Serie TV > Da Vinci's Demons
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Autore: _armida    25/12/2016    0 recensioni
“Sono stupito, non credevo che un bel faccino riuscisse anche a maneggiare un’arma con tale bravura”, disse il Conte.
Elettra provò a tirarsi su, ma finì per andare ad urtare contro la lama della spada, ferendosi leggermente uno zigomo.
“Dovete stare attenta, non volete di certo rovinare tutta questa bellezza così”, aggiunse allontanando la spada dalla faccia della ragazza. Doveva dargliene atto, era davvero bella. Non lo aveva notato prima, quando Grunwald l’aveva portata all’accampamento priva di sensi, era troppo preso dal chiedere al garzone di Da Vinci dove si trovasse la chiave.
Fece cenno a due guardie svizzere di tenerla ferma, mentre lui la perquisiva in cerca di altre armi nascoste. Non ne trovò, ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa che la ragazza teneva nella tasca sinistra dei pantaloni: si trattava del suo blocco da disegno. Quando fece per sfogliarlo, una moneta, contenuta al suo interno cadde a terra; non si trattava di una moneta comune, era in oro e presentava sulla sua superficie la faccia di un dio pagano. La raccolse e la osservò accuratamente.
“Cosa sapete riguardo ai Figli di Mitra?”
VERSIONE RIVEDUTA E CORRETTA SU WATTPAD
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Giuliano Medici, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo XXXII: L’inizio della Fine
 

26 aprile 1478, domenica di Pasqua


Una settimana prima il Turco aveva fatto visita a Leonardo, ragguardandolo circa i dettagli del suo imminente viaggio nella terra sconosciuta ad occidente: c’era una nave ancorata al porto di Pisa, il Basilisco. Con quella nave, le proprie conoscenze e gli strumenti in proprio possesso l’artista avrebbe dovuto essere in grado di raggiungere il luogo in cui secoli prima era stato portato il Libro delle Lamine. Il capitano della nave, un certo Antonio de Noli, in quei giorni si trovava con una chiatta a Firenze, a caricare alcune merci. Leonardo lo aveva raggiunto ed era riuscito a rimediare un passaggio per tre sulla sua nave.
La chiatta sarebbe partita quella mattina alla volta di Pisa.
Per quella ragione,  Elettra si era recata al piccolo porto fiorentino, che sorgeva sulle rive dell’Arno, in un’ansa naturale, che permetteva così alle piccole imbarcazioni che riuscivano a risalire il fiume di avere un minimo riparo dalle intemperie.
Solitamente la giovane evitava di passare davanti al porto fiorentino: quella piccola realtà le ricordava per molti aspetti il porto di Pisa. E il porto di Pisa era associato con una nave che si perdeva all’orizzonte e lunghe attese sul porticciolo. I porti le ricordavano quel padre che non vedeva da due anni. E il mare. Quel mare di cui sentiva il disperato richiamo, ma che si era convinta ad ignorare: lei non sarebbe stata come suo padre, non se ne sarebbe mai andata da Firenze.
Camminò per un po’ tra pescatori che cercavano di vendere il frutto del lavoro di una notte e scaricatori di varie merci, prima di trovare ciò che cercava: seduti sulla banchina, in un zona del porto relativamente tranquilla, si trovavano Nico e Zoroastro. 
Lei gli sorrise a distanza, prima di unirsi a loro.
La sera del ritorno a Firenze si erano trovati al Cane Abbaiante tutti assieme: all’inizio i due si erano comportati in modo piuttosto freddo ed indifferente nei confronti di Elettra, poi con il passare della serata i rapporti si erano fatti più distesi. Come a tutte le cose, bisognava dargli tempo.
“Salve, signori”, disse, osservandoli attentamente: le sarebbero mancati, tutti quanti. Si conoscevano tutti e quattro fin da bambini e non avevano mai passato troppo tempo lontani da allora. Ora non si sarebbero più rivisti per mesi.
La giovane prese un lungo respiro, cercando di scacciare il fastidio alla gola, un avvertimento che le lacrime per la partenza erano già lì, pronte per essere versate.
Zoroastro le sorrise, come solo lui sapeva fare, con quel misto di ironia e sfrontatezza che lo distinguevano. “Come sei elegante, oggi”, commentò, tendendole una mano. La ragazza l’accettò più che volentieri e il moro le alzò leggermente il braccio, guidandola in una lenta  giravolta che aveva come intento quello di osservare ancora meglio la sua figura: quel giorno indossava una delicata giacca in broccato dai colori pastello, con una fantasia floreale; le arrivava a metà coscia e sotto portava un paio di pantaloni neri, quasi invisibili sotto agli stivali che le arrivavano fin sopra il ginocchio. Sotto alla giacca portava una camicia bianca, mentre i capelli erano stati raccolti molto attentamente in una treccia a corona. 
“Oggi sono a pranzo dai Medici”; spiegò lei. “Devo incontrarmi con mio zio fuori dal Duomo non appena la messa di Pasqua finisce e poi andiamo insieme a palazzo ad aspettare Giuliano”
“Ti stanno addomesticando troppo quelli là”, disse Zoroastro. Il suo sguardo pareva malinconico. “Ti preferivo prima, più selvaggia”
Lei fece spallucce, non riuscendo però a trattenere una piccola risata. “A differenza tua, la gente normale piano piano cresce”, commentò ironica, scompigliandogli i capelli.
L’uomo la prese tra le braccia, facendole fare nuovamente la giravolta e strappandole un urletto di sorpresa.
“Mi mancherai, sai”, mormorò Zoroastro, una volta che l’ebbe rimessa a terra.
“Mi mancherete anche voi”, rispose lei, abbracciandolo e invitando anche Nico ad unirsi a loro due. Involontariamente, una lacrima le scivolò velocemente su una guancia.
Il moro la notò, sbrigandosi a scacciarla il prima possibile.
L’abbraccio si ruppe.
“Promettimi una cosa”, disse l’uomo, con un’espressione insolitamente troppo seria stampata in volto. “Promettimi che dirai a quel bastardo che se osa farti soffrire appena torno lo vengo a cercare e lo concio per le feste”
“Sarà fatto, Zo”, rispose lei. “In fondo, chi non ha paura del temibile Zoroastro?”, aggiunse ironica.
Il suo sguardo però si fece più pensieroso, quando notò Nico guardarsi in giro con la stessa espressione di un cucciolo smarrito che cerca la propria mamma: evidentemente cercava il proprio maestro, che non si era ancora fatto vivo.
In ritardo fino all’ultimo.
Zoroastro sospirò, chiedendosi mentalmente dove fosse andato a cacciarsi Leonardo. Si guardò in giro a sua volta, in cerca di qualcosa da fare. “Che ne dice se ti predicessi il futuro per un’ultima volta?”, chiese rivolto ad Elettra.
“Sai che non credo in queste cose, ma per questa volta potrei anche accontentarti”, rispose lei.
Il moro sorrise, soddisfatto di sè stesso, ed estrasse dalla bisaccia che teneva a tracolla il proprio mazzo dei tarocchi. “Estrai due carte”, le spiegò. “In una ci sarà il tuo futuro e nell’altra quello di Leonardo”
La giovane annuì e chiuse gli occhi, poi tastando le carte, ne estrasse un paio: la prima era un carro rovesciato, mentre la seconda rappresentava uno scheletro che portava tra le mani una falce. “Cosa significano?”
La sua domanda rimase senza risposta, dal momento che Da Vinci fece improvvisamente la sua comparsa.
“Che ti venga un accidente, dove sei stato tutta la notte?”, gli chiese il moro.
“Sono stato stregato da un ultimo addio”, rispose lui, lo sguardo vago, la mente rivolta alla notte prima, a Lucrezia Donati. A quello che si erano detti. A quello che avevano fatto.

“Riario e i Pazzi stanno venendo a Firenze, vogliono uccidere Lorenzo”

Ciò che lei gli aveva rivelato era la verità, o l’ennesima delle sue manipolazioni? Quelle parole lo avevano tormentato per tutta la notte. E lo stavano tormentando anche ora.
“Maestro, la chiatta è stata caricata e il Capitano è ansioso di partire”, disse Nico.
“Quel pallone cancrenoso ha minacciato di raddoppiare il biglietto per il ritardo”, aggiunse Zoroastro. 
Lo sguardo dell’artista invece era ancora perso. E non accennava a tornare con i piedi per terra.
“Leonardo, Zo ha ragione, dovreste partire”. La voce di Elettra era ridotta ad appena un sussurro, quando poggiò la mano sulla sua spalla.
Da Vinci, soprappensiero, a quel contatto inaspettato sobbalzò. Si voltò verso di lei, l’inquietudine nel suo sguardo malcelata. “Cosa...farai tu, ora?”, le chiese.
La giovane sorrise, mestamente. “Innanzitutto vi stritolo ancora un po’”, disse, aprendo le braccia ed invitando così l’artista ad abbracciarla. “E poi resterò qui sul molo a sventolare un fazzolettino bianco fino a quando non diventerete un puntino indefinito all’orizzonte”
“E poi?”, chiese nuovamente, come se qualcosa non lo soddisfacesse appieno. 
“Sarò tutto il giorno a palazzo”
Le iridi dell’artista si dilatarono, forse per un sentimento non dissimile dalla paura. Fu solo un istante, poi Leonardo parve finalmente tornare in parte con i piedi a terra. “Bene, cerchiamo di risparmiare denaro e muoviamoci”, disse, posando lo sguardo sulle carte che Elettra aveva estratto poco prima. “E quelli che significano?”, chiese a Zoroastro.
“Ah niente, ci stavamo interrogando su dove diavolo fossi finito”, rispose lui.
“Il carro...rovesciato?”, chiese perplesso.
“Un’incontrollata passione conduce alla sconfitta”, disse il moro. “È tempo di andare, direi. Coraggio”, aggiunse, focalizzando finalmente la conversazione sul motivo per cui si trovavano lì.
“È così quieto”, commentò Leonardo, guardandosi in giro e concentrando la propria attenzione sull’imponente cupola del Brunelleschi, che spiccava su tutte le altre costruzioni, dall’altra parte dell’Arno.  “Le campane si sono fermate, la messa è cominciata”, aggiunse soprappensiero.
Sospirò, poggiando meglio la propria bisaccia su una spalla. 
“ Al diavolo!”, disse, poggiandola di scatto a terra. “Devo fare una cosa prima di partire”
“Maestro, non c'è tempo”. L’espressione di Nico era seriamente perplessa, come del resto quella di tutti gli altri.
“La chiatta non aspetterà”, gli fece eco Zoroastro. “Devi decidere: il Libro delle Lamine o qualunque sia la cosa che ti distoglie, decidi!”
“Ho deciso”, rispose Leonardo, sistemandosi meglio la propria spada al fianco. “Tu trova...trova un modo per tenerli qui almeno finché non torno, d’accordo? Non starò via molto, tu ritardali un po', intesi? Per favore”
Zo e Nico lo guardarono allibiti, mentre afferrava Elettra per un polso. Appariva parecchio di fretta. 
“Hai una spada?”, le chiese.
La giovane lo guardò a metà tra il perplesso e il preoccupato. “Sì, perchè me lo chiedi?”
“Muoviamoci”, disse per tutta risposta, trascinandola via.
Il giovane Machiavelli e il moro li osservarono allontanarsi fino quando non scomparvero alla loro vista. Poi si guardarono a vicenda, ancora troppo frastornati per dire anche solo una qualche parola.
Fu Nico, dopo parecchi secondi, a rompere il silenzio. Il suo sguardo fu attirato dalle carte ancora poggiate su di un vecchio barile.
“Quella cosa significa?”, chiese, indicando la carta con disegnato lo scheletro armato di falce.
“Una fine che non può essere evitata in alcun modo”, rispose Zoroastro.
 

***


“Leonardo, che sta succedendo?”, chiese Elettra preoccupata, con il fiato corto mentre cercava di restare al passo del brillante artista, che aveva preso a correre per le vie fiorentine.
“I Pazzi vogliono uccidere Lorenzo, dobbiamo avvisarlo prima che sia troppo tardi”, rivelò lui, voltandosi un istante per strappare un lembo di stoffa da una delle numerose bancarelle che affollavano le vie del mercato. Lo usò come tappo per una strana boccetta che gli era comparsa tra le mani e che conteneva uno strano liquido scuro.
“Girolamo...”, mormorò lei, fermandosi nel bel mezzo della strada e obbligando così Da Vinci, che ancora le teneva il polso a fare lo stesso. La frase sarebbe continuata con un ‘...sa di questo piano?’, ma non ebbe il coraggio di pronunciarla.
Leonardo a guardò negli occhi, sinceramente dispiaciuto. “Mi dispiace, Elettra”
La giovane annuì, in un gesto di autocommiserazione: quell’uomo l’aveva ingannata per l’ennesima volta. Le aveva mentito. Le aveva mentito guardandola negli occhi, per di più.
Prese dei lunghi respiri per calmarsi, mentre si concentrava su un punto indefinito della strada di terra battuta ai propri piedi. Quando rialzò lo sguardo sull’artista, esso apparve come un mare in tempesta. Quegli occhi avevano un chè di combattivo, che appariva così in contrasto con l’espressione dura del suo viso. “Dobbiamo muoverci”, disse, con la voce che cercava di essere ferma e decisa, ma che, invece, pareva tremante.
Si udirono delle urla e istintivamente si voltarono entrambi verso il Duomo: da quella che doveva essere la navata centrale usciva del denso ed inusuale fumo nero.
Elettra si girò di scatto verso Leonardo. “Dobbiamo sbrigarci!”, urlò per farsi udire sopra alle grida della gente.
Si misero immediatamente entrambi a correre di nuovo.
 

***

 
Per quanto in quei pochi minuti di corsa avesse cercato di prepararsi mentalmente a ciò che avrebbe trovato una volta oltrepassato il portale di accesso del Duomo, Elettra non era pronta.
Non era pronta a ciò che la stava aspettando.
La gente correva in preda al panico in cerca di salvezza, urtandola e cercando di spingerla verso l’uscita.
La fazione fedele ai Medici e quella fedele ai Pazzi combattevano tra loro senza esclusione di colpi. Intorno a lei i corpi di persone che conosceva fin da quando era nata cadevano a terra come tanti birilli.
Si udivano urli, pianti e lamenti.
Ma Elettra non udiva nè vedeva nulla all’infuori di Vanessa in lacrime, china su di un corpo. Sotto ad esso una chiazza di sangue si allargava a vista d’occhio.
Giuliano.
Restò per diversi secondi immobile, sulla soglia, incapace di muovere qualsiasi muscolo poi si decise: doveva far qualcosa. Con gesti fulminei, li raggiunse, chinandosi anche lei affianco all’uomo, ormai morente.
“Giuliano”, mormorò, non riuscendo a trattenere e lacrime.
“Sto...morendo”, disse lui, con un filo di voce.
Elettra scosse la testa. “No...io non posso permetterlo”, ribattè, cercando di tamponare come meglio poteva il ventre dell’uomo con la stoffa della propria giacca. Per ogni punto che tamponava, il sangue prendeva a sgorgare con più intensità da altri. In preda al panico, osservò Giuliano dritto negli occhi: sapevano entrambi che non c’era più niente da fare.
“Va...bene...così”, sussurrò lui, con voce sempre più flebile. Dovette fare uno sforzo immane per riuscire ad afferrare debolmente le mani delle due giovani accorse al suo capezzale.
Elettra la strinse con entrambe le proprie. Il viso ricolmo di lacrime e i singhiozzi trattenuti a stento.
Vanessa invece guidò la sua mano verso il proprio ventre, poggiandola su di esso. “La vostra stirpe continuerà a vivere in me”, disse, riprendendo anche lei fiato tra un singhiozzo e l’altro.  “Porto in grembo vostro figlio, Giuliano”
Il giovane de Medici piegò leggermente le labbra in quello che pareva un accenno di un sorriso, dopodiché chiuse gli occhi, la stretta delle sue mani che veniva meno.
Elettra voltò il capo dall’altra parte, incapace di osservare il corpo di quello che un tempo era stato il suo migliore amico. Si coprì il volto con la mano libera, soffocando con essa ogni singolo singhiozzo che le scuoteva per intero l’esile corpo.
Inorridì quando si osservò le mani, ricoperte di sangue. Il sangue di Giuliano.
Anche gli abiti ne erano zuppi.
“È troppo tardi...venite via”
Quando era arrivato Andrea? O era lì da ancora prima?
Lo vide cercare di aiutare Vanessa ad alzarsi, ma la giovane invece si buttò sul corpo di Giuliano, stringendo tra le mani la stoffa impregnata di sangue della sua camicia, ridotta a brandelli dalle innumerevoli coltellate che i congiurati gli avevano inflitto. 
“Venite via”, ripetè lui. “Vanessa...Elettra”, tentò di chiamarle.
A sentire il maestro pronunciare il suo nome, Elettra parve riscuotersi almeno in parte. “Vanessa...dovresti fare come dice Andrea”, disse con un filo di voce, poggiando una mano sulla sua, ancora poggiata sul petto di Giuliano. 
“No”, ribattè lei, categorica.
Fu in quel momento che uno dei congiurati si avvicinò brandendo una spada e puntandola verso il Verrocchio che, di spalle rispetto al suo aggressore, vide appena il luccichio della lama. Troppo tardi per poterlo evitare. Non gli restò atro che alzare le mani in un inutile quanto istintivo gesto di protezione ed attendere il colpo.
Colpo che però non arrivò mai.
Fu un clangore di spade a portarlo a riaprire nuovamente gli occhi che la paura gli aveva fatto serrare.
In piedi davanti a lui, con la spada stretta in pugno, Elettra aveva parato l’attacco nemico.
Vide l’avversario della giovane ritrarre la propria arma, frastornato: evidentemente non si aspettava che qualcuno sarebbe stato in grado di contrastarlo. Tentò un nuovo affondo, questa volta diretto alla ragazza, ma lei fu più veloce e con un gesto fulmineo conficcò la propria lama nel ventre dell’uomo.
Lo vide dilatare gli occhi dalla paura e poi, mentre estraeva la spada, il suo aggressore cadde sulle propria ginocchia, prima di crollare a terra, morto.
Elettra si voltò verso Andrea, che nel frattempo era riuscito a staccare Vanessa dal corpo di Giuliano. Il suo viso era scosso e, per la prima volta in vita sua, anche lo sguardo del suo maestro pareva disorientato.
“Andate!”, disse rivolta ad entrambi.
“Vieni con noi”, provò a convincerla il Verrocchio.
Scosse la testa. “Non posso, ho giurato fedeltà ai Medici”. Un ultimo sguardo, poi si buttò nuovamente nella mischia.


***


Elettra cercò di guardarsi in giro alla ricerca di Leonardo, ma la confusione era troppa. Riuscì in modo fortuito a schivare un colpo di spada, scartando all’ultimo verso destra e poi, in gesto fulmineo, disarmò il proprio aggressore. Fu in quella frazione di secondo che vide Clarice e Gentile Becchi: si trovavano in una zona marginale del Duomo; alle loro spalle le tre figlie di Lorenzo cercavano di nascondersi tra le vesti dei due come un piccolo gruppo di anatroccoli spaventati si rifugia tra le piume dei genitori. Davanti a loro, invece, Padre Maffei e Padre Bagnone avanzavano lentamente tenendo stretti in pugno alcuni affilati coltelli.
Lo sguardo di Clarice vagava senza sosta da una parte all’altra, in cerca di qualcosa che aiutasse loro ad uscire da quella brutta situazione; i suoi occhi si fissarono su una delle armi che uno dei loro aggressori impugnava. Istintivamente, portò un braccio dietro alla schiena, in gesto di protezione verso le sue bambine, che si strinsero ancora di più tra loro. Arretrarono tutte insieme, ben consapevoli che ogni passo le avvicinava ancora di più alle solide pareti del Duomo fiorentino. Presto sarebbero stati tutti quanti in trappola.
La Madre di Firenze si guardò in giro: in quel momento la sua espressione pareva non differire troppo da quella di un topo in gabbia.
Poi lo vide. 
Sulla sottile balaustra che divideva la zona dell’altare dal resto della chiesa vi era poggiato un pensante candelabro d’argento. Le sarebbe bastato allungare il braccio per afferrarlo.
In un gesto estremo, prese l’oggetto tra le mani e poi, con tutta la forza con cui disponeva, lo utilizzò per il colpire il prete a lei più vicino. L’uomo, già ferito, stramazzò immediatamente al suolo.
L’altro congiurato, sentendo mancare l’appoggio del compare, alzò in aria il proprio coltello, pronto a colpire Gentile Becchi.
Il colpo però non andò mai a segno: un’istante prima di abbassare l’arma, l’uomo strabuzzò gli occhi e lo lasciò cadere a terra; con le ultime forze cercò di portare le mani al proprio petto, da cui fuoriusciva la lama insanguinata di una spada. Il corpo ormai morente sussultò quando essa venne estratta e poco dopo piombò al suolo.
Becchi osservò disorientato la chiazza di sangue che si allargava sempre di più sotto a quello che ormai era diventato un cadavere, poi alzò lo sguardo verso la persona che aveva salvato la vita all’intero gruppo: Elettra sembrava anche lei scossa per ciò che aveva dovuto fare; teneva la propria arma abbassata ed aveva gli abiti inzuppati di sangue. Sangue che le aveva screziato anche l’ovale pallido del viso.
“Dobbiamo...andare”, disse con un filo di voce. 
Non si accorse, nessuno lo fece, che il prete che Clarice aveva colpito si era rialzato da terra, nè che aveva recuperato il proprio coltello, intenzionato a colpire la giovane che, all’oscuro di tutto, gli stava dando le spalle. Se ne accorse quando ormai era troppo tardi, quando vide Becchi trasalire. Fece per voltarsi, ma qualunque gesto sarebbe stato comunque vano.
Per l’ennesima volta, quel giorno, il fato pareva essere dalla sua parte: nemmeno quel colpo, come quello di poco prima, riuscì ad andare a segno. 
Lucrezia Donati, proprio l’ultima persona che si sarebbe aspettata come salvatrice, si interpose tra lei e il suo aggressore, pugnalandolo al ventre con uno stiletto.
Elettra ci mise qualche istante a riprendersi e per capire cosa effettivamente fosse successo. Non appena ciò accadde, fece alcuni passi indietro, la spada di nuovo alta davanti a sè, puntata verso Lucrezia. 
La donna alzò immediatamente le mani, non lascando però la presa sulla propria arma. “Se avessi avuto l’intenzione di farvi del male, non sarei intervenuta”, disse.
“Come faccio a sapere che non è un altro dei vostri trucchi?”, chiese la bionda, ostile.
La domanda restò a vuoto, dal momento che lo sguardo di tutti fu attirato da un grido di esultanza, proveniente dalla bocca di Francesco Pazzi: Lorenzo era a terra, disarmato, che teneva una mano premuta sul collo, da cui nonostante la pressione esercitata, il sangue fuoriusciva copiosamente. Videro la spada del Pazzi calare con forza sul Magnifico ma, all’ultimo istante, essa venne fermata da una seconda arma, quella di Leonardo: le due lame cozzarono con violenza, producendo nell’aria un intenso rumore metallico.
Tirarono un sospiro di sollievo.
Esso, però, fu di breve durata dal momento che Da Vinci fu presto accerchiato dai congiurati e, nonostante la sua incredibile abilità nel maneggiare contemporaneamente due spade, riusciva giusto a parare i colpi avversari, figuriamoci a rispondere.
In quelle condizioni sarebbe presto perito anche lui.
Lo sguardo di Elettra passò velocemente più volte da quella scena, che si stava svolgendo dalla parte opposta del Duomo, a Lucrezia, su cui teneva ancora la spada puntata.
La giovane non sapeva che fare: non intervenire in aiuto di Leonardo avrebbe firmato la condanna a morte sia del brillate artista che del Magnifico, ma lasciare soli suo zio, Clarice e le bambine sarebbe equivalso anch’esso ad una sentenza di morte.
“Dovete aiutare Lorenzo”, disse la Donati, guardandola negli occhi e fermando così il suo sguardo. “Lui e Leonardo moriranno se non farete immediatamente qualcosa”
“Devo portare loro in salvo”, ribattè Elettra.
In quel momento, Leonardo perse l’equilibrio, riuscendo a schivare per miracolo un fendente altrimenti mortale.
La giovane, già in procinto di allontanarsi, si bloccò, osservando la scena pietrificata.
“Elettra...”, mormorò Lucrezia in tono implorante. “Se Lorenzo muore saremo morti tutti quanti”, aggiunse.
“Dovresti andare”, ripetè Gentile Becchi, in tono dolce, lo stesso che usava quando lei era bambina. “Noi...sapremo cavarcela”. Se dalla sua voce non traspariva nient’altro che affetto e una velata supplica, i suoi occhi, così simili a quelli della nipote, apparivano preoccupati, a tratti fin impauriti. 
“Non è vero...”, sussurrò Elettra.
“Li porterò al sicuro io”, si intromise la Donati.
“No!”, ribattè la giovane, decisa. “Voi siete una spia, non esiterete a tradirci”
“Non avete altra scelta”
Era vero. Elettra non aveva altra scelta, non se voleva salvare tutti quanti.
Sospirò, annuendo impercettibilmente con la testa. 
Sentì Lucrezia spronare gli altri a muoversi, ma all’ultimo la fermò, bloccandola con la propria spada premuta sul collo. “Sappiate che se dovesse succedere qualcosa a mio zio, alle bambine o a Clarice, se esco viva da qui vi vengo a cercare”, sibilò, nel tono più minaccioso che fosse in grado di fare.
Lasciò la presa, permettendo così al gruppo di fuggire, e lei si mise a correre, cercando di raggiungere Leonardo e Lorenzo il prima possibile.
 

***


“Lasciatemi finire i Medici, scribacchino, e vi lasceremo vivere”, disse Francesco Pazzi, puntando la propria arma in direzione di Leonardo. Le sue parole non poterono apparire più false dal momento che, appena finito di pronunciarle, tentò un affondo dritto al ventre dell’artista che, senza neanche troppi sforzi, evitò il fendente scartando a destra.
“In una Firenze governata dai Pazzi?”, ribatté Leonardo, con pungente sarcasmo. “Preferirei morire combattendo”
“Come volete”, commentò il Pazzi. Un ghigno stampato in volto. Provò ad attaccare di nuovo il geniale artista, che non solo evitò nuovamente il colpo ma che, con un gesto fulmineo, contrattaccò. Francesco, ancora sbilanciato in avanti per via del fendete andato a vuoto, fu troppo lento ad arretrare e venne ferito di striscio ad una gamba. Nonostante esso fosse poco più di un graffio, lanciò un grido di dolore e, tenendo una mano premuta sulla parte lesa, fece alcuni passi indietro, zoppicando. Immediatamente un paio di suoi scagnozzi si fecero avanti, cominciando ad incalzare Leonardo con le proprie spade. 
Il colpo di una di esse sarebbe senz'altro andato a segno, se non fosse stato deviato da una terza lama. Da Vinci spostò per un istante lo sguardo a destra dove, al proprio fianco, Elettra aveva fatto la sua comparsa. La giovane in quel momento stava dimostrando una tecnica invidiabile: evitava con agilità i fendenti nemici e, approfittando delle debolezze altrui, riusciva a contrattaccare in modo fulmineo ed estremamente preciso; a Leonardo, attendo osservatore della natura, quel comportamento appariva non dissimile da quello di una vipera.
“Posso tenerli a bada per un po'”, disse lei, tra un colpo di spada e l’altro. “Tu porta in salvo Lorenzo”, aggiunse.
“Ho qualcosa di meglio”, ribattè Leonardo, con uno dei suoi tipici sorrisetti sfrontati. “Tu tieniti pronta a correre”
Elettra annuì.
Con un abile gesto, Da Vinci prese dalla propria cintura la strana boccetta che aveva tappato con della stoffa mentre correvano in Duomo. Dopodiché la lanciò in aria insieme ad una candela accesa: al contatto con la fiamma, il tessuto prese immediatamente fuoco. L’ampolla cadde infine a terra, andando in frantumi e permettendo al liquido al suo interno di spargersi per tutto il pavimento; esso doveva essere altamente infiammabile dal momento che prese immediatamente fuoco, producendo un bagliore accecante.
Leonardo portò un braccio del Magnifico intorno alle proprie spalle e poi, facendo leva sulle ginocchia si alzò, trascinandolo velocemente fino alla sagrestia, alle loro spalle.
Elettra cercò di seguirli, ma uno dei congiurati, che a differenza degli altri non era cascato nel trucco del geniale artista, le bloccò il passaggio. Osservò Da Vinci armeggiare con le due pesanti porte della sagrestia: appariva in difficoltà.
“Leonardo, chiudi quella porta!”, gli urlò, come ad incoraggiarlo. Lo vide tirare verso di sè le grandi maniglie con un po' più di forza, ma i battenti si mossero appena; a quanto pare per muoverle serviva più di una persona.
Con un brivido freddo lungo la schiena, Elettra si accorse che Francesco Pazzi e gli altri congiurati si erano ormai accorti dello stratagemma di Da Vinci e si stavano dirigendo verso di lui.
La giovane osservò l’uomo davanti a sè, poi i cospiratori, che avanzano minacciosamente, ed infine Leonardo, ora in evidente difficoltà. Con una punta di rammarico, Elettra si rese conto che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungere Da Vinci ed aiutarlo a chiudere le porte dall’interno; tuttavia c’era un’ultimo gesto che poteva tentare. 
In quel caso non avrebbe avuto via di scampo... Ma le importava davvero?
Il suo sguardo finì per una frazione di secondo sul corpo di Giuliano, inerte nel bel mezzo della navata centrale, in un pozza del suo stesso sangue.
No, non le importava.
Ignorando completamente l’uomo armato davanti a lei, scattò verso le porte, buttandosi contro ad esse con tutto il proprio peso. Inutili furono i tentativi di Leonardo per mantenerle aperte, per permetterle di entrare.
“Proteggi Lorenzo, Leonardo”, disse con un filo di voce, all’artista che dall’altra parte gridava il suo nome, ben consapevole delle conseguenze che quel gesto disperato avevano portato.
Elettra prese un lungo respiro mentre lo udiva bloccare le serrature: una parte di lei si sentiva sollevata che per una volta Leonardo stesse facendo ciò che gli aveva chiesto.
Era certa che almeno loro due si sarebbero salvati.
Si voltò lentamente, mantenendosi con le spalle premute contro il pesante portale: davanti a lei i congiurati la osservavano con le spade puntate. 
Forse quella sarebbe stata davvero la fine, pensò Elettra, stringendo nervosamente l’elsa della propria arma.


Nda
Vi prego, non odiatemi.
Il motivo per cui ho deciso di pubblicare oggi questo capitolo è che a Natale si è tutti più buoni, quindi nutro la speranza che non verrete a casa mia armati di torce e forconi per farmi la pelle. Se deciderete di infierire dopo le vacanze, molto probabilmente mi troverete barricata al Castello Sforzesco, che mi sembra un luogo abbastanza sicuro. 
Così questo è il penultimo capitolo, l'epilogo pensavo di pubblicarlo il 21 gennaio (se me ne scordo però ricordatemelo, la memoria è quella che è), insieme ai ringraziamenti e ai saluti.
L'avventura è quasi finita.
Alla prossima e buone feste.
 

   
 
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