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Autore: Alexa_02    24/12/2016    3 recensioni
Julianne ha tutto ciò che potrebbe mai desiderare, quando guarda la sua vita non c’è una virgola che cambierebbe. È così sicura che ogni cosa andrà nel giusto ordine ed esattamente come se lo aspetta, che quando si sveglia e trova la lettera di addio di sua madre non riesce a capacitarsene.
Qualcosa tra i suoi genitori si è incrinato irrimediabilmente e April ha deciso di scompare dalla vita dei figli e del marito senza lasciare traccia o la benché minima spiegazione.
Abbandonata, sola e ferita Julianne si rifugia in sé stessa, perdendosi. Una spirale scura e pericolosa la inghiotte e niente è più lo stesso. Julianne non è più la stessa.
Quando sua madre si rifà viva, è per stravolgere di nuovo la sua vita e trascinare lei e suo fratello nell'Utah, ad Orem, dalla sua nuova famiglia.Abbandonata la sua casa, suo padre e la sua migliore amica, Julianne è costretta a condividere il tetto con cinque estranei, tra cui l'irriverente e affascinante Aaron. Tra i due, da subito, detona qualcosa di intenso e di forte, che non gli da scampo.
Può l’amore soverchiare ogni cosa?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Per me odioso, come le porte dell’Ade, è l’uomo

che occulta una cosa nel suo seno e ne dice un’altra.
(Omero)

 

 

 

“Tua sorella ricomincerà mai a parlarmi, o devo abituarmi al suo silenzio accusatore per il resto della mia vita?”. Mamma stringe forte il volante e fissa la strada davanti a sé. Ha la voce stanca e leggermente incrinata, come se si stesse sforzando di non piangere. Non ne vado fiera, ma la cosa mi riempie di un’immensa e perversa gioia. Si, sono una figlia terribile, ma non sono io la cattiva qui. Lei lo è.

Mio fratello Henry sospira scoccandomi un’occhiataccia attraverso lo specchietto retrovisore. So che è stufo di fare da intermediario tra me e la mamma ma, come ho già sottolineato prima, niente di tutto questo è colpa mia.

“Prova a mandarle un SMS. A quelli risponde sempre”. Il tentativo di Henry di sdrammatizzare si dissolve nell'abitacolo come vapore. Parlano sempre come se non ci fossi, come se fossi una semplice decorazione e non una parte della famiglia. In questo caso la mamma crede che io stia ascoltando a tutto volume musica rock nelle mie cuffiette verdi, ignorando lei e il mondo. Ma, in realtà, sto origliando la loro conversazione ormai da un’ora. Il mio gatto, Kafka, mi dorme acciambellato sulle gambe ignaro della imminente tragedia che ci aspetta.

Il mio gemello fa scorrere la mano verso di me, tra il sedile e la portiera, e io gliela stringo. Sa che li sto ascoltando.

La sua mano è calda e liscia, molto più grande della mia. Il che è alquanto buffo perché sono io quella più grande dei due. Tra noi ci sono, più o meno, tre minuti di differenza ma io continuo comunque a ricordargli che sono io la maggiore, anche se non si direbbe.

Mi dà due strette veloci e poi mi lascia andare. So cosa vuol dire. Mi sfilo le cuffiette e mi sporgo in avanti tra i due sedili anteriori stringendo Kafka.

“Henry puoi dire alla mamma che ricomincerò a parlarle quando capirà che andare a vivere con i Flintstones è la più grande stronzata della storia, e che deve riportarci immediatamente a casa da papà.”

So che il colpo ha fatto effetto quando le vedo stringere con più forza il volante.

“Ti ho già detto che non voglio più sentirti chiamarli così, Julianne” esclama stizzita.

Henry mi dà un leggero colpo con il braccio scuotendo la testa. Sappiamo tutti e due che è lui quello educato.

“Se mi avessi fatto vivere con papà come volevo, ora non mi sentiresti affatto” borbottò lasciandomi cadere sul sedile posteriore. Kafka fa le fusa strusciandomi la testa contro la mano. Per qualche strana ragione sa quando sono turbata.

La mamma sbatte le palpebre velocemente cercando di cacciare via le lacrime. Il senso di colpa mi cola addosso, appiccicoso e soffocante, ma ormai l’ho detto. La sento sospirare rumorosamente, ultimamente non fa altro. “Julianne, siamo quasi arrivati, per favore sii gentile con Jim e i suoi figli. Te lo chiedo per favore.”

Sto per replicare ma Henry si intromette. “Quanti figli hai detto che ha?”. Resto zitta. Sono curiosa di sapere con quanti mostri dovrò condividere il tetto.

“Beh Jim ha quattro adorabili figli” annuncia zuccherosa, ritrovando il sorriso.

Mi strozzo con la saliva. “Quattro?!” strillo saltando in avanti, facendo ruzzolare per terra Kafka e facendo sobbalzare la mamma. Henry spalanca la bocca e inarca le sopracciglia sorpreso quanto me, ma in modo meno plateale. A quanto pare si è dimenticata di condividere con noi questo piccolo dettaglio.

“Si” conferma. “Tre maschi e una femmina”. Mi viene da vomitare. Ora le vomito sul volante.

Lei continua imperterrita. “Vediamo. C’è Aaron che ha diciassette anni come voi ed un musicista come te, Julie. Poi Andy e Cole, che hanno rispettivamente quindici e tredici anni. Sono dei gran combina guai ma sono dolcissimi entrambi.”. Li elenca con uno stomachevole sorriso in faccia, come se fossero davvero suoi figli. È da meno di un anno che vive con loro e già li preferisce ai suoi figli biologici. Sto davvero per vomitare.

“La femmina?” domanda Henry. Il tunnel si illumina, potrei non essere sola.

“La femmina si chiama Olivia e ha sei anni”.

Oh meraviglioso. L’unica possibile alleata ha sei anni! Non sa nemmeno di essere una femmina. Non sono abituata alla convivenza con gli adolescenti maschi. Henry non fa testo. Lui è più una sorella che un fratello. Tutto questo non può essere vero, deve essere un terribile incubo da cui mi devo ancora svegliare. Basta che mi do un bel pizzicotto e mi ritroverò nella mia stanza in California.

Mi pizzico forte il braccio ma non cambia nulla. Questa è la fottuta realtà e ci sono incastrata dentro.

“Spero tu stia scherzando! È una Candit Camera? Perché se è così, ti ho scoperta. Puoi riportarci a San Diego”.

Ridacchia, come se stessi scherzando. Io sono seria, deve riportarmi a casa, non se ne parla proprio. Perché le auto non hanno i sedili eiettabili?

“No, non sto scherzando tesoro”.

Accosta e spegne il motore risvegliandomi dallo shock. Siamo fermi davanti ad una casa con mattoni a vista e con il tetto di tegole chiare. Il giardino è immenso e estremamente curato. I cespugli sono potati al millimetro. Un infinito lastricato in pietra conduce dalla strada alla porta d'ingresso in legno.

Sento risalirmi in gola il pranzo. Non possiamo essere già arrivati. Eravamo quasi arrivati poco fa, dov’è finito il quasi.

La mamma si slaccia la cintura e sorride nervosa. “Eccoci qua. Benvenuti a casa”.

Apre la portiera e salta giù. Stringo la mia cintura di sicurezza come un salvagente facendo sbiancare le nocche.

Un uomo sulla cinquantina scende velocemente i grandi del portico e la mamma gli salta praticamente in braccio, baciandolo appassionatamente. Distolgo lo sguardo disgustata. L’uomo, che presumo sia Jim, ride e la posa a terra. Si prendono per mano ed entrano insieme in casa, come se lo facessero da sempre.

Quando sono spariti, Henry sospira. “Forza Jules, non possiamo restare in auto per sempre”.

“Possiamo provarci”. Azzardo.

Si allunga verso di me, mi sgancia la cintura e agguanta Kafka. Scende dalla macchina e io lo seguo sbuffando.

Il caldo mi investe come un camion, mi sfilo la felpa e me la lego in vita. Saliamo i gradini di legno chiaro in silenzio, come due condannati a morte che si dirigono verso il patibolo.

Henry apre la porta, mi ripassa il gatto e mi trascina dentro.

 

La casa profuma di vaniglia e biscotti al cioccolato, mi aspettavo odore di calzini e mutande sporche. Beh, un punto nel lato dei pro.

La casa non rispecchia affatto le mie aspettative. È più ordinata e più pulita di quanto pensassi. I pavimenti di legno sono sgombri dai giocattoli, il mobile vicino all’ingresso è sovrastato da un grosso vaso pieno di fiori colorati e i figli di Jim sono allineati e ben vestiti davanti alla scala che porta al piano di sopra. Sono uno vicino all’altro in ordine di altezza e si sforzano di sorride cordiali. Jim fa un passo avanti, si asciuga la mano sui pantaloni color cachi e ce la porge. Henry gliela stringe ricambiando il sorriso.

“Siamo davvero felici di conoscervi finalmente. April ci ha parlato un sacco di voi due”. Ha la voce profonda che stona con il suo aspetto. Ha i capelli neri tagliati corti e striati qua e là di grigio. Ha gli occhi verdi incorniciati da un paio di occhiali scuri dalla montatura spessa. Indossa un cardigan color topo con gli alamari sopra una camicia blu. Quello che attira di più la mia attenzione è il collarino bianco che spicca nel colletto scuro. È impressionante quanto sia ordinario, completamente l’opposto di papà.

Osserva a lungo Henry poi sposta lo sguardo, più in basso, verso di me. Mi guarda negli occhi e cambia espressione. Sembra sorpreso, forse la mamma mi aveva dipinta come la ragazza di due anni fa, bionda e perfetta. Mi dispiace Jim, quella ragazza è morta. Indosso dei jeans neri strappati e una t-shirt dei Twenty-One Pilots. Durante la crisi post-separazione dei miei genitori mi sono tinta i capelli di nero, mi sono fatta un piercing al naso e diversi tatuaggi. Cercavo di ribellarmi, essere originale e, invece, mi sono accorta troppo tardi di essere diventata uno degli stereotipi da cui cercavo di differenziarmi. Perciò ora cerco di essere solo la vera Julianne.

Jim si riprende in fretta dallo shock e mi fa un sorriso tirato, senza coinvolgere gli occhi. Allunga la mano per salutarmi ma Kafka si mette in mezzo soffiando e cercando di graffiarlo. Jim sobbalza indietro visibilmente spaventato.

Io amo questo gatto.

“Wow. April non ci aveva detto del gatto” ansima e starnutisce rumorosamente. Non una ma ben tre volte di fila. “Sono un pochino allergico ai gatti”.

Ho già detto che amo questo gatto?!

Nasochecola rinuncia alla nostra stretta di mano e si sposta il più lontano possibile da me, riempiendomi di soddisfazione. Spostandosi lascia libera la visuale sui suoi figli. La prima che noto è Olivia. Indossa una gonna fosforescente, delle calze verdi e una grosso boa di piume fucsia. Porta un coroncina da principessa che le tira i lunghi capelli scuri all’indietro. Stringe tra le braccia una rana gigante di peluche. Fa un sorriso timido e fissa Kafka stringendo la mano ad uno dei fratelli, che presumo sia Cole. Ha i capelli marroni, gli occhi azzurri e indossa una maglia consumata di Super Mario. Non guarda noi, ha lo sguardo fisso su il fratello più grande, Andrew. Lo guarda come se aspettasse il suo parere prima di decidere se gli piacciamo o no.

Andrew è la copia di Cole, solo in formato più grande e con gli occhi verdi, come il padre.

Solo quando li guardo tutti insieme mi accorgo di una particolare essenziale. Sono solo in tre. All’appello manca Aaron il Musicista.

Jim sembra accorgersi del figlio mancante e si acciglia. “Andy, dov’è tuo fratello? Vi avevo specificato che dovevate esserci tutti per l’arrivo dei figli di April”.

Andrew giocherella nervosamente con la maglietta “È da Savannah. Ha detto, cito testualmente, che non gliene fotteva nulla dei figli della tua concubina e che sarebbe tornato per cena”. Jim stringe i pugni lungo i fianchi sospirando rumorosamente.

“Jim, caro, non ti preoccupare” si intromette la mamma appoggiandogli una mano sulla schiena. “Questa nuova sistemazione ha scombussolato un po’ tutti. Henry e Julianne conosceranno Aaron a cena. Ora perché non disfiamo i bagagli e ci sistemiamo definitivamente?”. Si sorridono languidamente e lui annuisce. Ecco che torna la nausea.

 

A presentazioni fatte ognuno trascina una valigia o uno scatolone su per le scale, e in pochi viaggi tutti i nostri averi sono sul piano delle camere. Il piano superiore è composto da quattro camere da letto, due bagni e una scala che porta al terzo piano. Il terzo piano è quello della mamma e di Jim. Anche solo l’idea di quello che fanno la sopra mi fa venire i brividi.

Per ogni camera si intuisce il proprietario dalla porta. La camera di Olivia ha la porta tappezzata di rane colorate e ninfee che circondano il suo nome dipinto in verde. Cole e Andy condividono la stanza e la loro porta è tappezzata di poster di video games e di squadre sportive. La stanza di Aaron il Musicista ha la porta ricoperta di foto e poster di gruppi rock e un’adorabile cartello di divieto d’accesso. L’unica pulita è quella che spero sia la nostra camera. Andrew scaraventa con violenza la mia valigia a terra e, seguito da Cole, sparisce nella sua stanza sbattendo la porta. Suppongo che il suo verdetto sia che non gli piacciamo. Meglio così, credo.

 

“Questa è la tua stanza, Julianne”. Annuncia Jim indicando la porta. Odio come pronuncia il mio nome.

“Tu, Henry, invece starai con Aaron nella camera accanto”.

Mi manca l’aria nei polmoni ed, ad un tratto, mi sento stanchissima. Noi condividiamo la camera da diciassette anni. Non riesco ad addormentarmi senza le nostre chiacchierate notturne. Non se ne parla che dorma da sola in territorio nemico. Dobbiamo fare i turni per controllare la porta.

“Henry può stare in camera con me, come sempre” obbietto guardando la mamma. Lei scuote forte la chioma bionda “Non essere sciocca pasticcino. Sei una donna ormai e hai bisogno della tua privacy”

“Ma lui…”. Mi interrompe scuotendo di nuovo la testa e lanciandomi un’occhiataccia. Forse non gli ha detto proprio tutto di noi. Jim scorta Henry nella camera di Aaron e mamma, me nella mia.

È enorme, la carta da parati è color cipria con delle rose bianche dipinte sopra e la moquette è marrone chiaro. Appoggiato alla parete destra c’è un grosso letto a baldacchino bianco con le federe ricamate sui toni del marrone, ed è affiancato da due comodini in legno. La stanza è inondata di luce da tre grosse finestre. La parete sinistra si stringe in un armadio a muro bianco, in cui ci stanno il doppio dei miei vestiti. Ci sono numerose mensole in legno, una scrivania in vetro e una poltrona rossa disposta proprio davanti ad una delle finestre. Davanti alla terza finestra è disposto un cavalletto e delle mensole per i colori e la pittura. Oltre all’armadio c’è un’altra porta che, presumo, porti al bagno.

È davvero una camera meravigliosa, ma non credo che lo ammetterò ad alta voce. So che è stata la mamma ha decorarla, è il suo lavoro. Oltre alla sua linea di moda, decora interni di ville lussuose.


“È tutta tua. Devi solo condividere il bagno con Liv, ma lei non lo usa quasi mai.” Fa una pausa. “Ti piace?” chiede speranzosa e nervosa allo stesso tempo. Sorride aspettando il mio verdetto sul suo lavoro. Il mio istinto mi urla di dirle la verità, di correre da lei ad abbracciarla e dirle che è uno spettacolo. Ma c’è sempre quell’odiosa vocina che mi ricorda che sono in questa stanza perché lei ha lasciato papà e ci ha trascinato ad Orem a vivere con i Flintstones. Perciò mi limito ad alzare le spalle lasciando Kafka sul pavimento. La sento sospirare dietro di me.

Naturalmente, visto che sono una figlia terribile, passo alle accuse. “Non hai detto a Jim di Henry, vero?” Il mio tono è anche più acido del previsto. Apre la bocca per dire qualcosa ma, cambia idea, e la richiude. Sospira, stanca, lasciandosi andare sul letto. Guardandola, così da vicino, sembra esausta e credo che sia per buona parte colpa mia. L’asprezza del senso di colpa scioglie le mie mura difensive accuratamente erette ormai da tempo, più precisamente da quando se ne è andata di casa. Ogni volta che la guardo mi sento rimbombare in testa l’ultima frase che ha detto prima di andarsene dalla sua nuova famiglia. Ho bisogno di spazio, di una pausa. Lo spazio di cui aveva bisogno erano 700 miglia, quello che separa San Diego dall’Utah .

Mi ricordo che l’ho guardata allontanarsi senza sapere quando e se sarebbe tornata. Dopo qualche mese sono arrivati per posta i documenti per il divorzio, ed è lì che il muro, tra lei e il mio cuore, è stato eretto. È da quasi un anno che tengo la guardia alzata e sono molto stanca. Sono davvero esausta, la rabbia consuma molte energie.

Accarezza il copriletto invitandomi a sedere accanto a lei. Resto ferma dall’altro lato della camera, con le braccia strette al petto. Ora come ora, è l’unica barriera che posso permettermi ancora in piedi tra me e lei.

“Julianne, Jim è un uomo molto credente ed è il reverendo nostra chiesa”. Nostra chiesa? Questa è nuova. Neanche due anni fa era la donna più atea del pianeta.

“E questo cosa c’entra? Pensavo che gli avessi parlato un sacco di noi”.

“Gliene parlerò a tempo debito” afferma risoluta.

“Henry non deve nascondere ciò che è e tu lo stai obbligando a mentire!” Alzo la voce perché lei non mi sta ascoltando.

Si alza di scatto e mi si piazza davanti. “Julianne non urlare”. Ha lo stesso tono di prima: calmo, pacato e completamente disinteressato. Tutto questo alimenta la mia rabbia come benzina su un incendio.

“Se no cosa? Il bigotto che ti scopi scoprirà che tuo figlio è gay!?”.

Sento lo schiocco prima di recepire il colpo. Mi brucia la guancia e sento l’orgoglio frantumarsi come un specchio. Fissa il vuoto scioccata con la mano ancora a mezz’aria e il labbro inferiore che le trema. Dalla sua espressione sembra lei quella che ha appena ricevuto uno schiaffo.

La porta si apre ed Henry irrompe nella stanza come un fulmine. Dirige tutta la sua attenzione su di me, visibilmente preoccupato. D’istinto, pur trattandosi della mamma, si mette tra noi facendomi da scudo. “Mamma…” sussurra deciso.

Lei si riprende dallo shock e si sistema il vestito. “Sistemate le vostre cose, manca poco alla cena”. Esce dalla stanza senza aggiungere altro.

Henry si gira prendendomi il viso tra le mani e muovendolo in cerca di danni visibili.

Lo scosto bruscamente. “Sto bene, non mi ha fatto male”. È stato più un danno morale che fisico.

“Sono giorni che la stuzzichi, era questa la reazione che volevi?”.

“Non esattamente…”. Volevo vederla scattare per noi, non per il suo uomo. Ma comunque è sempre meglio del solito tono pacato.

Mi lascio cadere sul letto con un sospiro teatrale. È davvero soffice.

Henry si butta accanto a me. “Sono geloso. La tua stanza è cento volte più bella della mia” sbuffa. “Devo condividere lo spazio vitale con un’artista tormentato e in collera con il mondo. Insomma lo facevo già a casa, perché lo devo fare pure qui?”.

Afferrò un cuscino ricamato e glielo sbatto in testa il più forte possibile. “Non sono un’artista tormentata!”.

Ridacchia strappandomi la mia arma di mano “I suoi armadi non sono organizzati per colore o per tipo di capo. Non sono proprio organizzati! I suoi vestiti sono arruffati in un cassetto come capita! Non solo i vestiti, è tutto messo come capita.”

“Oh mio dio!” squittisco imitando la sua espressione traumatizzata.

Mi colpisce di nuovo con il cuscino. “Mi ha liberato un cassetto. Come se i miei vestiti stessero in un cassetto”. Borbotta offeso.

“Puoi usare il mio se vuoi. Sembra un stanza” rido.

“Facciamo a cambio. Io dormo nella tua camera dei sogni e tu dormi con il Tormentato”. L’offerta non mi attira più di tanto.

“Devo condividere il bagno con una bambina di sei anni” lo avverto.

“Io con tre maschi adolescenti”. La sua faccia disgustata parla da sola.

“Mi tengo la mia stanza” rido. “Ma puoi usare il nostro bagno quando vuoi”.

“Grazie” sospira sollevato. Si alza con grazia, si aggiusta il maglione e mi allunga una mano. Mi aiuta ad alzarmi e, senza preavviso, mi agguanta in un abbraccio da orso. Mi appoggia il mento sulla testa stringendomi forte. Affondo il viso nel suo petto rilassandomi. I suoi vestiti sanno di casa.

“Non sei da sola, Jules” sospira accarezzandomi i capelli. “In tutto questo io sono con te. I gemelli restano uniti, ricordi?”. Alzo la testa per guardarlo negli occhi. Sono identici ai miei. Tra il marrone e il verde, terribilmente espressivi e pieni di segreti.

“Vuole farti mentire e io non posso sopportarlo” mormoro.

Guardandolo in faccia capisco che lo sa già. “Me lo ha detto prima di partire e io sono d’accordo”.

Mi scosto sottraendomi dal suo abbraccio. “Beh, potevi dirmelo prima che le urlassi in faccia e che mi schiaffeggiasse”.

“Non è stata colpa mia. Hai chiamato Jim, Il bigotto che ti scopi.” Ridacchia.

“Lo trovo un soprannome azzeccato”. Scuote la testa sorridendo.

Mi dà un colpetto sul mento. “Forza Jules, sistema le tue cose”.

Non voglio disfare le valige. Significherebbe che tutto questo è reale e definitivo, non sono pronta per questo. Non dico nulla, se parlassi capirebbe che sto mentendo, quindi mi limito ad annuire. Mi dà un veloce bacio sulla fronte ed esce dalla camera chiudendosi la porta alle spalle. Mi lascio andare sul letto sbuffando e aspettando che la terra mi inghiotta, salvandomi dal mio terribile destino.

   
 
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