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Autore: VeniceWestenra    25/12/2016    0 recensioni
"Aveva ragione. Constantine era arrivato alla fine del suo viaggio. Aveva attraversato l'Impero Nero e una parte del Regno di Fuoco. Aveva pianto per la perdita di un amico, aveva riso per le figuracce di Horace, aveva combattuto contro le persone sbagliate, e più volte si era ritrovato senza speranza, con il desiderio di tornare in patria e di lasciare libero Horace. Una volta, era stato sul punto di farlo davvero, di dire addio al suo Guardiano e spezzare il loro Legame; quello stesso Legame che aveva il potere di renderlo immortale. Chiunque lo avrebbe giudicato un folle. Rinunciare all'immortalità e liberare uno degli Schiavi più potenti che vi fossero in circolazione. Ma Constantine si era sentito stanco; stanco di ottenere indizi inconsistenti, stanco di illudersi che avrebbe ritrovato sua sorella."
QUESTA STORIA HA PARTECIPATO A UN CONCORSO WATTPAD!
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NOTA BENE! 
Il racconto qui presente è il continuo di una traccia scritta da un ragazzo (quella in corsivo), il quale ha organizzato un concorso su Wattpad a cui ho partecipato. Potete saltare il testo in corsivo, però se la leggete è meglio, così potete capire alcune cose. :) 
Grazie! 

 

Ha partecipato al contest Reclutamento fantasy indetto da @Frey B sul sito di scrittura Wattpad

Ebbe come l'impressione di sentire un dolce formicolio viaggiare lentamente verso l'estremità dei piedi. Passarono solo pochi secondi e la stessa sensazione si estese lungo le sue braccia, solleticandogli in maniera bizzarra la pelle. Cominciò a sentire caldo, a percepire i primi raggi del sole scorrere sopra i suoi vestiti. Il suono delle onde si infranse sulla terraferma e gli trasmise una certa quiete armoniosa. Cosa avrebbe dato per risvegliarsi su un'isola dei Caraibi...

D'un tratto, il verso dei gabbiani lo fece sussultare. Si svegliò di soprassalto e aprì gli occhi. Davanti a sé un cielo limpido dai colori sfavillanti accecò la sua vista ancora assonnata. Allora distolse lo sguardo dalla sua destra e una pazzesca visione fece sobbalzare il suo cuore. Sommerso dalle bianche sabbie di un'isola, si trovò circondato dallo splendore delle acque turchesi dell'oceano. La spiaggia era talmente piccola, che dalla sua posizione riusciva a vedere ogni angolo della terraferma. Si guardò attorno frastornato, girando ripetutamente su se stesso. L'isola era rivestita da lunghe palme, fiori violacei e uccelli nascosti dietro densi cespugli. Alcuni di loro cantavano a intermittenza, a tempo con il suono delle onde.

All'improvviso, un leggero vociare si introdusse nella sua mente, un'inquietante melodia, una voce indistinta, tenue e misteriosa. Non riusciva a definirne la direzione, ma aveva come la sensazione che fosse dentro e intorno a lui. Poi, un bagliore metallico apparve alto all'orizzonte e un rombo lontano echeggiò nell'aria. I gabbiani dell'isola emisero l'ultimo verso sopra le onde del mare, per poi librarsi in cielo e abbandonare in fretta quel luogo. Tra le nuvole rade e l'azzurro limpido del cielo, l'oggetto luminoso sfrecciò in picchiata in direzione dell'isola e il suo rombo divenne sempre più corposo. Stette col fiato sospeso, aguzzando lo sguardo nell'intento di stabilire cosa fosse. Passarono un paio di secondi, poi, tra l'incertezza e il terrore, quello che pensava fosse un oggetto in avvicinamento si mostrò, fugando i suoi ultimi dubbi. Un gigantesco aereo scese di quota ad una velocità inaudita e sembrò mirare proprio l'isola. Sarebbe sicuramente esploso insieme a lui, se fosse rimasto ancora lì a guardarlo. Allora si girò di spalle e cominciò a correre sulla sabbia il più velocemente possibile in direzione del mare, unica sua salvezza. Il rombo del motore divenne così forte e violento che la paura di finire in mezzo alle eliche dell'aereo paralizzò ogni suo arto, lasciandolo inciampare lungo la riva della spiaggia. Prima che potesse girarsi e guardare in faccia la morte, il silenzio scese all'istante, e una folata di vento fece sollevare da terra infiniti granelli di sabbia. Il rombo del motore cessò di esistere e i gabbiani tornarono a librare nell'aria attorno all'isola. Si girò di scatto, intento a capire cosa fosse accaduto, ma l'aereo era scomparso nel nulla, come se non fosse mai esistito. Una visione, però, gli diede la conferma che non fosse diventato pazzo: l'aereo aveva lasciato una traccia della sua esistenza, un sacco di juta stracolmo di oggetti vari e alimenti di prima necessità. Non capiva dove si trovasse e cosa ci facesse il suo corpo in quest'isola, ma di sicuro sapeva cosa stesse combinando la sua mente, così impegnata nella ricerca della comprensione.

                                                                                        
        Mio sviluppo:

La ferita non era poi così profonda. Malgrado ciò, il sangue fuoriusciva copioso, tracciando sentieri sottili e scuri sul palmo della mano sinistra. Gocce scarlatte si tuffavano nel vuoto, si annientavano sulla sabbia e sfrigolavano come schizzi d'acqua su tizzoni ardenti.

Constantine se ne stava in piedi sotto il sole cocente, ad osservare l'incisione circolare. Era come guardare la pelle lacerata di qualcun altro: ti dispiaceva, forse, ma il suo dolore non lo percepivi. Allo stesso modo, Constantine non provava il bruciore delle scottature, perché semplicemente non vi erano. Non si sentiva nemmeno dispiaciuto per se stesso. Il suo cuore, che tanto aveva battuto al risveglio, adesso seguiva un percorso calmo e regolare. C'era qualcosa nel pugnale che tanto teneva stretto nell'altra mano, sulla cui lama scendeva una lacrima vermiglia; qualcosa che gli infondeva fiducia, serenità, speranza.

Eppure, il dubbio si insinuò comunque. Se si fosse sbagliato? Se la sua teoria - unica teoria - fosse risultata inesatta? Se quelli che credeva abbozzi di ricordi, non fossero altro che mere fantasie?

No, non era possibile. Il sangue umano non sfrigola. Di certo un umano sente il dolore quando si ferisce, quando il sole è nel vivo del suo furore e aggredisce la carnagione scoperta. Sì, Constantine ormai ne era certo: non era una persona qualunque.

Strinse le dita contro il palmo e fece gocciolare altro sangue sul terreno. Poi, si spostò di due o tre passi e, con fare paziente, si sedette. Davanti a lui c'era il sacco di juta che lo spettrale aereo gli aveva portato. Lo aveva svuotato parzialmente. Aveva lasciato dentro soltanto il cibo - frutta, pezzi di morbido pane, un sacchetto pieno di leccornie - e l'acqua contenuta in due anonime bottigliette di plastica. Quasi tutto il resto giaceva sulla sua destra. Tre inquietanti ritrovamenti - quattro, con il pugnale -, di fronte ai quali, Constantine non aveva battuto ciglio. Il teschio di un uomo, una ciocca di capelli corvini, legata da un nastro nero, e una boccetta di vetro; all'interno di quest'ultima, che era chiusa con un tappo di sughero, vi era un liquido scuro e denso. Non aveva idea di che cosa dovesse farci con tutto ciò, sapeva soltanto che avevano un significato e che prima o poi lo avrebbe scoperto. Doveva soltanto aspettare.

Fu una risata a rompere la quiete. Lontana. Femminile. Girò la testa di scatto verso la fitta vegetazione. Aguzzò la vista, ma non vide niente di particolare. Era tutto come prima. Dominava il silenzio. Forse era stata la sua immaginazione. Tuttavia, nel momento in cui tornò a posare gli occhi, verdi e curiosi, di fronte a sé, capì che l'attesa era finita. Un corvo imperiale lo fissava. Le grandi ali tirate indietro lungo il corpo, gli occhietti neri che preannunciavano oscuri cambiamenti. Constantine, manico del pugnale sempre stretto nella sua mano pallida, si alzò in piedi lemme lemme, quasi temesse un possibile attacco. Ora il battito cardiaco riprese a correre. Un vociare di corvi e cornacchie gli ricadde addosso come violenta pioggia. Sopra di lui, i gabbiani mutavano la loro forma: piume candide perdevano il loro colore, i becchi si facevano più fini. E sullo sfondo di questa loro agghiacciante trasformazione, il cielo si ingrigiva. C'erano nuvoloni che si affacciavano all'orizzonte, che marciavano rapidi come soldati di altri tempi, il cui rumoroso intercedere, brontolii e urla poderose, preparavano cuori impavidi, facevano tremare cuori deboli. Constantine si rese conto, a malincuore, di appartenere a questa seconda categoria. Non era umano, ma ebbe paura come un umano.

In sintonia con la nuova, cupa atmosfera che stava calando, anche l'oceano si oscurò. Le acque si agitarono, rovesciandosi con prepotenza sulla spiaggia.

Constantine arrivò a pregare Dio di aiutarlo... No, Dio, no. Non ricordava granché di che tipo di persona fosse - anzi, non sapeva proprio chi fosse Constantine -, ma nel profondo di sé sentiva di non essere quel tipo di credente. Lui credeva in altroaltro che tentava di esplodere dentro di lui; altro che palpitava come un secondo muscolo involontario. Ricordi che affioravano...

«L'altra dimensione cercherà di farti perdere te stesso» gli aveva detto Horace. «Insinuerà paura dentro di te, ti farà sentire ciò che non sei, appena cercherai di spezzare l'illusione. Il tuo sangue non basterà, En. Avrai bisogno di me, della mia presenza, del nostro Legame. Aggrappati all'istinto e sono sicuro che ce la farai.»

Adesso il suo istinto lo portava ad afferrare la boccetta ritrovata. Si gettò a terra. Lasciò da parte il pugnale, e la stappò, versando il suo contenuto sulle ossa del cranio ritrovato. Agguantò la ciocca di capelli e prese un profondo respiro. Horace. Si concentrò su di lui, sulla sua immagine annebbiata che aveva in testa, sulla sua voce calma, sul tocco freddo delle sue dita affusolate. Le parole vennero da sé: «Horace, mio Guardiano, io ti invoco.» Fece ondeggiare la ciocca di capelli. «Brucia per me» e le punte presero fuoco. «Respira per me» e gettò le ciocche infuocate sul cranio. 
«Vivi per me» concluse, alzando il tono. Osservò i fili di capelli continuare a bruciare senza incenerirsi, mentre un piccolo cerchio, come un dito invisibile che affonda nella rena, si disegnò attorno agli oggetti. Constantine si allontanò, il sangue pulsante nelle orecchie.

La sabbia si addensò attorno al cerchio. Quasi quanto una piccola tromba d'aria in mezzo al deserto, essa si sollevò in una colonna impenetrabile e biancastra, celando ogni cosa al suo interno.

Il ragazzo si mise una mano davanti al volto per riparare gli occhi dai granelli che volavano. Sbatterono contro la sua pelle, si insinuarono nell'ampia camicia di flanella, tra i suoi riccioli biondi. I pantaloni larghi ondeggiarono lungo le sue gambe magre come bandiere.

Il fenomeno durò molto meno di quanto si sarebbe aspettato. La rena cominciò a dissiparsi ed il vento ad acquietarsi. Lì dove prima giacevano i resti di una persona, ora si stagliava una figura alta e sottile. Quando anche gli ultimi granelli si furono dissolti, Constantine poté vedere il suo volto. Era sempre un tuffo al cuore guardarlo. Delle iridi del color del fiordaliso dominavano un viso pallido e ovale. La chioma era liscia e aveva riflessi bluastri. Divisa in due lati, incorniciava perfettamente la sua faccia, arrivando a sfiorare le spalle ampie. Su una guancia si intravedevano delle scaglie argentate; altre, più piccole e distaccate le une dalle altre, erano situate lungo il suo collo.

«En.» Fu la prima cosa che disse. Risuonò in un silenzio surreale. Constantine si accorse che i corvi erano scomparsi, come se non fossero mai esistiti; che il tempo aveva improvvisamente ritirato la sua furia.

Horace si avvicinò a lui. E Constantine si ritrovò a indietreggiare, d'istinto. Il nuovo arrivato si fermò a guardarlo. «En?» ripeté, con un'innocenza tale che parve un bambino ferito.

Ma lui non era un bambino. Per quanto il suo splendido viso scolpito mostrasse bontà, dolcezza, l'aura magica che sprigionava erano spine che penetravano l'anima. Gli artigli di un Drago.

«Scusa» mormorò Constantine. «Mi... mi ero dimenticato... quel che si prova in tua presenza, sai...» deglutì. «Be', in realtà, mi ero dimenticato più o meno tutto

Horace sorrise. E Constantine si ricordò anche di un altro terribile fatto: l'altro tipo di sensazione che provava per lui. Era possibile essere al tempo stesso attratti da qualcuno ed averne paura? Perché in quel momento c'era esattamente questo contrasto dentro di lui.

«Ma ora ricordi» disse Horace.

«Sì.» Mi ricordo le tue mani delicate che mi accarezzano la testa, per infondermi coraggio. Mi ricordo il tuo respiro nell'orecchio, quando ti eri addormentato accanto a me. Mi ricordo il tuo sguardo fiero e da predatore trafiggere i miei nemici, che sono diventati anche i tuoi.

«Bene» pronunciò l'altro. Con una strana malizia negli occhi, arraffò il sacco di juta, e tirò fuori la busta contenente dolciumi. La sua mano emerse insieme ad una pralina di cioccolata bloccata tra le dita. La portò alle labbra.

Constantine sospirò, sentendo la tensione allentarsi. «Avrei dovuto capirlo subito. Cosa diavolo ci fa una busta piena di schifezze in un sacco che si presuppone sia di sopravvivenza? Be', è sicuramente Horace che ci ha messo le mani. O la testa, dovrei dire...»

«O i capelli» soggiunse lui. «O...»

«Sì, okay. Con te, è impossibile usare un po' di ironia.»

Horace afferrò un pezzetto di liquirizia. «Ne ho bisogno» disse, prima di mangiare. «Degli zuccheri, dico. Senza di quelli sai che non posso dare il meglio di me. E tu hai bisogno del mio meglio, ora più che mai.»

Aveva ragione. Constantine era arrivato alla fine del suo viaggio. Aveva attraversato l'Impero Nero e una parte del Regno di Fuoco. Aveva pianto per la perdita di un amico, aveva riso per le figuracce di Horace, aveva combattuto contro le persone sbagliate, e più volte si era ritrovato senza speranza, con il desiderio di tornare in patria e di lasciare libero Horace. Una volta, era stato sul punto di farlo davvero, di dire addio al suo Guardiano e spezzare il loro Legame; quello stesso Legame che aveva il potere di renderlo immortale. Chiunque lo avrebbe giudicato un folle. Rinunciare all'immortalità e liberare uno degli Schiavi più potenti che vi fossero in circolazione. Ma Constantine si era sentito stanco; stanco di ottenere indizi inconsistenti, stanco di illudersi che avrebbe ritrovato sua sorella.

Ma, alla fine, non lo aveva fatto. Aveva riflettuto nuovamente su Lucie, sul suo dolce sorriso e i suoi bellissimi capelli chiari. E aveva meditato a come avrebbe vissuto ora che aveva conosciuto Horace, ora che sentiva battere sul serio il cuore per qualcuno. Si era aggrappato a tutto ciò ed era andato avanti.

Era un pensiero talmente egoistico, il suo. Non voler liberare Horace, perché ne era innamorato.

L'oggetto delle sue riflessioni lo fissò, quasi avesse dato una sbirciata nella sua testa. Mise per terra i dolci, e si chinò ad afferrare il pugnale intarsiato di Constantine. Lo tenne per la lama e gli porse il manico. «Sai che cosa ha detto la strega. Ci sono due strati di illusione. Devi spezzarne un altro.»

Alla fine di tutta quella brutta storia, Constantine giurò che sarebbe partito per la meravigliosa isola dei Caraibi, situata a sud delle Terre Dimenticate, insieme a sua sorella; giurò che avrebbe rivelato i suoi sentimenti ad Horace, prima di liberarlo.

«Ci siamo» affermò Constantine, riprendendo il pugnale. Le sue iridi si riflettevano in quelle del suo Guardiano. Lo sguardo di Horace gli inondò il petto di coraggio. Era questo ciò che gli piaceva di più dell'uomo-drago: lo faceva sentire senza paura, in grado di affrontare il mago, lo stregone o il gigante più temibile.

Constantine più tardi si chiese come potesse essere stato così stupido e cieco. Come non fosse riuscito a vedere che nei suoi occhi non c'era fiducia, ma odio. Soltanto più tardi si sarebbe reso conto che l'amore offusca ogni cosa; che l'invidia, la rabbia, può superare anche il legame di sangue e spezzarlo. Oh, se solo avesse capito in quell'istante del terribile sbaglio che stava commettendo.

Ma allora non ne aveva idea. E il suo cuore grondava ancora di speranza e di amore. Ancora non era stato avvelenato dalle menzogne, dalla paura, dal rimorso.

Constantine riaprì la ferita, sangue secco e vivo sulla sua pelle.

Un'altra goccia rossa cadde per terra.

   
 
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