspettino. Noi saremo pronti all’attacco, ma loro?»                                                                                          
«Un Gigante non ha bisogno di essere pronto all’attacco» ribatté Nick, un uomo slanciato e snello a cui mancavano totalmente i capelli. Immediatamente si levò un coro di dibattito lungo tutta la tavolata.                                                            
«È vero cavaliere» fu costretto ad affermare Carl «Ma noi dobbiamo compiere comunque la nostra missione. Negli anni ho affrontato diverse creature con diversi tipi di linguaggio, debolezze e forze. Nessuno di loro ha avuto il bisogno di prepararsi all’attacco. Come credete allora che io sia sopravvissuto? La fortuna aiuta, vero (o almeno ciò mi è stato detto numerose volte), ma di certo non combatte i nemici. Questa notte solo il vigore della vostra lama potrà fermare la forza di quei bruti. E io voglio che sia esasperata, la vostra forza. Fatelo per tornare insiemi ai vostri cari, fatelo per Re David … e se proprio dovete, fatelo per il bottino.»                                                                                                                                                                          
«Bottino!?». Ogni cavaliere presente a quel consiglio di guerra parve rizzarsi sulla sedia. Perfino l’innocente Walter sembrò incuriosirsi molto a quelle parole.                                                                                                                              
«Che genere di bottino?» chiese uno dall’aspetto trasandato ed asciutto.                                                                         
«Qualsiasi genere. Re David non ha certo problemi a procurarvene uno. E mi è stato detto che ha già messo in palio oro e denaro, e in più ricchezze infinite per colui che taglierà la testa al Gigante più grosso.»                                   
Questo era in parte una bugia. Ser Carl sapeva però che, talvolta, le bugie avevano dei buoni fini.                                                                    
«Umh» sospirò infine un grasso cavaliere di nome Bock «Facile a dirsi, Ser Carl. E come dovremmo capire chi tra i Giganti è quello più grosso? Misurandolo forse? Dovrei circumnavigarlo o scalarlo contando la sua altezza in piedi … ma ci vorrebbero due vite per farlo!»                                                                                                                  
«Basterà azzardare, ser Bock. Non è questo il punto del nostro consiglio di guerra.» Ser Carl si sporse in avanti e fece cenno a Walter di portargli una pergamena ingiallita recante la mappa di Karaan. Quando il ragazzo gli fu abbastanza vicino, Carl afferrò il suo braccio. «Già che ci sei, ragazzo, penso che dovrai portarmi anche una candela. Anzi, prendine due. Non ho più la vista di una volta.»                                                                                       
Infine, alla luce dei due ceri, usati anche per fermare le pieghe agli angoli della pergamena, Ser Carl e gli altri venti cavalieri presero ad ispezionare passo per passo la mappa di quelle enormi rovine.                                                                                    
«Qui» disse Ser Carl indicando un punto specifico della mappa «Si estende la porta principale. Un tempo era presidiata giorno e notte da guardie petulanti che ne sbarravano il percorso. Ora però non è difficile accedervi. Si trova esattamente sopra la collinetta, quasi di fronte al pioppo da cui oggi l’ho guardata.» Per un instante tamburellò con le dita sul tavolo attendendo una risposta. Ma, dato che nessuno ebbe da ribattere, continuò. Mosse il dito lungo la via retta che collegava l’ingresso a quella che sembrava essere una piazza. «Da qui, procederemo a gruppi. Sette andranno a nord ed ispezioneranno la zona. Sette andranno ad ovest e osserveranno che non vi sia nulla. E gli ultimi sette, andando ad est, controlleranno che i Giganti non siano dalla loro parte. Chi li trova prima manderà un messaggero a comunicare con gli altri gruppi, conoscendone le posizioni. Così, in caso di attacco, i gruppi torneranno solidi e saremo di nuovo in ventuno.»                                                                          
«Un numero comunque basso» lamentò ser Otto scuotendo la testa. «Non parliamo di ventuno mila soldati.»            
«È tutto ciò che possiamo permetterci. Fa’ silenzio!» lo rimproverò Walter.                                                                                                                                           
«Bene, qualcuno ha domande? Credete sia …»                                                                                                    
«Impossibile» lo fermò una voce gelida alle sue spalle. Era stato Tom a parlare. Il cavaliere stava fumando da una pipa, producendo di tanto in tanto contorte figure geometriche di fumo grigio. Con fare baldanzoso, Tom appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo. «La porta è collassata su se stessa quando i Giganti hanno fatto irruzione nella cittadina. L’ho visto con questi occhi, e non giuro il falso.»                                                                                                                              
«Oh be’ Tappabuchi, questo non è proprio vero dopotutto. Ho ispezionato personalmente l’entrata. Non una sola pietra sbarra il percorso. Né un qualsiasi altro intralcio. L’ingresso sarà pure collassato su se stesso, ma pare che qualcuno l’abbia ripulito velocemente, e che l’abbia reso agibile altrettanto rapidamente.»                                                                 
«Questo piano non ci aiuterà molto, messere.» affermò Tom «Dovrai chiedere a Re David delle truppe ausiliarie, o periremo tutti. Chi prima chi dopo.»                                                                                                                
Come se non lo avesse già fatto. Ser Carl era anziano, non stupido. Più di una volta aveva fatto presente a Re David che la missione avrebbe ottenuto esito positivo solo in presenza di più membri. Ma, non a causa sua, Re David non aveva potuto reclutare altri uomini. Lo stesso Ser Carl, comunque, aveva tentato di addestrarne un gruppetto. Erano quattro, però: Datter, Wulbert, Toryn e Victor. E nessuno di loro aveva accettato di seguirlo verso le rovine di Karaan. “Siamo nati dalla terra e la terra dobbiamo difendere. Specie quella che ci appartiene. Chi si rifiuta dà piena libertà agli altri di definirlo un codardo.”                                                                                                                        
Ser Tom si alzò in piedi e squadrò dall’alto al basso tutti i suoi compagni. «È una missione suicida. Non un solo Gigante è entrato da quella porta. Questo è tutto un inganno, ecco cosa vi dico. L’ingresso era troppo piccolo e stretto per permettere a creature tanto grandi di passare. La vecchia Karaan è stata tradita dai  suoi stessi cittadini, e per loro ha perito. Sono stati loro a condurli dentro le mura, ve lo dico io.»                                                
«Deliri, ser Tom. Che quell’erba ti abbia dato al cervello?» replicò Edgar al suo fianco.                                                      
«Non deliro, ser Edgar. Io parlo di ciò che ho visto. Conosco due di quelle creature. I loro nomi sono Melghiorro ed Ermo. Hanno mani grandi quanto un macigno e braccia poderose e spesse. Vivevo a Karaan prima che quelle bestie insorgessero contro di noi. E avevo una moglie, una figlia e una madre. Morirono tutte e tre, e il cielo mi costrinse a vederle cadere sotto i miei occhi. Melghiorro dilaniò le carni di mia madre. Ermo, quello più tozzo, sfondò la mia casa con la forza di tre elefanti inferociti, distruggendola fino alle fondamenta. Mi salvai solo io, messer Carl, che voi vogliate credervi o no. Io l’ho visto con questi occhi.»    
«Desolato, Tom. Pur tuttavia, credo che dalla voglia di vendetta scaturisca il migliore dei cavalieri. Usufruisci di questa forza, ser.» Ser Carl tentò di trovare qualche buona parola per consolarlo. «Ahimè, credo sia ora che anche altri vedano con i propri occhi queste rovine. E dobbiamo farlo prima che sorga il sole.»                                                                                        
Tom il Tappabuchi fece per sedersi.                                                                                                                                           
«Tom, un momento». Ser Carl lo fermò. «Hai detto di aver visto i Giganti. Potresti parlarcene brevemente?»     
Ser Tom parve irrigidirsi sul colpo. Poggiò entrambe le mani sul tavolo e si resse facendo peso sulle braccia.                                                
«Messere, preferirei non farlo in verità. Ma se proprio devo, lo farò. Ecco, quando arrivarono a Karaan innanzitutto la terra tremò sotto i nostri tetti. I loro piedi erano grossi e callosi, e parevano delle barche a remi più che dei normalissimi e comunissimi piedi. Avevano facce burbere e butterate, stranamente contorte dalle loro espressioni accigliate. Lineamenti duri, rigidi, contratti e grandi il doppio … oh no, che dico; venti volte più grandi dei nostri! Non so perché si scagliarono contro di noi scendendo dalle loro case nelle montagne dell’Est. So soltanto che lo fecero con tremenda spietatezza. Mancavano di ogni senso di umanità, distruggevano le cose, schiacciavano le genti, gli animali, le case e perfino i campi. Si dilettavano nel vederci implorare di smetterla. Oh, i due che conobbi erano davvero molto stupidi, questo mi preme dirlo. Melghiorro ed Ermo finirono addirittura per litigare ad un certo punto, e si ferirono a sangue. Ma il vero problema, la vera minaccia, era rappresentata dal più tosto dei tre: quello più grosso … oh sì messere. Circa venti metri tondi di creatura colossale, forte, robusta e spessa come centomila lastre di marmo. Irremovibile, ecco com’era. Ringrazio il cielo per non avermelo fatto conoscere.»                                                              
«Come ti salvasti, ser Tom?» chiese interessato Pitywick di fronte alle facce stupite e stranite dal racconto.                                         
«Fuggii dalla postierla che vi è sul bastione principale, e nessuno mi notò. Anzi, adesso che ricordo bene non fu proprio così. Ci arrivai alla postierla, verissimo, ma prima scappai per circa dieci minuti dalla prepotenza di Melghiorro. Mi inseguì urlandomi dietro ripetutamente “Ti prenderò, scoiattolo rosa!”. Non so cosa volesse dire con quelle strane parole. Quando trovai la postierla, Melghiorro non era ancora stato sfiancato dalla corsa. Anzi, tentò di acciuffarmi con le mani fino alla fine della fenditura nella parete. Per fortuna mi allontanai prima che quel mostro mi prendesse. Immediatamente andai a chiamare aiuto a Calisbur, la cittadina più vicina. Ma dapprima le guardie mi cacciarono. Re David era in visita a Wetflower, e non mi fu permesso soggiornare nel suo regno. Fui costretto così ad errare per le locande e a chiedere prestiti, talvolta ingenti, ai passanti. Mangiavo alle tavole dei poveri e passavo il tempo a mungere vacche, far pascolare le capre o allevare maiali. Infine però, Re David mi accolse con estremo piacere e ascoltò ciò che avevo da dirgli. Dal mio rapporto, informò te, messere, e ti comandò di liberare Karaan. Era stato commosso dalle mie parole, più di quanto lo ero stato io. Piangerò sempre mia figlia e mia moglie, ma più di tutti mia madre. Se tu dovessi scacciare quelle bestie dalla mia terra, forse verserei anche lacrime di gioia. E quindi eccomi qui, Ser Carl. Non hai di fronte un cavaliere, ma solo un uomo che potrà indicarti la via giusta da seguire. Non so, effettivamente, come si impugni una spada. Mi perdonerai se mi sono rivelato solo ora.»              
Male.” Pensò Ser Carl “Davvero molto male. Re David avrebbe dovuto informarmi. È pur sempre un uomo in meno.”                                                                    
«Capisco.» disse Ser Carl serrando il pugno sul tavolo «D’accordo. Dobbiamo trovare un’altra entrata allora, nessun dubbio su questo. Proposte?»                                                                      
«Guarda, Ser Carl» Bock indicò una stretta entrata praticamente opposta a quella principale. Per arrivarvi bisogna raggirare le rovine. «Questa entrata. Perché non entrare da lì dietro?»                 
«No».  A rispondere fu lo stesso Tom il Tappabuchi, ancor prima che Ser Carl potesse prender parola. «Quella via è già stata utilizzata dalla legione di Ser Vincent il Leone Rosso. I Giganti si precipitarono sulla sua schiera in un battito di ciglia, spezzando la loro difensiva in un attimo. Potrebbero essersi posizionati lì nell’attesa dell’arrivo di un nuovo esercito nemico. O potrebbero aver piazzato trappole lungo quel percorso.»                                                                                                  
«Come fai a saperlo?» chiese Walter.                                                                                                                                     
«Mi è stato riferito, nel periodo in cui vagai per le numerose locande della zona. Il popolo non fa altro che blaterare su questi avvenimenti di grande interesse. Spesso, però, non tutto ciò che insinua è bugia. Un mio noto amico faceva parte della schiera del Leone Rosso, ma riuscì a vivere tanto a lungo da raccontarmi tutto questo. Infatti, poco prima che i Giganti si abbattessero su di loro, lui disertò e lasciò la battaglia con il capo fiero.»                                                                                      
«Codardo» commentò qualcuno.                                                                                                                                                                            
«Ser Carl» lo chiamò Walter interrompendo quel discorso «Non abbiamo più tempo. È già passata un’ora dall’inizio della riunione. Non possiamo permetterci che il tempo scorra ancora. Dobbiamo anche sistemare alcune cose. Forse, è arrivato il momento di andare.»                                                                                                    
«Andrà» sputacchiò Edgar «Dagli tempo, ragazzetto. È un uomo coraggioso Ser Carl»                                                                                                            
«Andremo» lo corresse Walter in tono austero. «O stai già temendo di perdere la testa, ragazzetto?»                                                          
Ser Carl vide sorgere un misto di rabbia e incondizionata furia nei lineamenti di Edgar. Di colpo il cavaliere serrò bruscamente la mascella. In un battito di ciglia, Edgar si scagliò contro Walter e lo gettò per terra facendo volare la seggiola del ragazzo dall’altra parte del padiglione. Altri cavalieri si gettarono nella mischia per separarli. Altri ancora stavano urlando e imprecando. Uno, ser Tom, pregava il cielo ad alta voce. Nel padiglione regnava il caos, in un esplosione di voci, urla, pianti, rumori, fischi e schizzi di sangue.                                                                                                                                                                                                      
Di questo passo i Giganti si sveglieranno prima della conclusione di questo maledettissimo consiglio.”                                    
Ser Carl si alzò sui talloni e batté entrambe le mani contro il tavolo. La forza che impiegò nel farlo gli fece sanguinare una ferita non ancora totalmente risanata sul braccio. Nella furia fece scivolare a terra la sedia su cui sedeva. Perfino la pergamena con la mappa di Karaan volò via dal tavolo, ed una delle candele si spense. «Re David ha affidato questo compito a me!» urlò. L’intera compagnia tentò di ricomporsi alzandosi da terra o tornando a fissarlo, ma Ser Carl continuò imperterrito. «Non permetterò che una combriccola di scansafatiche continui con questi discorsi senza capo né coda. Tutti voi siete invitati a seguire me, a seguire il vostro onore. Ho una missione da svolgere. Non darò a voi la possibilità di impedirmi di portarla a termine. Avete di fronte un cavaliere, un vero cavaliere. Se siete qui per azzuffarvi come delle scrofe, allora forse siete nel posto sbagliato. Non intendo continuare oltre. Vi ho mostrato largamente i miei piani, le mie idee. Abbiamo avuto modo di discuterli e confrontarci. Adesso basta. Restino i leali e i coraggiosi, il resto corra via e sia dia alla fuga … con la coda ritirata sotto la sottana.»                                                                                                                                                                       
Si girò nuovamente verso l’ammutolito ser Tom. «E ora cavaliere, indicaci la via per arrivare a questa postierla …»  

Quando nella tenda furono rimasti soltanto in due (Ser Carl e Walter), calò nuovamente il silenzio. Il cavaliere anziano aveva mandato tutti i suoi compagni nelle loro tende, per prepararsi alla lunga notte che li avrebbe attesi tra molto meno di un’ora. Walter, fino a poco prima che questa missione avesse inizio, era stato il suo più fidato scudiero. Era un ragazzo di vent’anni che sembrava molto più piccolo a causa del suo volto asciutto e i suoi occhi vivaci. “Potrebbe essere mio figlio” pensò Ser Carl guardandolo muoversi da un punto all’altro della tenda in cerca della cotta di maglia del suo Ser. Carl aveva sempre immaginato come sarebbe stata la sua vita se sua moglie gli avesse dato un figlio. “Probabile che non avrei mai preso parte a questa missione. Anzi, probabile che non avrei preso parte a questa vita.” La vita da mercenario era aspra, talvolta fin troppo austera e cieca. Glielo aveva insegnato Horace l’Ammazza-draghi. “Me lo diceva sempre. Sposa una bella donzella, cavalca una fresca giumenta, bevi alle tavole di assassini, vincitori e vinti. Uccidi, soffri, perisci. Ferisciti o curati. Ma non sperare nemmeno un secondo di diventare unmercenario. La vita che ti offrirebbe questo grado apre numerose porte, ma ne chiude di più.”                    
«Lassù» disse Ser Carl indicando il manichino su cui era posata la sua cotta con l’intento di facilitare le ricerche del ragazzo.                                                                        
Quando Walter gliela portò, Ser Carl notò che il ragazzo stava tremando. Appena lui si accorse che il suo Ser lo stava fissando, nascose velocemente le mani dietro la schiena.   
«Non cercare di nasconderti, Walter. Siamo tutti nervosi.» lo consolò. Walter si limitò a sorridergli forzatamente.   
Ser Carl indossò velocemente la cotta di maglia e la stese sul suo corpo lisciandola per bene con entrambe le mani.                    
«Portami il mio elmo.» comandò, poi si alzò dalla poltrona color porpora su cui si era seduto. Afferrò dal letto di piume la sua arma e la sfilò dal fodero. Alla luce dei ceri, il gladio di Ser Carl proiettò numerosi bagliori bianchi lungo tutte le zone del tendaggio. Era un’arma piuttosto tozza e corta, com’era giusto che fosse quel genere di arma. Gli era stata affidata da suo padre prima di abbandonarlo. A Carl piaceva ogni particolare del suo gladio dalla lama disadorna. Oltre ad essere piuttosto spessa, possedeva anche un’impugnatura stabile e comoda. Con quel gladio Carl aveva combattuto più creature di quante ne ricordasse. E, per quanto corto fosse, era sempre rimasto integro e sano, senza mai sfaldarsi e senza mai dargli il complicato bisogno di essere riforgiato. In assenza di Walter, Ser Carl improvvisò un contorto combattimento contro il nulla, giusto per testare la sua lucidità. Aveva bevuto durante tutta la durata del consiglio di guerra, lo faceva sempre prima di un combattimento. “Meglio essere poco lucidi quando si va incontro alla morte” pensò. “E meglio morire con il piacere di aver bevuto fino a poco prima”. Con un fendente squarciò l’aria, quindi gli inflisse un colpo aspro con un affondo. Pose nuovamente la lama all’altezza della testa, si spinse di lato e inflisse un altro fendente.   

«Ottimo lavoro!» si disse. Poi si sporse sul fianco destro e diede un altro colpo. 
«Mio signore …» lo richiamò Walter. Quando Ser Carl si girò vide arrivare il giovane con in mano l’elmo dal lungo pennacchio a più colori. A quel punto ripose il gladio ed appese il fodero alla cintola sul fianco. «Ecco qui il tuo elmo! È pieno di piume ed irto di punte, poni attenzione.»                                                                                  
«So com’è fatto il mio elmo.» rispose Ser Carl sorridendo.                                                                                                                                               
«Oh scusami, Ser.» piagnucolò Walter. «Però è bello solido! Non deve passare un solo colpo qui in mezzo, immagino.» Walter batté la mano sinistra sull’elmo scuro e la sollevò di scatto. «Ahia!» urlò in un misto di imbarazzo e vergogna dopo essersi ferito con uno degli spuntoni dell’elmo stesso. Poi lo posò sul letto.                 
«Aiutami a mettere quest’armatura.» ordinò a Walter. Il ragazzo afferrò la corazza da due lati e la tirò su di forza. Dalle spalle, Walter tento di cingerla ai fianchi del mercenario. Quando l’ebbe indossata, Ser Carl si sentì più sicuro. “Mi sta molto larga” notò “Be’, un tempo non era così. Sono fatto rachitico.” L’armatura era lucida e pulita. Lo stesso Walter si era occupato di smaltarla prima di portargliela, ed aveva fatto un ottimo lavoro. Si era anche preso la faticosa briga di passare la cote sul gladio di Ser Carl. “È un bravo ragazzo, e mi dispiace averlo tirato in questa situazione agghiacciante. Ha ottime capacità, però. Meglio utilizzarle per qualcosa di utile, quindi.”                                                        
«Ser Carl» chiamò Walter stringendo ancora un po’ la placca pettorale «Posso parlarti con sincerità?»                                        
«
Ovviamente, ragazzo.» rispose Carl.                                                                                                                                          
«Ecco vedi, volevo dirti che … che quell’uomo non mi è simpatico per nulla. Mi spiace dirlo, ma non mi piace come parla e come si comporta. E mi spiace pensare che non sia dalla nostra parte.»                                             
«Oh be’, sarei rimasto stupito se mi avessi detto che tolleravi il suo comportamento. Dopo esserti salito addosso questa sera, è normale che tu nutra rancore nei suoi confronti.» Ser Carl parlò come avrebbe potuto parlare un padre per consolare un figlio. «Però il rancore è la morte dell’onore. Tieni lontano l’odio per i tuoi compagni quando sei in gruppo, o finiremo per sfaldarci.»                                                                                                                   
«Oh no, Ser, non mi riferivo a quel meschino di Edgar. Io parlavo del Tappabuchi.»                                                                                  
Quelle parole non piacquero molto a Ser Carl, e Walter lo notò immediatamente.                                                               
«Scusami, forse non avrei dovuto parlare … oh no che non avrei dovuto farlo!»                                                                                     
«Perché diffidi dell’onestà di ser Tom?» chiese dubbioso Ser Carl. Walter aveva smesso di allacciargli l’armatura. Nel mentre, Ser Carl si fece passare la gorgiera di cuoio giù per il capo.                                                                                         
«Oh nulla, Ser. Soltanto stupide fantasie di una mente ingenua. Fa’ come se non avessi parlato!» Walter era scosso nuovamente. “Oh Walter senza cuor di leone!” pensò Ser Carl “Come potrai seguirci nella mischia?”                                
«Ma tu hai parlato. E continuerai a farlo, Walter, o ti dovrò dare una sberla» gli intimò Ser Carl.                                                                                                                                   
«Vedi, poco prima che iniziasse il consiglio io mi trovavo in giro per perlustrare il campo e per osservare la luna. Mi avevi ordinato così, dopotutto. Be’, nel girare intorno alle rovine di Karaan, proprio nel punto in cui l’angolo del bastione meridionale sporge verso l’interno della città, vidi venir giù dalle mura lo stesso ser Tom. “Che ci fai qui?” gli chiesi allora, del tutto scioccato dalla sua presenza. Non mi sarei aspettato di vederlo uscire da Karaan. Pensavo stessero montando tutti il padiglione. “Potrei chiederti la stessa cosa” mi rispose lui. Io lo guardai per un paio di secondi, poi lui fece uno strano segno con il dito sotto il collo, e s’incupì.»                                                    
«Umh» sospirò Ser Carl «Guardiamo la situazione dal suo punto di vista. Magari stava facendo un giro nella sua città natale solo per nostalgia dei vecchi momenti. Da ciò che mi ha raccontato, aveva una famiglia dentro quelle mura, ed una casa solida e sicura. O magari aveva solo bisogno di svuotare la vescica in santa pace e lontano da sguardi indiscreti.»     
«Magari» ribatté Walter. «Ma c’è un’altra cosa, Ser. Quando lo vidi, ho dimenticato di dirti, ser Tom era sporco di sangue sulle ginocchiere.»                                                                                                                                                          
Sangue…” pensò Carl “Impossibile che fosse il suo sulle sue ginocchiere. Quel cavaliere ha un qualcosa che non vuole far sapere, vero. Dietro alla sua spavalderia si nasconde un agnello fragile come i rami di un castagno in autunno. Forse tutto quello che non vuole mostrare è che, come tutti, il suo cuore non dimentica l’amore passato.”                                                                                                                                                                                         
Tutto ciò che però disse fu: «L’elmo, Walter. E i guanti. È arrivato il momento di vedere quel che c’è da  vedere.»                          

I brividi che avvertì quando furono sotto le stelle del cielo cupo di quella notte non erano causati dal freddo. Ser Carl in armatura, si trovava di fronte ai venti cavaliere della sua compagnia. Nel complesso, quell’ammasso di uomini pareva un fiume in piena dello stesso color dell’acciaio. Ser Carl indossava la sua armatura lucida (talmente tanto da potervi specchiare sopra qualsiasi cosa). Sul fianco sinistro teneva la cintola con il fodero di cuoio del suo gladio. Il pennacchio dai tanti colori sgargianti faceva capolinea sull’elmo scuro, cadendogli giù per la spalla. Perfino Walter si era vestito per l’occasione. Aveva indossato solamente l’armatura opaca che gli aveva regalato Ser Carl durante i suoi primi anni da scudiero. Al posto di un elmo, sul suo capo calzava una cuffia ben imbottita, scura come il terriccio bagnato. Tra l’ammasso d’uomini, Ser Carl avvistò tutti i membri della sua compagnia. Bock, enorme nella sua gonfia armatura nera, indossava un bacinetto che copriva totalmente il suo volto paffuto. Sulla mano destra teneva saldamente uno scudo dalle enormi dimensioni. “Chissà quanta forza impiega per reggerlo. Sopportare  quel peso è troppo affaticante e limita molti movimenti” commentò Ser Carl.                                                                                                            
Gli unici esseri viventi ad emulare dei suoni nell’accampamento erano i pipistrelli notturni che giravano attorno all’ammasso di cavalieri, emettendo stridii discontinui e fastidiosi. Perfino gli stessi cavalieri erano ammutoliti. L’accampamento poi era stato totalmente svuotato, non vi era nessuno ancora nelle tende. Ora che le luci si erano spente dentro ogni alloggio, e ora che il seggio mobile di Ser Carl (quello più grande) si era svuotato, il tutto appariva desolato e smorto. Ognuno emanava tensione ed ansia, e i loro volti erano scavati dall’inquietudine e dalla paura di non sopravvivere a quella notte. Quando Carl iniziò a camminare, ognuno dei cavalieri gli si accodò dietro, e tutti lo seguirono per molto tempo disposti in fila indiana. Attraversarono insieme un lungo sentiero scavato nella roccia, contorto e di goffo andamento. La stradina conduceva alla postierla, o almeno questo gli era stato detto da Tom il Tappabuchi. Il fatto era che, essendo strettissima, il gruppo di venti cavalieri fu costretto a camminarvi restando in fila l’uno dietro l’altro. E, essendo appesantiti da armi, scudi ed armature, questo li rallentò non poco. Quando giunsero di fronte alla parete in cui Tom sosteneva si trovasse l’entrata segreta, trovarono soltanto una fenditura strettissima, in cui la via s’incuneava riducendosi notevolmente. Quella, era la postierla d’entrata ed uscita segreta alla cittadina di Karaan. Secondo le parole di Tom, l’unica entrata (oltre a quella principale notata da Carl, ma troppo scoperta) sopravvissuta al disastro causato dai tre Giganti furibondi.                                                                                                                                                       
«La via è troppo stretta» lamentò Bock innervosito. «Dovremmo spogliarci delle nostre armature e delle nostre pelli per passare.»       
«Raggiriamo la città, si entra dalla porta principale.» suggerì Edgar incamminandosi già lungo la via di ritorno.                                                                                                                                                                                                    
«No» lo fermò Ser Carl terrorizzato dalla sola idea. «Tornare indietro sarebbe troppo dispendioso. Non perderemmo solo energia, ma occuperemmo anche troppo tempo. Passeremo dalla postierla. E passeremo uno ad uno, o finiremo per restare incastrati l’uno dietro l’altro dentro questa fenditura segreta.»                                                                                                     
Nessuno ebbe nulla da ridire, ma Carl vide angustiarsi Bock, Edgar e qualche altro cavaliere.                                                                                     
Walter entrò per primo dentro la fenditura, essendo il più magro e quello meno coperto d’acciaio. Per farlo dovette posizionarsi di profilo, e strisciare lentamente lungo le due pareti. In breve, dopo esservi entrato, di Walter non si vide più nemmeno l’ombra.                                                                                                                             
«Il prossimo» disse Ser Carl.         
«Vai tu Ser Carl» ribatté Bock «Se il cielo vorrà farmi restare incastrato nella postierla sarai tu a tirarmi da là dietro, così come sei tu a volervi entrare a tutti i costi.»                                                                                                                                          
Carl non tenne conto di quel genere d’accusa, Bock lo faceva solo per stuzzicarlo e convincerlo a cambiare idea. «Entrate solo quando ve lo comanderò io. Tenete le orecchie e gli occhi puntati sulla postierla. Se non sentite alcun comando, non avvicinatevi alla strettoia. Uh, e se rimango dentro, ser Bock, non tirarmi fuori certo tu!»          
Ser Carl strisciò dentro la fenditura, osservando la parete che aveva di fronte e non l’apertura. In quel modo strisciare era più comodo. Provò ad entrare, ma la postierla era talmente stretta che l’armatura non glielo consentì. Tentò di tirarsi dentro la pancia trattenendo il fiato, ma non cambiò molto. Pertanto, strisciò con violenza lungo i due muri della postierla. Lo fece fino a quando la sua armatura non fu talmente tanto rigata e levigata sulla base di quello spazio, da farvi passare dentro il cavaliere con enorme difficoltà. Quando fu dentro l’apertura segreta, il battito del suo cuore si acuì notevolmente. Era strano trovarsi così scomodo in una situazione simile. Il naso toccava la parete che aveva di fronte, mentre quella che aveva dietro era totalmente poggiata sulla sua schiena. Non c’era nemmeno un po’ di spazio per respirare. “Il cielo mi aiuti” pensò “Non voglio restare bloccato qui dentro”. Prese fiato e si diede un’altra spinta, questa volta più forte, verso l’uscita. Vedeva qualcosa dall’altra parte, qualcosa di luminoso. Doveva essere la luce della luna splendente sulla pietra bagnata della strada di Karaan. Questo, gli diede forza. La visione di una fiaccola di speranza lo aiutò a concentrarsi sull’uscita. Solo e soltanto su quella. Appoggiò entrambe le mani alla parete che aveva di fronte, una piegata talmente tanto da costringerlo a pensare che si stesse spezzando. Ancora una volta si spinse dentro maggiormente. Gli mancava l’aria all’interno di quella via stretta. Ser Carl rivolse gli occhi al cielo, anche se alzare la testa verso l’alto fu la fatica più grande del momento. «Walter» mormorò «Sei arrivato?»                                                                                                                                                                                                                      
Nessuno rispose dall’altra parte. Che non lo sentisse? Ser Carl stava per perdere i sensi a causa della mancanza d’aria. Aveva il petto bloccato dalla cotta di maglia, sotto l’armatura incastrata tra le due pareti troppo ravvicinate. Tra un boccone d’aria e l’altro, Carl provo a piegarsi in avanti per strisciare un po’ più comodamente. Ma nemmeno questo servì a molto. Anche quei movimenti piccoli, tanto quanto bastavano per sporgersi in avanti, erano impediti dalla postierla. «Non mi resta che pregare» bofonchiò sputando un grumo di saliva sulla parete. Chiuse gli occhi per un momento e nel buio cercò di tastare la roccia fredda. Improvvisamente fece un altro passo e si diede una spinta più forte. Tenne gli occhi chiusi ancora ed ancora. Un passo, poi un altro. Fece un balzo verso l’alto, tentando di liberare la placca pettorale dall’incastro su cui era rimasta bloccata. Batté dapprima il gomito sulla parete posteriore, poi strattonò il braccio con tale forza da spaccare il guanto d’acciaio della mano sinistra. La mossa violenta dell’uomo fece piovere dall’alto una cascata di polvere rossa, che gli cadde sopra ricoprendolo dalla testa ai piedi. Ciò rese i suoi movimenti un più impacciati e lo costrinse ancora un po’ a tenere gli occhi chiusi. L’intonaco che era venuto giù dalle pareti della postierla gli si attaccò sul volto madido di sudori. “Un altro passo, su, ser Gambemolli!” . Ancora una volta si strattonò, prima avanti e poi indietro, ed infine si mosse tanto rapidamente da precipitare improvvisamente per terra. Tastare il terreno con la faccia gli diede un momento di felicità e stupore. Era uscito. Ser Carl si rimise immediatamente in piedi, ed iniziò a pulirsi. Ci vedeva davvero poco, aveva tenuto gli occhi chiusi per così tanto tempo che ora tutto il mondo sembrava essersi incupito. Appena guardò verso la postierla per urlare ai suoi compagni di entrare, si ricordò di Walter. Non appena si fu girato, vide l’impensabile. Erano capitati proprio nel luogo in cui due Giganti stavano giacendo. Ser Carl andò in agitazione. “Dov’è Walter?” si chiede “Se è successo qualcosa a quel ragazzino io non me lo perdonerò mai!” . Immediatamente notò come la luce che aveva intravisto dall’interno della postierla altro non era che un enorme falò di tronchi d’alberi bruciati al centro di una piazzola su cui i due Giganti erano distesi. Accanto alle braci ancora scoppiettanti, sulla sinistra, penzolava un enorme calderone scuro.   
Le creature non sembrava lo avessero notato. «Mio signore» lo chiamò una vocina stridula e sussurrata.     
«Walter! Per l’amor del cielo, che ci fai lì sotto?» chiese Ser Carl quando vide che Walter si trovava vicinissimo al nemico. Era vivo, vero, e questo non poté che consolare Ser Carl. Ma ciò non implicò la fine delle preoccupazioni del mercenario. Il suo uomo, quel ragazzino tanto giovane e rovinato, si trovava esattamente sotto la coscia piegata di uno dei Giganti, in uno spazio simile ad una caverna. Forse non se ne era neppure reso conto. Ser Carl si avvicinò furtivamente ai due giganteschi figuri che si stagliavano contro l’immensità oscura del cielo notturno. Da quella distanza, Carl poté vedere meglio verso che genere di creature stava camminando. Uno, quello seduto sulla sinistra, era poco più alto di due case poste l’una sopra l’altra. Aveva braccia e dita nodose, spesse e rigide. Il suo volto burbero era enorme, acceso da un’espressione di ingenuità. Aveva orecchie flosce e capelli lunghi che gli ricadevano copiosi sulle spalle. La creatura copriva le sue nudità con un mucchio di foglie e licheni distribuiti regolarmente sul bacino. Su una mano reggeva un enorme bastone ricavato dal tronco possente di un albero abbattuto e ripulito dai rami. Nel dormire, il Gigante aveva sbavato totalmente il terreno su cui posava la testa, facendo sì che si formasse una disgustosa pozzanghera di saliva. L’altro, quello posto sulla sinistra, invece, era molto più tozzo e grasso. L’adipe gli ricadeva a rotoli lungo il grosso ventre rigonfio. Il suo enorme volto paonazzo era perfettamente sferico, e sotto il suo grasso naso facevano capolinea due enormi mustacchi sporchi e ad ingialliti, che gli penzolavano fin oltre il mento. Gli mancavano totalmente i capelli, ma aveva peli su tutto il petto. Anche lui, come l’altro Gigante, portava un ammasso intricato di rami secchi e foglie verdi per coprire le parti del corpo presenti dal bacino in giù. Ser Carl osservò i suoi piedi. Erano enormi. Aveva unghie ingiallite e dita callose e spesse, sporche e nere come il carbone. Accanto ad uno di quei piedi giganti giaceva, coricato sulla pancia, l’inerme Walter. Solo allora, Ser Carl, si rese conto che i Giganti stavano dormendo. Quando vide avvicinarsi Carl, Walter scattò via da quel rifugio, e corse verso il suo Ser. Fu allora, per disgrazia del cielo, che uno dei Giganti aprì istantaneamente gli occhi, scorgendo improvvisamente i due.                                                                                                                                                   
«Mostri!» urlò. La sua voce era tonante e possente, molto simile al rombo cupo di un tuono durante il peggiore dei temporali. Il Gigante ancora coricato su un fianco chiese: «Che siete, cosi rossi?»      
La creatura si pose su i due piedi, e nell’alzarsi tutta la terra parve scuotersi. «Mostri!» urlò ancora, e questa volta lo fece con più forza.                                                                                                                                                                                   
Sia Carl che Walter erano completamente ricoperti di terriccio rosso, che li aveva macchiati dall’elmo ai piedi. Perfino il pennacchio colorato di Ser Carl era diventato completamente rossastro. Carl stava tremando, ma tentò di non farlo notare a Walter.                                                                                  
«Dietro di me, ragazzino» lo ammonì. Poi si avvicinò lentamente al Gigante terrorizzato dalla loro presenza, la mano poggiata all’elsa del gladio sul fianco.    
Dall’altro lato, anche il secondo Gigante si svegliò all’improvviso, portando in alto il bastone di legno scurissimo e facendolo vibrare nell’aria.     
«Che succede, Melghiorro?» chiese appena vide l’amico innervosito dalla presenza degli uomini. Immediatamente andò sull’attenti portando avanti il bastone.     
«Guarda là, Ermo!» urlò il primo. Quindi indicò con il dito tremante Carl e Walter, l’uno posto dinanzi all’altro.                                                                                                                                                                                                  
Il Gigante che sembrava chiamarsi Ermo osservò accigliato Ser Carl, poi lentamente squadrò anche Walter. Sui loro volti si dipinse un’espressione di cupa incredulità e meraviglia.                                                                                   
«Che sono questi … cosi?» chiese Melghiorro.                                                                                                                                                                                                                 
«Come che sono!?» domandò retorico Ermo «Sono … sono … Che siete?»                                                                 
«Siamo …» “Cos’erano?”, avrebbe dovuto trovare una risposta in grado di salvarli da tutti i possibili svolti della situazione. « … siamo Ummoni» disse infine. La parola “ummone” in realtà non significava proprio nulla. Ser Carl aveva appena inventato quel termine, solo per vedere come si sarebbero messe le cose in quel modo. Di certo non sarebbe stato molto consono rivelare le loro identità di fronte ai Giganti, avevano distrutto un regno e massacrato tanti poveri innocenti. Se si fossero rivelati come uomini, che cosa gli avrebbero fatto?                                                                                                                                                                     
«Ummoni? E che sono?» chiese Ermo grattandosi il mento con tanta forza da far venire giù strati di pelle.                                  
«Si mangiano?» domandò dall’altra parte Melghiorro stendendo le gambe per stiracchiarsi. 
«Eccome se si mangiano!» rispose Ser Carl. «Ma siamo spietati, signori Giganti. Figuratevi che noi, nelle nostre tribù, ci mangiamo l’un l’altro. Ecco perché siamo rossi. È il sangue di tutti i nostri cari che abbiamo divorato.»                                                                                                                                              
Melghiorro spalancò la bocca stupito. «Non ho mai visto un Ummone in vita mia. Di dove siete?»                                                              
«Veniamo dall’Ovest.» Fu Walter a rispondere questa volta.                                                                                                                                    
Quando Carl sentì parlare Walter ricordò di aver lasciato un intero gruppo di compagni fuori dalla postierla, tutti in attesa di un comando. In un modo o nell’altro quegli uomini dovevano avere il diritto di partecipare a quella missione.                                                                                                                                                         
«Melghiorro, come pensi che li mangerà Bargo? Bolliti e spellati oppure crudi?» Ermo rise di buon gusto insieme al suo compagno. Ser Carl rise dietro di loro. «Sapete, siamo molto più gustosi senza peli.»
Probabile che dall’altra parte, Walter stesse pensando che Ser Carl fosse impazzito sul colpo. In realtà Carl aveva in mente qualcosa che li avrebbe potuti salvare. I Giganti, si accorse, non li avevano riconosciuti come uomini (forse perché interamente coperti di fuliggine rossa ed ingigantiti dall’armatura). “Magari il cielo è dalla nostra parte questa volta.” Pensò entusiasta  Serl Carl.                                                                                             
«Non gli piaceranno, dico io.» replicò Ermo «Guardali, sono troppo grassi. E a lui il grasso fa schifo.»                     
«Grassi? L’ultimo cibo che ci hai fatto mangiare tu era così grasso che dovetti dividerlo in cento pezzi prima di ingoiarlo. Quello faceva schifo, ed Ermo non si lamentò.»             
«Ah è così? Razza di idiota! Nella tua stupida vita non avevi mai mangiato un montone migliore di quello.»                             
Melghiorro parve tentare di sostenere la rabbia, ma non ci riuscì. Improvvisamente colpì il terreno con un pugno. Poi, con la medesima furia, tirò lo stesso pugno sul volto di Ermo. Quest’ultimo si alzò tuonando qualcosa di impossibile da decifrare ed imprecando contro il compagno, poi gli riservò un colpo sullo stomaco talmente forte da fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere per terra sulle natiche. Il Gigante sputò un grumo di saliva ai piedi del compagno.                                
«Mangia questo, idiota.»                                                                                                                                                                                   
«Miei signori» disse Ser Carl alzando le mani al cielo «Cercate di quietarvi. Non siamo poi così grassi come pensate. Ho amici che sono molto più smilzi di me, ve lo assicuro.»                                                                                            
«Io non li vedo» commentò Melghiorro fissandolo cupo. «Li hai mangiati tu?»                                                                                                                   
«No, in realtà quelli li ho conservati per voi.»                                                                                                                                     
«Se lo hai fatto, allora, saprai dirci anche come possiamo cucinarvi. Cotti o bolliti? Con o senza le piume e i peli? Dobbiamo disossarvi? Oh, e gli aromi e le spezie vi insaporiscono? Quale parte del vostro corpo è migliore? I piedi, le mani, le braccia, gli occhi, il naso, le dita, la lingua, le budella, il cervello? E che ci dite della vostra cottura? Scalciate come gli animali quando state per essere bolliti?» 
«Mi spiace dirvi che non so nulla di tutto ciò. Però so per certo che dentro siamo pieni di vermi che si muovono implacabilmente quando stiamo zitti.»                                                                                                             
«Vermi!?» tuonò Ermo «Stupido Melghiorro che diavoleria mi stai portando a tavola?»                                                               
Melghiorro gli assestò un calcio sul polpaccio, scuotendo il terreno sotto i piedi di Ser Carl.                                                                                        
«Non dire fesserie, grasso idiota di un Ermo. Fino alla scorsa sera mi hai fatto mangiare quel tuo montone che di vermi ne aveva a centinaia. Sapeva del tuo alito.»         
«Parla ancora del mio alito, e il montone te lo tiro fuori dallo stomaco con le mani.» minacciò Ermo. La loro voce era possente e profonda, tanto da disperdersi nell’aria come il peggiore dei boati.                                                            
«Miei signori, non innervositevi. I nostri vermi sono nutrienti quasi quanto noi e, vi ripeto, sono innocui quando parliamo.»                                                                                                                                                                              
«Allora non smettere di farlo» suggerì ridendo fragorosamente Melghiorro «Così noi ti cuciniamo mentre.»                                                                                                    
«Cosa blateri, Melghiorro, testa di cane?» domandò furente Erpo. Il Gigante si sollevò da terra un’altra volta, dandosi una spinta sulle braccia per farlo. Il suo peso era talmente tanto elevato che dovette reggersi ad uno sperone delle mura di Karaan per sollevarsi completamente. «Questi cosi hanno vermi dentro. E io non mangio vermi. Ficcateli su per il naso e crepa con tutti quegli esseri, io vado a chiamare Bargo.»                                        
Anche Melghiorro si alzò in piedi. Egli, era poco più basso di Erpo, ma possente il doppio. Il Gigante si scagliò contro il suo compagno, caricando su di lui con la forza di sette carri di buoi. Quando i due si scontrarono, Carl parve assistere ad un terremoto. Ogni cosa vibrava ad ogni impatto tra i due corpi giganteschi. Il mondo parve immergersi in un’immensa cacofonia di suoni disomogenei e scosse implacabili. Intorno a loro le mura di Karaan, già parecchio rovinate, iniziarono a vibrare in un modo sconnesso e molto preoccupante. Parecchie pietre caddero sul terreno infrangendosi sotto i loro piedi. La stessa terra iniziò pian piano a franare. Carl spinse di lato Walter quando i due Giganti passarono sopra di loro con le loro immense gambe sporche. Entrambi si gettarono a terra e cercarono un riparo.                                                                                                                            
«Walter!» Ser Carl chiamò l’attenzione del ragazzo. «Ascoltami bene. Ho un piano. Va’ alla postierla e chiama tutti dentro, fa’ che entrino uno ad uno e che giungano senza armatura. Faciliterà loro il cammino e l’ingresso nella fenditura. Di’ loro di colpire le par …». Dovette fermarsi perché, con un pugno, Ermo infranse  il muro superiore dello spazio concavo in cui si erano rifugiati. Melghiorro approfittò della mossa del compagno per sollevare un enorme macigno e scaraventarglielo sul collo. Quando Ermo ricevette il colpo si chinò in avanti e afferrò il polpaccio di Melghiorro, poi lo strattonò con talmente tanta forza da farlo cadere a terra. «… di colpire le pareti!» continuò Ser Carl con l’intento di sovrastare il rombo delle voci dei Giganti litigiosi.«E comandagli di macchiarsi il più possibile di rosso! Spiega il mio piano, spiega i miei intenti. Assicurati che non siano spaventati e preparali alla loro parte. Intesi?»                                                                                                                                   
«Intesi, mio signore.» affermò Walter. Poi ruotò sul fianco cercando di scansare le pedate che si stavano infliggendo i due Giganti e, certamente non visto da loro, corse fino all’angolo della via in cui si trovava la postierla e lo girò. Ser Carl si alzò su due piedi e urlò ai Giganti di smetterla con tanto vigore da poter  spezzare facilmente un tronco di quercia. Ermo e Melghiorro, ancora per poco avvinghiati l’uno all’altro e pieni di lividi violacei sul corpo, si ricomposero davanti a lui. Melghiorro corse verso Ser Carl con foga. Il povero mercenario ebbe giusto un attimo per scansarsi di lato, ma la forza bruta del Gigante lo acciuffò lo stesso. In un istante, Melghiorro lo sollevò per la collottola, allo stesso modo in cui Ser Carl poteva sollevare un gattino.                                                                                                                                                                                                 «Che dici» chiese all’amico «Lo bolliamo prima?»                                                                                                                                             
«Se ti azzardi ad infilare ‘sto coso nell’acqua io te lo infilo da qualche altra parte.»                                                                  
Quell’idea fece rivoltare lo stomaco a Ser Carl. «Miei amici, mi potrete mangiare solo se sto in silenzio. Non voglio che i miei vermi vi facciano infezione. Sapete, sono enormi quei vermi. E velenosi. Ma solo se non  parlo, sia chiaro.»                      
«Che razza di animaletti viscidi che siete. Vi teniamo in considerazione solo perché non mangiamo da ore. Altrimenti avrei già cucinato un montone. » si lamentò Ermo accucciandosi su se stesso. Melghiorro sollevò un altro po’ Ser Carl. Il Gigante lo teneva alto sul pentolone colmo d’acqua, i piedi penzolanti nel vuoto. Con un mero movimento del braccio lo fece saltare in aria e lo afferrò dai piedi, mettendolo addirittura al contrario. Da quella prospettiva Ser Carl poteva vedere sotto la sua testa l’enorme pentola d’ottone su cui sarebbe caduto da lì a poco, e l’enorme essere che lo cingeva nella sua morsa possente. Era molto più brutto, visto al contrario. “Non temere Carl” pensò alle parole di Horace l’Ammazza-draghi “È facile ingannare gli stolti, ma molto più facile ingannare gli stolti che pensano di essere potenti.”                                                                                                               
«Sapete una cosa? L’ultima volta che mi trovai in una situazione simile ero in compagnia di un troll di montagna. Quella creatura mi teneva come mi stai tenendo tu, e aveva tutte le intenzioni di divorarmi mentre parlavo.»     
Melghiorro lo strattonò un po’. Ser Carl volteggiò prima a destra e poi a sinistra, guardandosi bene dal tenere la mano ferma sull’elsa del gladio per evitare che cadesse.   
«E che successe?  Ti divorò?» domandò Melghiorro allargando le narici.                                                                                  
«Ma che diamine dici, idiota che non sei altro. Come può averlo divorato se ‘sto coso rosso si muove ancora!» urlò Ermo. Poi riservò all’amico un manrovescio tanto potente da lasciargli impressa sul volto l’impronta rossa della sua mano. Melghiorro incassò il colpo urlando solo “Ahia”.    
«No, non mi divorò, ovviamente. Fu spaventato quando vide che, mentre facevo silenzio, un enorme verme lungo quasi dieci piedi mi sbucò fuori dalla bocca, con tutte le intenzioni di divorarlo, pungerlo o infettarlo.» Il miglior modo per far sì che i Giganti li lasciassero era terrorizzarli. Inoltre, Ser Carl doveva prendere tempo per far sì che i suoi amici entrassero a Karaan dalla postierla e si ricomponessero. Non aveva mai avuto una buona inventiva, né un pizzico di immaginazione. Ma, così come sapeva, spesso (molto spesso, in verità) in presenza di situazione sfavorevoli, certe capacità gli sbucavano fuori addirittura dal nulla.    
«Troll di montagna! Che creature viscide quelli lì. Tutti pustole e bolle, non si lavano mai, sapevi?» disse Melghiorro.                                                                                                                                                                                       
«Melghiorro» chiamò Ermo ridacchiando spudoratamente «Immagina se quel Troll era Cargo. Il verme sarebbe svenuto per il tanfo delle sue ascelle, altro che infettarlo. Oh oh, e immagina se era Torgor. Si sarebbe suicidato pur di non morderlo. Ci deve ancora un agnello, quel Torgor. Ora che ci penso devo dargli ancora le botte che si merita per non avercelo ridato in tempo, l’agnello.»                                                                        
Lo stesso Melghiorro esplose in una risata assordante.                                                                                                                            
«Miei signori, crederete che vi sto raccontando il falso probabilmente, ma non è così. Giuro e rigiuro che quel Troll si chiamava proprio Cargo. E sì, come mi dite puzzava a dismisura. Uno dei miei amici Ummoni svenne quando annusò l’aria attorno a lui. Ma torniamo alla mia storia. Quando questo Troll, Cargo appunto, mi disse: “Se continui a parlare ti butto dentro ancora vivo”, io lo accontentai. Gli avevo detto chiaramente che, stando zitti, noi Ummoni siamo pericolosi. Ma lui era spavaldo. Spavaldo e puzzolente, direi. E non ha creduto ad una sola parola. Allora io ...» Ser Carl s’interruppe per lanciare uno sguardo a sinistra e velocemente uno a destra. Non vi era ancora nessuno dei suoi.                                                                     
«Continua, non fermarti.» rantolò Ermo. Ser Carl non capì perché glielo avesse detto. Magari era curioso, o magari aveva paura dei vermi. Il pensiero allietò non poco Carl. 
« … io tappai la mia bocca e, in meno di dieci secondi, un enorme verme strisciò fuori dalle mie gengive e lo percorse lungo il corpo.»   
«Oh!» ghignò Ermo «Lo strangolò?»                                                                                                                                                                 
«È la mia cena e io gli faccio le domande, idiota!» lo rimproverò Melghiorro. Poi gli assestò un pugno sul braccio. «Lo strangolò?»  
«Ovviamente» rispose Ser Carl amplificando lo stupore e la curiosità dei due Giganti. «Dapprima gli si arrotolò attorno al collo, poi tirò con tutta la forza che aveva. Infine lo punse e lo mordicchiò sulla testa.»                                       
«Impossibile!» constatò Ermo «Cargo non è morto. Quel troll è più vivo di me.»                                                                 
«Certo, perché infatti non morì.» spiegò Carl. «Il mio verme decise che non c’era motivo di lasciarlo morire senza averlo fatto prima soffrire. Sta ancora pagando per le sue pene, ora che tanti piccoli vermi crescono nel suo stomaco.»                                                                                                                                
Entrambi i Giganti rimasero scioccati da quelle parole. Nei loro volti contratti sorse un’espressione di disgusto e paura. 
«Mi poggeresti per terra un momento, signor Gigante? Ho bisogno di sgranchirmi un po’ le ossa, e trovo che sia una posizione migliore per raccontare una storia.»   
«No» rispose secco Melghiorro. Anzi, il Gigante, per dispetto probabilmente, lo fece oscillare a destra e a sinistra ancora una volta. Ser Carl sentì sopraggiungere alcuni conati di vomito, ma si trattenne. Il movimento che fece gli bastò per osservare aldilà dell’angolo, e così vide arrivare uno dei suoi cavalieri.                                          
«Parla, coso rosso! Non voglio vedere il tuo parassita.» lo ammonì Ermo.                                                                                                                    
«Oh ecco» riprese Ser Carl «Una volta che il Troll rimase vittima di quello scherzo, io e un altro mio amico Ummone fuggimmo oltre le dune rosse d’occidente e andammo in cerca dell’Idra Rosso dell’Ovest. Ma sarà lui a parlarvene, guardate … è proprio lì!»                                                                                                                                                         
I due Giganti si girarono di colpo, e in quell’istante fece il suo ingresso Pitywick completamente rosso di paura e polvere. Vestito di pesante acciaio, Pitywick sembrava davvero molto grosso visto da quella direzione.                                                                                                                                                                                                   
«… per l’appunto girammo per molto tempo le dune rosse alla ricerca dell’Idra, e lo trovammo!» esordì Pitywick facendo il suo ingresso. I Giganti erano meravigliati, Melghiorro stava iniziando ad allentare la presa su Ser Carl. «Ma quanti siete?» chiese a Carl.                                                                                                                       «Siamo molti, con molti vermi. Ma ora ascoltate.»                                                                                                                                                                                                                
«Quella creatura aveva tre teste, ciascuna di un colore diverso dall’altro. Da sinistra i suoi colli erano giallo, viola e rosso. Sapete, non aveva ancora il dono della parola, per cui non fu molto facile comunicare con lui, anzi dov… »                                                                                                                                                                                                                             
«No no no no» sbraitò Ermo bloccando la narrazione «Così non va bene per niente. Melghiorro da’ da parlare a ‘sto coso che hai in mano, o quello ti esce il verme!»    
Ottimo” pensò Ser Carl “Proprio ciò che volevo”. In breve, quando Carl iniziò a narrare per Melghiorro, Pitywick continuò a rivolgersi all’altro Gigante.                                                                                                                                                 
«… così, riservammo all’Idra una cattivissima lezione. Io rimasi muto come lo era lui, ed il verme che fuoriuscì dal mio naso gli si arrotolò sulla gola della testa gialla. Lo stesso fece il verme dell’Ummone che tiene il tuo amico in mano, infierendo sulla gola viola dell’Idra. Il mostro morì strangolato, senza fiato né aria nei polmoni.»   
«Impossibile!» rilevò Ermo fermando nuovamente la narrazione. «L’idra, mi hai detto, aveva tre teste e quindi tre gole. Non sapete contare voi Ummoni? Eh, voi di gole ne avete strangolato solo due …»                                   
«Errato, signor Gigante» ribatté Pitywick «Infatti, il terzo verme uscì da …»                                                                    
«ME!» urlò una voce piuttosto tonante. Ermo si girò in direzione del suono, scrutando un altro ospite. Si trattava di Bock, riconobbe Ser Carl, il quale ammiccò nella sua direzione quando lo vide. “Non sono mai stato così felice di vederti, Bock!” pensò. Bock si era spogliato della sua armatura per entrare nella postierla, e non era macchiato proprio bene di polvere rossa. Comunque, quel dettaglio si notava davvero poco, anche perché maggiore attenzione poteva essere posta sul bacinetto che indossava.                                                      
«Oh cielo, che cosa sei tu?» chiese Ermo a Bock, notando una differenza piuttosto marcata sul suo volto.                                             
«Un Ummone, ovviamente.» rispose fiero Bock. «E questa faccia così disomogenea mi è stata causata dal morso del Leone di Odorg.»   
Ermo parve insospettirsi. «Cosa!? Il Leone di Odorg morì molto tempo fa! Com’è possibile ‘sta cosa?»                         
«Per l’appunto, sto dicendo che morì dopo avermi morso. Mi è bastato non parlare più per ucciderlo.»                                    
Ermo parve ricordare che non poteva lasciare senza parole Pitywick, infatti si girò di scatto e gli diede corda. «Continua a parlare tu! Parlami di te.»  
Mentre Pitywick blaterava cose insensate, e mentre Ser Carl cantava una nenia come ordinatogli da Melghiorro, Bock prese a parlare di questo Leone di Odorg.                                                                                                                              
«Dopo aver sconfitto l’Idra, io e miei due compagni risalimmo verso casa. E lungo la strada fummo intercettati da un contadino che urlava impaziente: “Odorg è in pericolo! Mia moglie è sotto le grinfie del Grande Leone Dorato. Vi prego, aiuto, aiuto, aiuto!”. Così, con tutto l’onore della cavalleria, ci spingemmo verso Odorg. A quel pun… »                                                                                                                                                                                         
«Cavalleria?» domandò perplesso Ermo, portando all’indietro la chioma fluente. «I cavalieri hanno cavalleria.» 
«Cavalleria?» ripeté Bock «Ho detto galanteria. Se tu confondi fischi per fiaschi come vuoi che possa raccontarti una storia?»  
«Continua a parlare, Ummone» Ermo redarguì Pitywick che si era fermato «E anche tu, Ummone malformato, continua!»                                                                                                                                                                        
«Ad Odorg combattemmo contro il Leone Dorato. Dapprima lo sfiancammo, poi … poi con uno stratagemma gli legammo tutti e quattro i piedi. Io restai in silenzio per primo, ed il mio verme (vedessi quanto è lungo!) gli legò la zampa sinistra anteriore. Poi quelli dei miei compagni fecero lo stesso con le gambe restanti.»   
Al che il Gigante parve insospettirsi un momento. Perfino una mente sottile come quella sua poteva notare che i calcoli non erano del tutto esatti.                                                                                                                                                      
«Ma scusa» iniziò «Il Leone di gambe ne ha quattro. O era malformato come te?»                                                         
«Assolutamente! Infatti la quarta gamba gli fu legata da un altro verme parassita, quello …»                         
«Mio!» esordì una voce proveniente sempre dall’angolo. Ser Carl notò con immenso piacere l’arrivo di Edgar, che stava camminando impettito verso i due giganti, e che quindi aveva accettato l’idea di attraversare la postierla.                                                                                                                                                                                                          
«Un altro …» notò Ermo storcendo il naso. Il Gigante stava iniziando a notare che qualcosa non andava. Ad ogni modo, gli era impossibile far parlare tutti i presenti senza far sì che qualcuno restasse in silenzio.                                 
«Tu, Ummone malformato, continua a raccontare la storia all’altro amico tuo. E tu, nuovo arrivato, prosegui il racconto che sono curioso! Melghiorro, tieni d’occhio questi che parlano e fa’ parlare quello che hai in mano.»                                                                                                                                                                                  
«Dopodiché» iniziò Edgar, che non sapeva probabilmente da dove iniziare. «Un Re di cui non ricordo il nome (abbiamo la mente corta noi Ummoni), ci ordinò di andare ad uccidere la Chimera di Toppertown.»                          
«Una chimera?» domandò allibito Ermo. «Mai vista una. Ma mi hanno detto che sono terribili!»                                        
«Chi te lo ha detto ha un ottimo criterio di valutazione, Gigante. Quella bestia, a Toppertown, era la metà di te. Eppure, per noi era grossa. Così, io feci da scaletta ai miei amici. Sopra di me si posero i miei compagni. Quella bestia aveva quattro bocche fameliche e pronte a colpirci. Sai, aveva per code (ne aveva due, infatti) dei serpenti, e aveva anche un volto da capra ed uno da leone. Forse il Leone Dorato voleva vendetta, e così si era trasfigurato in quell’animale viscido e spietato, moltiplicando la sua possanza. Sta di fatto che dopo averlo combattuto a lungo, il mio amico, quello che l’altro Gigante tiene in mano, fece sì che il suo verme legasse le quattro zampe della bestia. Infine, l’Ummone malformato e quest’altro (al che indicò Pitywick) liberarono il loro, di verme. Entrambi legarono due teste; quella da leone e quella da capra. A me rimasero i serpenti nella coda. Devo ammettere che non fu facile abbatterlo, ma il mio verme ne stritolò uno fino a fargli perdere ogni goccia del suo veleno viola.»                                                                                                                                       
Anche Ermo era senza parole adesso. Dall’altra parte, sempre nella morsa stretta del pugno di Melghiorro, Ser Carl giaceva a penzoloni. Mentre Back e Pitywick parlavano, dall’angolo lontano, Carl scorse la figura del suo compagno Tom.                                                                                                                                                                                                     
«Non mi pare vero» affermò Ermo. «Qualcosa non mi torna. O sei così stupido da non sapere raccontare, oppure qualcun altro vi ha aiutati.» 
«La seconda, direi. Infatti, ecco lì chi mi aiutò!»                                                                                                                           
Dall’angolo fece capolinea Tom il Tappabuchi.                                                                                                                           
«Un altro coso rosso.» disse Ermo sempre più confuso. «Non riesco più a reggervi. Parlate tutti e mi date fastidio. Ma se non parlate ci fate fare la fine delle creature che dite di avere ucciso.»                                                                                            
Quel piccolo spazio in cui erano posti i Giganti stava andando riempiendosi sempre di più. Ora i boati e i vocii delle narrazioni che si accavalcavano (insieme ai canti o alle parole senza senso di chi, come Pitywick, era stato costretto anche a parlare da solo) e dei Giganti che si lamentavano erano diventati insopportabili. Ermo sembrò contenere la furia per poco tempo, poi sfogò la sua rabbia repressa sull’amico. Melghiorro, concentrato a cantare qualcosa con Ser Carl, ricevette un colpo in pieno viso. «Oh, che diavolo fai, testa di zucca?»                                                                                                                                                                                                     
«Te l’avevo detto io che tutti questi cosi rossi ci avrebbero dato fastidio. Ora te li mangi tu, io non li voglio nemmeno toccare. Sei tu a fare schifo, quindi sei tu a mangiare le porcherie che trovi.»                                                                     
Melghiorro non resse l’offesa. All’istante si dimenticò di Ser Carl e mollò la presa per scaraventarsi sopra il compagno. Il mercenario cadde in pieno dentro al calderone pieno d’acqua fredda (per fortuna!), bagnandosi totalmente da capo a piedi. L’acqua lo ripulì del pulviscolo rosso e si tinse di sfumature scarlatte. Ser Carl tentò di aggrapparsi al bordo dell’enorme pentolone d’ottone, e ci riuscì al solo terzo tentativo. Attorno a lui Melghiorro ed Ermo erano tornati ad acciuffarsi senza sosta, e questa volta avevano iniziato a menarsi con forza davvero bruta. Uno di loro, addirittura, urlava imprecazioni ad altissima voce. Ser Carl scese a terra ponendo i piedi sul lastricato. Era bagnato fradicio, e i refoli freddi di vento che si infransero sul suo corpo gli congelarono il sangue nelle vene. In breve notò che tutti i suoi compagni erano lì. Walter era posto dietro l’angolo con numerosi cavalieri della sua scorta (forse tutti), Bock, Pitywick ed Edgar erano in piedi sotto una colonna diroccata. Ognuno di loro si copriva il volto con le mani. Mancava qualcuno però … Carl, per quanto potesse sforzarsi di cercarlo con gli occhi, non riuscì a trovare Tom il Tappabuchi. «Mio signore!» lo richiamò qualcuno. La voce era appena udibile nel mezzo di quel trambusto di grida tonanti e sonori latrati. Ma ciò, comunque, non limitò Ser Carl dal sentirla. Era Walter a chiamarlo, ancora una volta. Il ragazzo tutto rosso sul viso gli indicò qualcosa più avanti. Ser Carl rivolse gli occhi verso la direzione mostratagli, e scorse qualcosa (anzi qualcuno!) che avrebbe preferito non vedere. Chissà perché tutto ciò non gli piaceva per nulla. Ser Carl corse verso Walter cercando di evitare di essere schiacciato dalla furia dei Giganti in rissa.                                                                                                                       
«Walter, ancora una volta ti affido un incarico. Appena quei due smetteranno di azzuffarsi, continuate con questa messinscena finché non si saranno confusi talmente tanto da lasciarvi andare via. Io lo seguirò.» Quando Carl finì di parlare, al gruppetto nascosto dietro l’angolo si erano uniti anche Bock, Pitywick ed Edgar. Walter estrasse la spada e la rivolse al cielo. «Ed io seguirò te, mio signore.»                                                                                               
«No» ribatté Ser Carl asciugandosi le mani ancora un po’ fradice contro la parete. «Tu mi sostituirai, invece. E se non dovessi tornare, assicurati di portare tutti sani e salvi fuori da questo inferno. Vedrò se non lo farai e ti perseguiterò dopo la morte.» Walter tirò su con il naso e Ser Carl gli pose una mano sulla testa inumidendogli completamente la cuffietta di cuoio. Nel buio di quella notte nessuno seppe più dire cosa tra gli occhi di Walter e il corpo di Carl fosse più bagnato.                                                                                      
«Non andare solo, Ser Carl. Stando ai resoconti di quell’uomo (e supponendoli veri) c’è un altro Gigante in giro … molto più gigante.»                                                                                                                                                                 
«Esattamente. Io mi attengo alle informazioni di Re David, comunque, non a quelle di Tappabuchi. E, per concludere, sono coraggioso (te lo concedo), mica pazzo!» esordì Ser Carl. Poi si girò verso i tre compagni che lo avevano aiutato con i Giganti. «C’è un Gigante da uccidere, ora. Massacrare quello ci darà la possibilità di mettere in fuga questi. Ser Bock, ser Edgar e ser Pitywick, siete disposti a seguirmi ancora una volta?»                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

I quattro cavalieri stavano percorrendo una via stretta e poco illuminata quando udirono un enorme rombo nel più alto dei cieli.     
«Un temporale?» domandò sospetto Bock «Ci mancava soltanto questo …»                                                                                                                 
«Non un temporale, Bock. Questa, ragazzi miei, è la furia del Gigante. Quello vero.»                                                                                                                                     
Tutti i membri di quel piccolo gruppo furono terrorizzati dalla quella severa verità (Carl compreso). I quattro continuarono ad avanzare nei corridoi di strade e viottoli che si dipanavano all’interno delle rovine di Karaan. Al buio di quella notte poco illuminata, il loro passo era incerto e per nulla stabile. Non v’era alcuna luce all’interno di quella matassa di stradicciole solcate dal gelido freddo della notte. In lontananza, Ser Carl avvistò un uomo correre e voltare immediatamente a sinistra. Doveva essere Tom, senza dubbio. «Per di qui!» ordinò Ser Carl. In fretta aumentarono il passo fino a trovarsi dinanzi ad una locanda diroccata e franata da parte a parte. Dal momento che la via proseguiva solo verso sinistra, girarono in quella direzione. Sulla strada in cui sbucarono, lungo il corso più o meno scosceso delle pareti delle mura che la richiudevano, Ser Carl scorse una fila immensa di torce accese. “Qualcuno deve essere stato qui.” pensò “Le torce non si accendono certo sole.” Notò anche come il fuoco era vivido e forte. Il rosso guizzante delle fiamme nelle pareti proiettava lunghe e contorte ombre oscure nella stradicciola. Quelle strane sagome nere, loro controfigure, sembravano osservarli dall’alto al basso. Le ombre erano tenebrose, nere, vive. I respiri affannati e nervosi dei suoi amici si condensavano grigi dinanzi alle loro bocche. In fondo al lungo corridoio di tenebre e sassi, Ser Carl avvertì un ticchettio spaventoso. «Seguitemi!». E tanto fecero i suoi compagni. Ancora una volta la via li costrinse a voltare a sinistra, per poi confluire in un’altra stradina più bassa e buia. Lungo le pareti si estendevano colonnati alti e per la maggior parte diroccati o ceduti. Ser Carl ed i suoi uomini avanzarono alla cieca per un lungo lasso di tempo. Poi, un altro urlo squarciò la notte. Ser Carl posò la mano sull’elsa del gladio allacciato al fianco. Stringerlo nel pugno gli dava coraggio, sempre. Bock si strinse dentro la maglia di ferro come un furetto si sarebbe raggomitolato dentro al suo tronco. Mentre imboccavano un’altra traversa che tagliava obliquamente la loro, ser Pitywick agguantò l’elsa della sua spada, sporgente lucida dalla spalla destra.                                                                                                                            
In quell’istante attraversarono una serie di ripidi scalini che conducevano ad un livello rialzato dalla città. Passati sotto un immenso arco sorretto da altrettanto enormi colonne ben decorate, si ritrovarono in uno spazio vagamente ampio. Il foro aveva forma quadrangolare ed era circondato da mura che percorrevano i suoi lati. In quel luogo, tutto ciò che videro bastò a far gelare sei volte il sangue a Ser Carl. Tom il Tappabuchi sporgeva dal camminamento di uno di quei muri sopra le loro teste (e tanto sarebbe bastato a detestare squilibrio in Carl), ma ciò che più non poteva non essere notata, era la presenza di un Gigante due volte più grosso di Melghiorro ed Ermo. 
Dietro le sue spalle, Bock, Pitywick ed Edgar stavano fremendo. Tutti erano tesi, nascosti dietro ad una delle colonne della cinta muraria.                                                                                                                                                                        
«E così ti congedi, o Tommason il Tappabuchi. Nonostante la tua giovane età vuoi farmi credere che sia arrivato il momento di tappare il tuo, di buco.» esordì il Gigante. La sua voce era davvero molto grave, e da sola bastava a superare in possanza quella dei suoi altri amici. Il suono profondo prodotto da quelle parole recitate con lentezza, racchiudeva in sé la brutalità di un sisma, la tenacia delle onde sempre in combutta con gli scogli della terra, il suono del più grande dei corni di battaglia e il rumore spaventoso della furia di una frana. Carl fu scosso da un brivido di paura.                                                                                                                              
« … ho fatto ciò che mi hai chiesto. Adesso basta!» urlò quella che sembrava proprio essere la voce tremolante di Tom.     
«Ser Carl» lo richiamò Edgar «Quell’uomo ci ha traditi. Lascia che la mia lama cali per prima su di lui.»                                                                                    
«Quell’uomo non sopravvivrà tanto a lungo da rivederci, Edgar.»                                                                                                                      
«Lo spero per lui.» rantolò Pitywick «O dovrà vedersela con tutti noi.»                                                                                                                         
«Spero non accada.» rispose Ser Carl.                                                                                                                                    
«Signore!» esclamò Bock «State a sentire!»                                                                                                                                                               
Tom stava urlando contro il grosso Gigante. Non si capiva bene cosa stesse dicendo, però. Vi fu un tuono (o forse fu solo il cupo ringhio del colosso che avevano più o meno vicino), poi tutto ciò che si sentì fu un tonfo che sciamò nell’aria fino ad attutirsi completamente. Infine, calò il silenzio più totale.                                                                                 
«Venite!» ordinò in un rauco sussurro Ser Carl. L’uomo condusse tutti i suoi compagni su per un’altra rampa di scalini che dovevano condurre al camminamento delle mura. Proprio lì sopra, al congiungersi tra l’ultimo scalino e il camminamento del bastione, sulla sinistra, si trovava un ampio spazio dedicato a quello che sembrava un box edificato sulla base di una torre di vedetta crollata su un lato. Al suo interno vi erano alcuni stalloni fieri e ben nutriti, dai muscoli sporgenti e la criniera folta. Tutti e sette cingevano tra i denti una morsa che, per mezzo di un laccio spesso, li precludeva dentro ad uno spazio poco largo. Le povere bestiole erano attaccate ad un carro di legno. “I Giganti le avranno rubate a qualcuno con l’intenzione di nutrirle, vederle ingrassare e poi divorarle.” pensò Ser Carl “Che colpa hanno in tutto questo?”. Ser Carl si sporse in avanti per osservare meglio la via sul vallo. Di ser Tom non v’era neppure l’ombra. Mentre Ser Carl dava un’occhiata furtiva in giro per quel luogo, Bock si avvicinò alla stalla.                                                         
«Sembrano ottimi cavalli. Se riusciamo a prenderli potremmo rivenderli per comprare delle armi migliori, oppure potremmo tenerli per gareggiarci.» ipotizzò il cavaliere avvicinando la mano ad uno dei sette stalloni. Ma quando fu vicino ad una di quelle bestie, quello nero dagli occhi castani s’impennò sulle due zampe posteriori, nitrendo e scalciando furioso. Improvvisamente il silenzio presente nell’aria venne tramutato in un trambusto di versi, e lontano (o forse non molto!), si udì lo sconfortante rumore di un sasso che si andava sgretolando e di frammenti che rotolavano sulla pietra. Ser Carl si pietrificò sul colpo. «Quietali!» comandò sussurrando il mercenario. «Sii rapido! Oh, venite, venite! Qui dietro su, accucciatevi qui!»  
Ser Carl li fece accomodare tutti e tre dietro uno dei colonnati sporgenti dalla parete. Lui s’infilò dentro il box coi cavalli, e si coprì di paglia e sterco secco. Calò nuovamente il silenzio. Non una sola mosca, né il solo fischio ruggente del vento, era udibile in quel momento. Poté vedere i volti dei suoi compagni indurirsi e arrossarsi. Pitywick prese una boccata d’aria profonda e forzata, probabilmente per tranquillizzarsi. Carl uscì dal suo giaciglio e si ripulì l’armatura con le mani. Il box celava una strana apertura quadrata (segno di un pezzo di roccia che non era crollato totalmente, ma che aveva resistito ai possibili colpi inflittigli), e Carl decise di servirsene per spiare ciò che accadeva fuori. Mettendosi in punta di piedi su un ammasso di fieno arrostito dal sole, Carl riuscì a guardare oltre l’apertura. L’ampio spiazzale, bordato dalle mura quadrate e spesse, era vuoto quasi del tutto. Per terra giaceva solitario un arbusto sradicato e qualche ammasso di pietra robusta. C’era una grande quantità di legname secco o bruciato accanto alle mura. Carl guardò verso destra. Notò che c’erano dei lupi lì sotto. Lupi famelici e grossi, a giudicare dalla grandezza che sembravano possedere visti da quell’altezza. C’erano anche una giumenta grassa e un montone e parte di un portone distrutto e… e…                                                                                                                                                                        
...un’enorme pupilla dello stesso colore delle braci, contornata da piccolissime vene tutt’attorno. Il Gigante si sollevò in tutto il suo mastodontico splendore, cadendo in posizione eretta. Quel bestione era molto più grande dei giganti già incontrati, e sembrava essere anche più forte. Il suo enorme corpo superava di qualche piede anche la cinta muraria (non che fosse poi così alta!). Sul capo aveva una zazzera di capelli scuri come il carbone. Il suo naso era enorme, e le sue narici assurdamente dilatate. Perfino il suo orecchio destro era grosso e gonfio, mentre del sinistro non si poteva dire nulla dato che pareva non esserci. Al suo posto però cresceva una cicatrice molto lunga e mal disegnata. Imponenti braccia facevano capolinea sul suo busto ciclopico, simili ad enormi tronchi di querce adulte e vigorose. Perfino le sue gambe erano spesse, rigide (quasi contratte) e colossali. Il Gigante vestiva una sottospecie di abito formato dall’unione di più stracci vecchi, rattoppato e sgualcito. Era furente, e questo bastò per obbligare Carl a ricoprirsi di nuovo di sterco. Ma quando lo fece, si accorse che era ormai troppo tardi.                                                                                                                                        
«Oh fieri miei ospiti, non sottraetevi alla vista. Avverto i vostri passi, conosco l’odore dell’uomo ed il suo sapore.» disse il Gigante. Il suo tono era molto più cupo e profondo di quello di Melghiorro ed Ermo. Carl notò come anche il modo in cui scandiva le parole, lento ed arido, mettesse soggezione. Carl rivolse un rapido sguardo ai suoi amici. Bock stava palesemente tremando, mentre Pitywick era raggomitolato su se stesso. Edgar era nascosto dietro al possente corpo di Bock, e si copriva dalla vista degli altri. “Trattenete il fiato” avrebbe voluto dirgli “Trattenete ogni forma di rumore possibile. Svenite se necessario, ma fatelo in silenzio.” Carl cominciò da sé. Si tappò il naso con le dita e trattenne il fiato per qualche secondo, ma resistette poco. Quello era un altro segno che gli confermava che il suo corpo stava lentamente invecchiando. Se fosse stato giovane, avrebbe saputo trattenere l’aria per almeno quattro minuti. Il Gigante si mosse lentamente là fuori. Carl ne poteva udire il suono dei passi attutito dai calli spessi che aveva sotto i piedi. Ad ogni suo passo corrispondeva una lieve vibrazione del bastione su cui erano nascosti.                                                                                                                                                                  
«Orsù, chi si cela nel mio immenso dominio? Ladri, scassinatori, furfanti o forse …  mercenari?». Quella parola fece rizzare ogni pelo del corpo di Carl. Non provava quella sensazione, un misto tra paura e voglia di scontrarsi, da molto tempo. Eppure, non ricordava si essersi sentito così a disagio l’ultima volta. Il Gigante avanzò sempre di più. Ora il colpo causato dai suoi passi era molto più forte. La creatura, comunque, pareva voler spaventarli il più possibile, evitando che avvertissero il suo movimento. “Se non puoi vedere con gli occhi, fallo con le orecchie”. Era stato Horace l’Ammazza-draghi a dirglielo, e in quell’occasione era dannatamente vero. Ancora una volta il Gigante tuonò: «Sarò il vostro anfitrione per questa notte, miei acclamati ospiti. Dove vi troverò?»                                                                                                                                            
Non ci troverai tu.” pensò Ser Carl. O almeno credé di pensarlo. Il realtà era più una speranza la sua. Con un balzo silenzioso, Carl si spostò verso l’uscita della stalla. “Se ci raggiungerà dovrò scappare e chiamare i miei amici. Meglio stare vicini all’uscita.” Prima di uscire da quel luogo angusto però, Carl si prese la briga slegare la fune che incastrava il carretto al muro. “Questo potrà tornarci utile.”                                                                                                                                                
«Forza! Traditevi e fatevi vedere.» enunciò il Gigante «Adesso.» Ser Carl lo udì avanzare di ancora qualche altro passo, poi smise di avvertire ogni suono. Il cuore gli batteva all’impazzata, e lo stesso poteva dire dei cuori dei suoi amici, il cui battito si sentiva dalla sua postazione. «Misero me» disse il Gigante «L’ultima volta ch’ebbi a che fare con una ricerca di tale calibro scoprì che si trattava di uomini blasonati. Nessun cuor di leone neppur tra gli umili?» 
Ser Carl smise di controllare i movimenti del Gigante, era vicino a loro ormai. Dal suo nascondiglio riuscì a scorgere una parte della mano del Gigante che scorreva lungo la merlatura del bastione,  allo stesso modo in cui la mano di un uomo poteva scivolare sul corrimano di una scala. Cercò di eliminare la tensione del suo corpo. Non poteva permettersi di aver paura. Sbadigliò. “No che non posso. Aver paura darà paura anche ai miei compagni”. Sbadigliò. Si mise in piedi e sbadigliò un’altra volta. L’ultimo gesto che fece prima di incontrare il viso di Bock fu afferrare l’elsa del suo gladio. «Alzatevi, ora. Se dobbiamo aspettarlo lo faremo in piedi.»  
I suoi uomini dubitarono un po’. Edgar lo guardò torvo dall’alto al basso, ma infine obbedì al comando. In pochi secondi tutti si rimisero in piedi. La mano del Gigante, pelosa sulle nocche, scorreva ancora e ancora sul bastione. Di colpo si fermò, proprio accanto alla stalla. Rimase ferma per qualche secondo. L’oscurità della notte risucchiava ogni suono. Carl vedeva il suo respiro condensarsi nell’aria in nuvolette grigie. Chiuse per un momento gli occhi. Poi vi fu un sonoro “CRACK” e l’intera merlatura si sbriciolò nel pugno dell’immenso Gigante, lasciando scoperto il suo viso burbero e gonfio. «Oh, eccovi!» esordì riservandogli un grosso e contorto sorriso. Denti bianchi come le punte dei monti più gelati svettavano da gengive rosso sangue, appuntendosi sulla fine. «Vagabondi delle tenebre, qual è il motivo di tale visita?» 
Quel Gigante non aveva nulla a che vedere con gli altri. “Ohpoveri noi! Il cielo ci fortifichi, per favore!”                                   
«Mio immenso signore» iniziò Carl, la voce tremolante «Ci siamo smarriti e abbiamo pensato che tu ci avresti accolto, gentile come sei.»   
Il Gigante fissò aspramente Ser Carl per poi, come se non avesse sentito, chiedere ancora una volta: «Qual è il motivo di tale visita?»  
Ser Carl tirò giù un grosso grumo di saliva. Al suo posto, rispose Bock.                                                                                             
«O sontuosissimo ed immensamente cordiale signor Gigante» iniziò anch’egli con un sussurro quasi forzato. Sembrava stesse per scoppiare in lacrime. Bock non aveva neppure sollevato lo sguardo verso il Gigante. Nel parlargli, il cavaliere tenne lo sguardo fisso sul terreno sotto i suoi piedi. «Noi volevamo … volevamo … volevamo soltanto ringraziati, sì.»      
«Ringraziarmi?» chiese cupo il Gigante «E per quale arcana ragione?»                                                                                                       
«Oh, sette volte splendente e potente» rispose Pitywick andando in ausilio dell’amico. «Semplicemente per essere nato.»  
Ma il Gigante non parve prendere bene quelle parole. Il silenzio venne squarciato dall’infrangersi del suo pugno di ferro contro la parete della muraglia. Una crepa parecchio lunga si formò da lato a lato, e dell’altra merlatura franò giù. Poi un altro, ancora più forte. Carl dovette aggrapparsi saldamente alla colonna dietro cui prima si stava nascondendo, solo per evitare di cadere sulle ginocchia. Nella stalla i cavalli nitrivano furiosamente e si accalcavano l’uno sull’altro, scalciando, mordendo ed impennandosi.                                                           
«Lo sostenete ancora?» domandò poi rivolgendogli un altro sorriso austero.                                                                                             
«E sempre lo sosterremo, o signor Gigante dalla forza superlativamente sproporzionata!» lo lusingò Edgar.                                        
«Ohimè, pavidi gaglioffi, non trasformatevi in adulatori. Solo la sorte saprà cosa fare di voi.»                                
Ancora una volta Carl rabbrividì, poi riprese la parola. «Non siamo qui per arrecarti fastidio, tua alta sacralità Bargo, miglior gigante mai visto o esistito.»
«Mi meravigli, uomo. Il tuo intuito mi lascia stupefatto.» replicò il Gigante «È la prima volta che un ignoto sconosciuto pronunzia il mio nome con tale sfacciataggine. Per pura equità, mi preme domandarlo: qual è il tuo nome?»                                                                                                                                                                                      
«Mi chiamo Tiberius, e vengo da Odorg.» mentì Carl. “Le bugie sanno salvare la pelle.”     
«Tiberius» ripeté lentamente Bargo, assaporando il suono di ogni lettera di quel nome. «Per cui, il chiamarsi Tiberius esclude il chiamarsi Carlos. Intendo conoscere il nome dei tuoi altri compagni.»                                           
«Da sinistra a destra» spiegò facendo scorre il dito da Pitywick ad Edgar. «Pipet, Timmy e Jhon.»                                         
«Pipet, Timmy e Jhon. Nessuno di loro si chiama Carlos.» disse Bargo «Dunque spiegatemi, siete al servizio di Ser Carlos di Calisbur?»                                                                                                                                             
«Ser chi?» domandò Carl «Oh no no no, quella combriccola di mentecatti ha abbandonato la propria missione sulla via per Karaan. Noi li abbiamo visti farlo. Mi spiace, ma questa volta devo dirti che, egregissimo signore di Karaan, sei caduto in errore.» Bargo annuì facendogli credere che lo stesse ascoltando e che gli stesse credendo, ma, a quanto parve, quei giochi non funzionavano bene con lui. Anzi, le situazioni peggiorarono in breve.                                                                                                                                                                            
«Caduto in errore? Oh, desipiente omuncolo. Conosci il mio nome, ma non conosci me. Questo mi lascia alquanto insospettito, Tiberius. Vedi, io ho ragione anche quando sbaglio.»                                                            
«Senza dubbio, supremo Bargo» affermò Bock. «Siamo onesti con te.»    
«Oh sì, senza subbio» ripeté il Gigante. «E siete anche degli imbelli. Davvero credete di potermi raggirare? Conosco il vostro genere di tresche, conosco il vostro genere di imbrogli. Ciò che ha funzionato con i miei fratelli, Melghiorro ed Ermo, non potrà avere la meglio su di me. Disgraziati codardi!»                                                                                     
Ser Carl si spinse indietro, giusto in tempo per scansare un macigno precipitato dall’alto di un torrione. Il Gigante aveva assestato un altro pugno al bastione.     
«Oh valorosissimo Bargo, non fare così.» supplicò Ser Carl tra una scossa e l’altra, facendo sempre attenzione a reggersi in piedi. «Tutto ciò che vogliamo è la tua ospitalità.»   
«Le vostre buone maniere non vi terranno in vita.» tuonò il Gigante. «I bugiardi non restano mai in vita con me, Tiberius.» Il modo in cui il Gigante scandiva quel nome era terrificante.      
Mantieni la forza, Ser Carl” pensò “Tra non molto ti toccherà affrontarlo. Dovrai essere pronto.”                                                                                                          
«Oh Bargo l’immenso» disse Bock «Veniamo in buonissima fede!»                                                                                                                       
«Buonissima fede!?» domandò con prepotenza Bargo «Oh, razza di furfanti, davvero credevate che l’avreste passata liscia? Ora che la città di Karaan mi appartiene nulla e nessuno potrà fermarmi. Sapevo di voi sin dall’inizio della vostra avventura. Oh, non si direbbe mai e poi mai … un Gigante che riesce a scoprire le oscure pianificazioni di un uomo. David il Re di Calisbur può pure tenersi tutti i suoi premi, da qui non uscirà vivo nessuno. È stato lui a mandarvi, non mentitemi.»                                                                                                                       
«Assolutamente no» rispose secco ser Edgar. «Ancora una volta mi costringi a contraddirti, non conosciamo nessun Re David.»    
«Né mai avremo voglia di conoscerlo dal momento che ci sembra essere un tuo nemico.» aggiunse Pitywick.   
«Nemico … » farfugliò il Gigante. «Una nemesi alquanto stolida. Ho smascherato i suoi intenti già prima che li programmasse. Un lestofante travestito da leone e ornato di diamanti ed oro, ecco cos’è. Karaan non cadrà mai. Il mio regno non cadrà mai. Quando tutti i Giganti dell’Est saranno scesi dalle montagne, queste rovine risorgeranno. E allora i regni degli uomini saranno già caduti nel pugno delle tenebre, che li ghermirà fino a togliergli l’ultimo fiato.»  
Ser Carl alzò le mani al cielo, in direzione del Gigante, per provare a convincerlo su quanto stessero blaterando. «Mio signore, abbi almeno un briciolo di pietà.»
«Un briciolo di pietà?» ripeté. Poi il Gigante alzò la voce. «Tiberius, sciocco di un uomo, non parlare a me di pietà. Un Gigante non ha pietà. Mi sono promesso di riportare la mia stirpe sui domini che ci avete sottratto. Avete umiliato i miei fratelli facendoli cadere in una burla, solo per superarli. Ditemi, dove stava la vostra pietà quando li avete uditi supplicare di smetterla? Dove stava la vostra pietà quando li avete lasciati azzuffarsi e ferirsi a sangue?»                                                                                                                                                
«Loro… loro… loro ci volevamo mangiare, sì. Cucinare, dapprima, e poi mangiare.» farfugliò sempre più terrorizzato Pitywick.                                                                                                                                                                            
«Cucinare? Dite davvero?» domandò incredulo il Gigante. «Io vi mangerei anche crudi, mentre vi dimenate con quelle gambette all’aria.»   
Carl avvertì dei sussulti provenire dai suoi compagni. Poi, Bargo riprese lentamente:                                                                                                                           
«Come saluterete il vostro buon Re David? Oh, il suo piano è morto. Lui è morto, con la sua famiglia. E ora stanno morendo anche i suoi sudditi. Da generazioni i miei antenati si sono posti l’obiettivo di calare sui domini degli uomini ed aprirli in due metà distinte, con l’intenzione di vedere cosa scorresse dentro i vostri castelli. Cosa ne resterà di tutte le vostre cospirazioni, quando non un solo castello sarà rimasto in piedi? Cosa ne resterà di tutto ciò quando anche voi sarete morti?»                                                                                                                                 
Il Gigante assestò altri due pugni al colonnato. Un enorme blocco di pietra si scagliò sulla piazza in cui si ergeva Bargo, e fu causa di un altro terremoto. Nel trambusto Ser Carl si rivolse silenziosamente ad Edgar «Cavaliere, va’ nel box e guida il carro. È ora di agire.»  
Il suo compagno non se lo fece ripetere due volte. Dondolando a destra e manca a causa delle scosse, Edgar arrancò fino alla piccola stalla e poi sparì. L’uomo era stato un cocchiere prima di passare al suo servizio.                                                                                                                                                                         
«Oh misericordioso Bargo, non avverti dolore alle mani dopo tutti questi pugni?» domandò Bock continuando a reggere il gioco.                                                                                                                                                  
«Dolore? È una prerogativa dell’uomo quella. Ho pugni d’argento e muscoli di ferro, cavaliere, più rigidi di cento armature saldate dal migliore dei fabbri. Ho denti irti e più robusti della più spessa montagna dell’intero Occidente. La mia pelle è terracotta, avorio, ossidiana. I miei lupi sono famelici, e lo è anche il loro padrone.» il Gigante si allontanò dalla merlatura. In breve si sentì uno strano rumore metallico. Una serratura era stata aperta. «E adesso è giunta l’ora che voi saggiate tutto ciò.»                                                                 
E fu allora che tutto prese a correre velocemente. In breve il mondo fu spiazzato da urla, boati e tuoni. Non c’era nessuno a ricordare loro quanto fossero leali o valorosi. E non c’era nessuno a ricordagli quanto fossero immensamente stupidi.                                                                                                                                        
«Ora!» urlò Ser Carl. Poi, tutti e tre i cavalieri sguainarono le loro armi producendo un simultaneo suono metallico. Non c’era suono migliore per Carl. Con il gladio sulla mano destra sollevato al cielo, Carl urlò: «Hai di fronte Ser Carlos di Calisbur, Gigante. E adesso, nel nome di Re Davide, pagherai per le tue colpe!»                                                                          
Dalla stalla, il carretto di legno fuoriuscì con talmente tanta forza da far credere a Ser Carl che stesse per spaccarsi. Edgar aveva calato la celata del sul elmo, e ora, tenendo con una mano la sua spada, era alla guida di sette stalloni furenti. Il Gigante urlò con tutta la forza che possedeva, finché anche la luna nel cielo vibrò. I lupi presero ad ululare sfrenatamente e, dalla loro, i cavalli iniziarono a correre. Quando il carro passò davanti ai loro occhi, Carl, Pitywick e Bock vi si lanciarono sopra con una tale leggerezza da farli sembrare foglie secche trainate dal vento. Gli ululati si intensificarono sempre di più, insieme ad accozzaglie indistinte di ringhi, abbai e versi animaleschi. Il carretto sfrecciò lungo gran parte del camminamento ad una velocità che solo cavalli di quel genere (e possenti come loro) avrebbero saputo generare. «Siamo pazzi» mormorò Bock. «Ma dopotutto mi piace. Sento di poter ardere vivo il Gigante! Sento di poterlo abbattere a mani nude!»                                                                                                                                              
Carl conosceva molto bene quella sensazione. La voglia di avere la meglio sugli ostacoli della vita. La voglia di sopravvivere. “Un gatto può diventare un leone. Entrambi hanno quattro zampe, denti irti, artigli e pelo. Perché dovrebbe essere poi così differente?.”                                                                                                                                    
Ser Carl alzò il gladio verso l’alto. «Arrivano i lupi, signori. Edgar acceleriamo!»                                                                                       
Dietro di loro planarono due branchi di lupi in corsa, ognuno dei quali stava risalendo con foga le scale. I loro versi si intensificarono quando il loro zampettare si fece più potente. Corsero sempre di più e man mano acquistavano velocità. Veloci, sempre più veloci. Le ruote vorticavano all’impazzata. Poi, rapido come l’arrivo di un fulmine nel pieno della tempesta, Bargo si gettò in corsa contro la muraglia, dalla base del muro. La spallata che gli diede la spaccò in due metà, e la loro corsa fu bloccata. Dietro avevano i lupi, davanti c’era una frana. «Dietrofront!» urlò Ser Carl. «In mano le spade, signori. Se non possiamo scansare il pericolo, allora tanto vale affrontarlo! Uccidetene a decine, avrete gioie e denaro!» 
Edgar tirò le corde dei cavalli e li fermò facendo strisciare i loro zoccoli sul terreno. In un mero battito di ciglia, il carretto ruotò su se stesso per girarsi, poi, dalla parte opposta. I cavalli ansimarono, poi scalciarono e caricarono. Infine, la loro corsa riprese disperata, proprio verso i due branchi di lupi che, ormai, avevano finito per confluire in un solo. Ser Carl contò all’incirca trenta bestie furenti, grosse, possenti, muscolose, dal pelo folto e grigio. Poi calò il silenzio nella sua testa. Si concentrò sul solo bersaglio. La luna era alta, il loro scopo sempre più vicino. I cavalli correvano contro i lupi e i lupi contro i cavalli. Lo scontro fu duro e l’impatto sgradevole. Un lupo afferrò uno dei loro cavalli per il collo e, saltando, ne dilaniò le sue carni. Ser Carl si sporse in avanti, poi fu tirato all’indietro da Bock che stava infilzando uno di quei mostri. Un lupo lo afferrò per il braccio, lo strattonò con tanta forza da ammaccargli l’armatura. Ser Carl gli assestò un profondo pugno d’acciaio sul cranio, facendogli esplodere l’occhio sinistro. La creatura si abbatté contro il carretto, e tentò di spaccarne il legno. Un’altra rimase attaccata con gli artigli al fianco sinistro. Ser Carl calò la sua spada sul suo corpo, trapassandolo da parte a parte. Edgar fu costretto a riprendere in mano le redini, mentre i suoi compagni gli difendevano le spalle. Uno strattone ai cavalli, e questi ripartirono al trotto. Quando lo fecero, Carl, Bock e Pitywick tirarono fuori dalla bordatura del carro le spade e, nel momento in cui i lupi saltarono per afferrarli, si sgozzarono, si mutilarono o si recisero le fauci. Ripresero a correre, questa volta ancora più freneticamente. La cinta, però, finiva interrompendosi nella stalla. Oltre c’erano solo le scale. Edgar ruotò la traiettoria, spinse a sinistra i cavalli verso il buco in cui Bargo aveva sbriciolato la merlatura della fortificazione. «NO! Cadremo giù!» urlò Bock «Torna indietro, pazzo!»                                                                            
«E perdere un altro cavallo?» rispose Edgar senza distogliere lo sguardo dall’obiettivo «Non possiamo permettercelo, ser Bock». Poi uno strattone e lo schiocco improvviso delle redini. BOOM! Un solo rapido slancio e il carretto perse il terreno da sotto le ruote, sferzando l’aria per pochissimi secondi. Carl chiuse gli occhi. Stavano fluttuando a mezz’aria con un branco di lupi famelici alle loro spalle ed un Gigante che gli correva attorno. Ancora un tonfo, stavolta più forte, che fece genuflettere Carl. Poi, con un colpo che li scosse tutti, il carretto tornò ad acquistare velocità. Carl riaprì gli occhi solo allora. Ma, si rese conto troppo presto, i lupi erano ancora dietro di loro. E ora sembravano anche più affamati. «Davanti! Giù!» sbraitò Pitywick indicando verso un enorme spazio circolare sul bastione. Bargo si gettò da una torre molto alta, e cadde proprio davanti a loro, con un tonfo devastante che ridusse in frammenti la strada sotto i suoi piedi. Il Gigante sprofondò in basso, ma poi, con un balzo colmo di furia, si rigettò sul camminamento. Edgar ebbe giusto il tempo di tirare le redini per scansarlo, tanto che gli passarono esattamente vicino al piede. Ma tale era la loro velocità, che il Gigante, coi suoi goffi movimenti, non riuscì a prenderli. Ancora girarono indietro e si gettarono nella mischia coi lupi. Questa volta però, Bargo gli rimase alle calcagna. Coi nemici dietro e davanti, i cavalieri pensarono di essere spacciati, ma ancora una volta non fu così. Edgar portò il carro abbastanza vicino al branco di lupi da indurli a pensare che si stesse buttando di nuovo nella loro mischia. Poi, un solo colpo secco e il carretto deviò a destra, non appena si trovarono dinanzi ai musi delle bestie. I lupi non ebbero il tempo di avvertire il cambio di direzione, così strisciarono e andarono a schiantarsi contro i piedi di Bargo, che ne schiacciò a decine inavvertitamente. «REGGETEVI!» urlò Ser Carl. Quella fu l’ultima cosa che disse prima di chiudere gli occhi di nuovo. Il carretto volò sopra la piazzetta di pietra, e si schiantò sul tetto di una torre. Poi si capovolse. Ser Carl afferrò un fianco del carro, e conficcò il gladio nel legno scoperto. Si resse con tutte le forze che aveva all’impugnatura dell’arma. Continuò a vorticare, sbattendo prima sul lato destro, poi su quello sinistro. Il carretto si spaccò su tutto il fianco, infrangendosi contro un muro spessissimo. Carl strinse ancora di più gli occhi, finché non gli divennero doloranti. Bock stava gemendo. Pitywick imprecava e urlava. L’unico silenzioso pareva essere Edgar, le cui capacità andavano ben oltre la sua forza. Infine, per fortuna, il carretto si rimise sulle quattro ruote da solo. Ma Edgar non ebbe né le capacità né le forze di riafferrare le redini. Quando Carl riaprì gli occhi notò che di cavalli ne restavano solo tre. Il carretto scivolò lungo il tetto spiovente, e precipitò di nuovo, sempre più verso il basso. Un altro colpo, questa volta dritto sulla fronte, e Carl avvertì un dolore acutissimo. Infine cadde all’indietro, di schiena. I cavalli stavano urlando di dolore, qualcuno di loro doveva essersi rotto qualcosa. O forse erano i suoi compagni a piangere? Tra un giro e l’altro il carretto si rifermò. Erano giunti nello spiazzale ed erano sfiniti. «SER CARL!» urlò Edgar riafferrando le redini. Carl ebbe giusto il tempo di voltarsi per vedere il furente Bargo balzare dalla muraglia fino alla piazza. Il Gigante cadde portando entrambe le mani a terra e, quando i suoi piedi toccarono la pietra, il carretto venne sollevato di un metro dal suolo. Carl si resse più forte. Edgar stava cercando di aumentare la velocità, per quanto fosse impossibile con così pochi cavalli. Il Gigante si scagliò contro di loro. Il suo volto era paonazzo, e numerose vene gli erano esplose lungo tutta la fronte. Aveva gli occhi rossi. Ogni suo passo era trenta di quelli loro, quindi non ci mise molto a raggiungerli. Un pugno sul terreno, e la terra si spaccò in due, come dilaniata dalla furia di un cataclisma. Poi un altro. Bargo, con ogni pugno, spaccava la pietra come fosse stata una lastra di ghiaccio finissimo, sprofondando sempre di più sotto terra. Al sesto pugno, il Gigante si scorgeva solo dal bacino in poi. Infine, la terra franò. Bargo sprofondò totalmente nel sottosuolo, e l’apertura che aveva causato squarciando la terra si richiuse sopra di lui. Il terreno franava dappertutto. Gli alti colonnati stavano cadendo uno dopo l’altro, come alberi uccisi dal colpo dell’ascia di un boscaiolo. Una ruota si staccò dal carretto e strisciò per tutta la piazza, causando un acutissimo rumore metallico. A quel punto il carretto fu impossibile da manovrare. Ogni due metri circa si schiantava a destra, e subito dopo a sinistra. Ondeggiando da una parte all’altra fu costretto a ricevere un ultimo affronto. Da tre lati, alcuni gruppi di lupi si riversarono contro di loro. Corsero giù dalle due rampe di scale e dall’apertura che si era creata oltre il bastione. Non c’era altra speranza se non quella di affrontarli ancora una volta. Corsero più che potevano, e passarono sopra al corpo di una delle bestie, annientandola. Altre due balzarono dentro il carretto e sfidarono Ser Carl. L’uomo si gettò a terra, attese che il lupo infierisse sull’armatura e si risollevò portando il gladio da una parte all’altra del suo cranio. Diede un pugno all’altro lupo. Quindi, la bestia gli si gettò di sopra facendolo barcollare all’indietro. Carl gli assestò un calcio nel ventre, e Bock gli aprì la pancia da parte a parte. Edgar continuava a guidare il carretto verso altri gruppi di lupi. Un lupo giunse irato e saltò contro il carretto. Le sue fauci scattarono come tenaglie su una delle ruote, e il carretto si ribaltò. Ser Carl non ebbe il tempo di afferrare né un appiglio né il suo gladio, così cadde. Era disarmato, scosso e già completamente ferito. Del Gigante neppure l’ombra; che fosse morto?  I lupi gli si gettarono di sopra, mentre tentava invano di difendersi. L’armatura lo protesse a lungo. Assestò un calcio ad un lupo e lo fece schiantare contro altri due. Poi, riservò un pugno sulla mascella ad un altro che stava tentando di azzannarlo sul volto. La sua armatura era solida. Il carretto tornò in dietro, Ser Carl si lanciò sulla sinistra. Quando i suoi amici passarono, Bock lo sollevò rapidamente per la collottola, ed in breve si ritrovò sul carro, al sicuro (solo per modo di dire!). I lupi tornarono a seguirli. Due di loro si frapposero correndo tra il lato destro del carretto e il muro che stavano seguendo per non sbattere a destra e a sinistra. Edgar tirò le redini giusto quanto servì per far sì che lo spazio tra il muro e il carro si chiudesse, e così spiaccicò completamente le bestie contro la parete. Questo però gli costò un’altra ruota. Un altro terremoto, molto più forte. La piazza vibrò. Il carretto scivolò dall’altra parte della strada sbattendo con violenza contro il muro. C’era sangue ovunque. Edgar girò immediatamente verso sinistra, prendendo una strada che, in altre situazioni, non avrebbe mai preso: le scale. Ogni gradino lesionò sempre di più il carretto di legno, che ormai barcollava e camminava strisciando per terra. I cavalli corsero nuovamente sul bastione. Il camminamento era quasi del tutto distrutto. Improvvisamente la strada da cui erano saliti franò, i colonnati caddero sull’arco che conduceva alle scale e ne bloccarono la via. I cavalieri furono fermati dentro il camminamento. Da una parte vi era una chiusa, dall’altra un buco profondo dentro il bastione. Il destino sembrava essersi accanito contro di loro, o forse li stava solo invitando a concludere le cose più rapidamente. Entrambe le vie conducevano alla morte. Ser Carl spinse di lato Edgar dandogli una violenta spallata e facendogli perdere la presa. Afferrò le redini al suo posto. «Andate via!» ordinò ai suoi compagni. «Tagliate le redini ai cavalli e correte via sui loro dorsi! Tornate dai nostri compagni. Proteggete loro! Obbedite o vi perseguiterò. »   
«No» risposero all’unisono. Di sotto, con un balzo, come un delfino che sbuca dalle onde per poi immettersi  ancora nell’acqua, apparve Bargo. Il Gigante era riemerso dalle cavità dell’entroterra. Tutto tremava ed ogni cosa vorticava. La creatura era completamente impazzita. Stava addirittura sbavando ed era ricoperto di lividi tumefatti lungo tutto il corpo. Per finire, grondava sangue da ogni poro. «È un ordine il mio, non una proposta. I miei giorni da mercenario sono finiti ormai. E mia moglie mi sta aspettando.» Se fu l’orrida vista di Bargo o qualche parola di troppo nei loro confronti, Ser Carl non seppe mai dirlo. Ma ciò che disse lo fece solo per preservare i suoi amici dalla morte. Capì solo che era riuscito a convincerli. Pitywick, gli occhi in lacrime, tagliò le redini di un cavallo con il suo pugnale. Poi gli saltò sopra e fuggì il più lontano possibile, rivolgendo un ultimo sguardo fugace a Ser Carl. Lo stesso fece Bock, lasciando ad Edgar l’ultimo stallone, quello nero e rabbioso. Edgar afferrò la mano di Carl. «Non farti uccidere, cavaliere.». Carl lo abbracciò. «Non ti deluderò!»                                                                                                                                                                          
Poi anche Edgar inflisse un severo colpo sulle redini del cavallo nero. Ebbe appena il tempo di saltargli sopra che la bestia scattò in una corsa furente, disperdendolo dalla vista. I suoi compagni avrebbero dovuto scavalcare la recinzione di colonne franate per fuggire via. E lui li avrebbe aiutati intrattenendo il Gigante. “Re David mi affidò il compito arduo di portargli la sua testa. È la sua che vuole, non la mia. Cercherò di non farmela staccare!” pensò“Ma non fuggirò mai.”  
Una volta persi i cavalli, il carretto si apprestò a decelerare sempre di più. Il corpo del carro strisciò lungo tutto il camminamento, graffiando la pietra nello scorrergli sopra. Ser Carl ne approfittò per far strisciare il gladio sulla pietra, illuminandolo di scintille rosse e gialle. L’attrito appuntì la sua arma come avrebbe fatto la cote. Infine, si strinse saldamente al legno. Il carretto parve scombussolarsi ancora. Si capovolse una o due volte, ruotò, si rovesciò all’indietro, poi si ribaltò e si rivoltò. Infine, quel che rimase fu un ammasso accozzato di legno frantumato e ferro sgangherato. Completamente rivoltato, Ser Carl attese l’arrivo della furia del suo nemico. Afferrò il suo gladio e lo spinse in alto. La luce della luna trapelò oltre la lama, e i bagliori accecarono la vista del povero mercenario. La lama era pallida, fredda, carica di un’essenza propria. Era l’unica luce in quella coltre oscura di ombre. «Per Re David» cominciò Carl urlando. Il Gigante correva ansimando, il collo piegato verso la sua direzione come fosse un ariete da sfondamento. «Per mia moglie, per i miei compagni, per Horace l’Ammazza-draghi, per Calisbur, per Bock, per Edgar, per Pitywick, per Walter il Monco. Per tutte le creature mai viste e mai uccise. Per tutti i cieli mai visti e rivisti. Per tutti i tramonti, le stelle nel cielo e le creature della terra. Per l’amore, l’amicizia e il valore, per tutte le cose belle del mondo. E per me, Gigante, pronto ad accogliere il riscatto di una vita!»     
Un solo colpo. Non appena la furia di Bargo s’infranse contro il bastione, tutto franò sotto i suoi piedi. Carl balzò esattamente nel momento in cui la roccia vibrò, utilizzando la scossa per darsi una spinta verso l’alto. Si stupì di aver fatto un salto così alto e con una tale forza da poter superare Bargo in altezza. Poi, in aria, afferrò il gladio con due mani e portò la lama in basso. L’aria fredda e gelida trapelò oltre la sua armatura, congelandogli le ossa. Il carretto precipitò lontano e, nello schianto col suolo, si disintegrò. Un solo colpo e Carl ricadde sul Gigante. La lama del suo gladio rimase conficcata tra gli occhi di Bargo. Il mercenario restò appeso all’elsa, i piedi fluttuanti nel vuoto. Mise forza, ancora e ancora. Uno squarcio aprì in due metà il volto del Gigante. Qualcuno urlava, forse il mostro, forse lui. Qualcuno piangeva e qualcuno sanguinava. C’era della luce nell’aria, una strana essenza che sapeva di acciaio mischiato al sangue. Avvertì un insolito sapore tra le labbra, fresco, gelido, bianco: era vittoria!                                                                                                               Il Gigante, senza che Carl se ne rendesse conto, caracollò a lungo. Prima a destra, poi a sinistra, e ancora indietro. Un’altra volta si spinse in avanti e poi di nuovo sul lato sinistro. Infine, alzò una gamba e cadde di peso spalancando le braccia. La sua mole si schiantò sul povero Carl ed entrambi furono ricoperti dalle fredde colonne vuote e dalle scheletriche macerie di quell’angusto luogo. Avvertì uno strano sapore tra le labbra, ancora fresco, sempre più gelido, piacevolmente bianco: era morte.    
 


Nota d'autore: Approfitto di questo piccolissimo spazio per ringraziare gli eventuali lettori, e per scusarmi con loro per le difficoltà riscontrate nella lettura. Purtroppo non ho molte capacità nel maneggiare l'html, e questo è il risultato! Pertanto, ringrazio di cuore BekySmile97, senza la quale non avrei potuto pubblicare.
   
 
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