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Autore: Dexys    26/12/2016    0 recensioni
Cosa sono i Mastri? Non lo sapete? Anche Dex non lo sapeva, anzi, non credeva neanche alla magia, però, come vuole ogni buon fantasy, essa esiste. Sotto diverse forme, certo, però esiste. Cosa succederebbe se Dex venisse catapultata in una realtà nascosta, a cui appartiene ma che non conosce. Una realtà meravigliosa ma che nasconde un'oscura verità. Un essere assai malvagio sta invadendo i due mondi, magico e non. Riuscirà Dex a fermarlo?
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Forza, ce l'hai quasi fatta!" disse il barone delle stelle. L'aria fresca mi faceva venire il mal di testa, ma comunque cercai di non pensarci. Mi porgeva la mano per aiutarmi nella scalata che stavamo compiendo, potevo sentire la sua felicità nel vedermi quasi in cima. Quanto avrei voluto vederlo sempre quel sorriso, immaginarmici più vicino, sempre più vicino. Se avessimo raggiunto la vetta del monte saremmo potuti arrivare fino al cielo, oltre la montagna, per prendere una navetta nuvolosa e riuscire a toccare la via Lattea, la nostra meta. Mancava solo l'ultima falcata, un unico piccolo pezzo di strada che mi separava dal sogno di una vita. Come ci ero finita in quell'assurda situazione neanche io lo sapevo, ma bastava solo guardare gli occhi color smeraldo del Barone per dimenticare le mie preoccupazioni. 

"Ci sono, aiutami!" esclamai felice di aver quasi raggiunto il mio obbiettivo. I piedi erano doloranti per lo sforzo, ma niente poteva sostituire l'entusiasmo che provavo in quel momento. Gli occhi mi lacrimavano a causa della fatica e della povere intanto afferrai la mano inguantata del barone, mentre il sul sorriso emanava felicità e spensieratezza. Non potevo essere da meno, toccare le stelle non era una cosa da tutti i giorni, sognavo da quando ero bambina tutto ciò. Infondo, anche se ero cresciuta il mio animo non lo era, avevo ancora quella spensieratezza che mi caratterizzava. Le stelle per me erano una delle tante mete che volevo raggiungere, una tra le più importanti. 

"Ci sono riuscita, Barone, ce l'ho fatta!" lo abbracciai di slancio, un abbraccio sincero. Uno di quegli abbracci che si danno senza pensarci, perché i pensieri, le preoccupazioni, non sono importanti. In quel momento temetti di poter perdere tutto, senza che io potessi fare niente. A rassicurarmi era l'odore di muschio bianco del Barone.

Però c'era qualcosa di strano: lui non ricambiava l'abbraccio. In compenso se ne stava fermo e immobile mentre io lo scuotevo. Mi stavo preoccupando.

Uno scossone. Ancora niente, i suoi occhi non mi guardavano.

"Barone?"

Due scossoni ed un tuono. Nacque in me la paura, non doveva succedere di nuovo. Non poteva andarsene.

"Barone!"

Silenzio. C'era solo silenzio, neanche il minimo rumore. Era inquietante quel momento, lui che fissava impassibile l'erba su cui eravamo, io che lo guardavo esasperata. 

"Gia..." disse con una voce che sua non era. Forse era femminile, oppure maschile. Anzi, nessuna delle due. Cosa stava succedendo? 

Gli presi il viso tra le mani, gli imposi il mio sguardo. Doveva...non so cosa doveva fare, ma tutto poteva andare bene, purché ritornasse come prima. 

"Cosa andate dicendo? Vi sentite bene?" questa volta lo strattonai più forte, ma niente, lui continua ad avere quello sguardo vuoto che stonava sul suo volto, sempre vivace e felice. Non riuscivo proprio a spiegarmi il perché di quello strano comportamento. Mi stavo spaventando.

Provai a dargli uno schiaffo in viso, ma niente, lui non reagiva. Ormai stavo già piangevo, sapevo che presto sarebbe successo, di nuovo. Lo abbracciai piangendo lacrime amare che mi bagnavano il viso fino al mento. Non era giusto, non poteva accadere di nuovo. Io avevo bisogno di rimanere, non volevo andarmene un'altra volta.

Prima che potessi dire qualcosa, venni afferrata da dietro e mi ritrovai a cadere nel vuoto, mentre il rimanevo piangente e spaventata. Poi ad un certo ci fu più luce.

«Giacinto Denise!» urlò una voce acida ed io non potei fare a meno di scattare in piedi. Un dolore lancinante alla testa mi fece mugugnare, sembrava che qualcuno mi avesse urlato nelle orecchie per molto tempo, troppo. C'era una donna davanti a me che non faceva altro che squadrarmi da capo a piede, come a cercare un qualche motivo a giustificare la mia posizione insolita. La mia bocca formò una O incredula. Di solito nessuno si accorgeva di ciò che facevo quando non intervenivo in classe, e questo mi permetteva di isolarmi nei miei pensieri. La mia era una vita normale, se si può dire. Non ero molto diversa dai miei coetanei, uscivo, avevo degli amici, parlavo con gli altri a volte. Però non mi sentivo a mio agio, forse era normale. Tutti noi adolescenti affrontiamo quella fase in cui ci sentiamo fuori dal mondo, diversi, anche se in realtà non lo siamo. Saremmo sempre una delle sette miliardi di persone che popolano questo mondo. A volte mi sento sola nonostante tutta questa folla. 

Silenzio e pace, ecco cosa mi serviva per vivere, ma questo sembrava che la professoressa non l'avesse capito poiché picchiettava il tacchettino della scarpa sul pavimento, impaziente di una spiegazione. Sembrava che i suoi occhi, per quanto stanchi, fossero irradiati di un fuoco antico, quasi immortale.

«Ecco, io...»cominciai a spiegare, ma subito lei mi interruppe furibonda. Vidi le vene del collo diventare più visibili, i tendini delle mani contrarsi e la sua schiena farsi dritta. Tutto in un secondo, un breve ma spaventoso secondo. Temetti di aver fatto esplodere una bomba, peggio di quelle nucleari, oh no, loro sono molto meno potenti.

«"Ecco, io" un corno signorina! Vedi di ritrovare la retta via che quest'anno ci saranno gli esami di terza media. Pretendo il meglio da te, Denise» disse calcando sulla parola esami. Io rimasi sbigottita da ciò che aveva detto. Dopo tre anni che ci aveva massacrati di compiti, di note e di insulti, lei si permetteva di pretendere da noi il massimo nella sua materia? Quella donna era tutta pazza. Nel cuor mio speravo di star sbagliando, che quella non fosse la sua reale natura, forse anche se poteva essere una donna maligna e racchia, se si guardava bene, sotto quella corazza fatta di freddezza e acidità si poteva scorgere un animo materno difficile da perdere. Non so perché, ma pensai alla sua infanzia, a cosa la portò scegliere il lavoro che fa tuttora, insegnare disegno non è facile. Non è solo far imparare a disegnare due linee, secondo me si imparava anche ad esprimere le proprie emozioni, un po' come la musica, solo che si faceva in un modo diverso...non so come spiegarlo. Poi in musica, non è che io potessi avere voce in capitolo.

«Sì, professoressa Serafini» dissi a capo chino. Mi pentii di tutto ciò che le avevo fatto passare, mi ero resa soltanto una persona orribile in quel modo, con quel comportamento.

La vidi girarsi e tornare alla cattedra mentre i miei compagni mi guardavano trattenendo le risate, perfino Eleonora stava cercando di controllarsi, anche se non bene. Desiderai che una crepa nel pavimento mi inghiottisse, però non potei fare a meno di ghignare anch'io per la mia figuraccia, non era la prima volta che mi addormentavo in classe. Forse neanche l'ultima, questo era certo.

«Ahh, Denisuccia! Che cosa dobbiamo fare con te? Dormi a casa, dormi a scuola, tra poco dormi mentre mangi!» sospirò divertita Ele, si vedeva che non era stupita del mio comportamento "indisciplinato". 

«Tranquilla mia piccola amica, quello lo faccio già!» e insieme scoppiammo in una piccola risata, sempre stando attente a non farci sentire dal resto della classe. Non volevamo un altro richiamo, ce ne bastava già uno! Ma non potei fare a meno di lanciare un'occhiata alla prof, la quale vedendomi fece un piccolo sorriso.

Suonò la campanella dell'intervallo, io e Eleonora uscimmo in fretta e furia cercando una persona precisa. Superammo molti gruppetti composti da ragazzi e da ragazze, quasi tutti vestiti nello stesso modo. Loro lo definivano moda, bah! 

Appena lo trovammo bastò uno sguardo d'intesa per agire. Io e la mia amica camminammo lentamente verso due professori, uno dei quali, il più giovane, stava parlando gesticolando, come a rendere più animato ciò che stava raccontando. Eravamo vicinissime, talmente vicine che mancavano meno di una manciata di passi a separarci. Gli alunni delle altre classi ci passavano vicini indifferenti mentre i pochi minuti della ricreazione passavano, ignari della nostra presenza non giustificata. O almeno non giustificata secondo le loro piccole menti chiuse e ottuse, totalmente prive di una qualsiasi elasticità mentale.

«Mi scusi, non è che l'aula di musica sia libera?» domandai divertita a Jacopo, il nostro professore di musica. Dovevo fare una cosa molto importante, molto importante. Talmente importante da rendermi impaziente.

«Oh, l'aula di musica! È per quelle ripetizioni, vero? Mi scusi Paolo, ma mi sono ricordato solo adesso di questo impegno. Che ne dice se rimandiamo il caffè a dopo?» esclamò in fretta il ragazzo. L'altro non poté fare a meno che annuire incuriosito. Ele lanciò un piccolo grido di trionfo, ed io, imbarazzata, le tirai una gomitata. Lei non gradì la cosa e mi guardò male, fortuna volle che Jacopo, percependo l'astio che c'era nell'aria, si congedò in fretta. Per nostra felicità. 

«Bene, a più tardi allora!» disse mentre io e la mia carissima amica lo incitavamo verso le scale.

Salimmo al piano superiore e ci dirigemmo nell'aula di musica, verso la mia sfida quotidiana. Per poco non scivolai sul bagnato, colpa del pavimento recentemente lavato. Vidi alcuni professori che passavano e ghignavano della mia quasi caduta, mentre io mi trattenevo dal lanciare una parola poco consona all'ambiente. Appena raggiunta la stanza feci un profondo respiro. Mi stavo preparando. 

La stanza era di un colore celeste spento, segno dell'età dell'istituto, le finestre si affacciavano sulle altre classi e si potevano intravedere gli altri alunni fare lezione. Si poteva osservare il giardino grazie alle finestre rivolte a sud, con gli aghi caduti dal secolare abete che, imponente, era il centro di tutto quel miscuglio di grigio e marrone. Le temperature si erano abbassate e la notizia di una promettente gelata aveva lasciato desiderosi gli alunni di vedere il bianco cadere sulle loro teste. Erano passati diversi anni da un evento del genere.

Sfiorai le dita sui tasti mentre Jacopo si toglieva la giacca e Eleonora si sedeva impaziente sulla sedia, una delle tante rotte e scarabocchiate, piene di disegni e scritte. Il suo aveva come caratteristica la frase "Nn t scrdr mai d t. Ali.", classico esempio della conoscenza della grammatica tra i miei compagni. Per il resto era tutto una macchia nera, forse qualcuno aveva deciso di colorarlo con un pennarello indelebile, oppure serviva a coprire un qualcosa, purtroppo era difficile da sapere.

Mi sedetti alla sedia vicino, accavallando le gambe con fare consapevole. 

«Allora, Denise, a che punto siamo? Hai ottenuto qualche progresso?» chiese Jacopo strofinandosi le mani. Avevano le dita lunghe, tipiche di chi suona il pianoforte. 

Feci cenno di no, e allora lui sospirò. Fu sospiro rassegnato.

«Non ci riesco, c'è qualcosa che mi blocca. Tu che dici?» chiesi alla mia amica che si era rattristata.

Mosse la testa in segno di rassegnazione e poi si stiracchiò sulla sedia. Così facendo fece scricchiolare la sedia e per un momento temetti che cadesse. Non successe per fortuna.

«Non credo che sia dovuto allo stress, in questi giorni sei molto rilassata. Forse anche troppo» ghignò riferendosi alla figuraccia di prima. Sbuffai indispettita, lei e la sua maledetta lingua biforcuta. Però aveva ragione, lo stress non centrava niente. Allora perché non riuscivo a suonare il pianoforte? Ero io forse? Erano passati anni da quando lo suonai l'ultima volta, certo, ma non credevo che fosse quello la causa di questo problema.

Picchiai le mani sulle gambe, frustrata dalla situazione, era normale, no? Piangere non sarebbe servito a niente, i bambini piangono. Ed io non ero una bambina.

«Senti, finché non ti lasci andare non concluderai mai nulla. Non conosci qualche brano che ti piace?» alzò un po' la voce. Quel suo cambio repentino di tono mi fece temere di essere io la causa. Ero una fallita, questo ormai era ovvio a tutti, ma il fatto di non riuscire neppure a suonare le più semplici delle melodie mandò la mia autostima a farsi benedire. Mi sentivo uno schifo, ero uno schifo.

«Jacopo, ormai non so più a cosa pensare. Le ho provate tutte! Non riuscirò mai a riprendere a suonare!» dissi sull'orlo delle lacrime. Non dovevo piangere, lo avevo promesso. Mantenere le promesse è più importante di uno stupido strumento. E se anche ci fosse stato un modo, io non sarei stata in grado di trovarlo. Ormai ero al capolinea.

«Dai, sarà pure qualcosa, qualche motivetto facile che conosci!» disse annoiato come si fa con una bambina capricciosa. Una stupida bambina capricciosa.
Mossi la testa facendole capire che con c'era niente che potevo fare.
Poi però mi passò un'idea nella mente e una lampadina immaginaria si accese sopra la mia testa.

«E se» sussurrai avvicinandomi allo sgabello del piano. I ricordi si fecero più vividi e nella mia mente rivissi quel momento magico. Le mani si muovevano da sole, producevano una melodia semplice e dolce, una ninna nanna

«Denise! Stai suonando!» urlò Eleonora alzandosi di scatto. La sedia cadde definitivamente a terra e per poco non mi distrassi a causa del rumore che fece. Si vedeva tutta la felicità che provava Sofia in quel momento. Jacopo invece sorrise soddisfatto, orgoglioso. 

Le dita erano come fumo, si muovevano in fretta e attraversavano i ricordi. La sua voce, il suo profumo, tutto mi ricordava lui. Nella mia mente vi erano ricordi sfocati, parole dimenticate ormai da chissà quanto tempo. Sentivo il bisogno di riaverle nel mio cuore, di sapere a chi appartenevano. Desiderai con tutta me stessa di risentirle come la prima volta che furono dette. Un groppo blocco la mia gola. Il mio papà.

La canzone non si protrasse per molto tempo, però sembrava che mancasse qualcosa, come se fosse incompleta. Mi guardai le mani, non erano delicate, non erano forti. Bianche come la neve candida avevano dimostrato di avere una nascosta energia.

«Che ti avevo detto?» rise gioioso il mio professore. Ele mi corse incontro e mi abbracciò goffamente, poiché era più bassa di me. Non riuscivo a capire da dove venisse tutto ciò, sembrava che quella canzone fosse parte di me, che fossi io ad essere parte di lei. Una cosa era certa, quello fu il giorno più felice della mia vita.

 

Camminavamo per le vie di Milano, verso casa. La maledetta non faceva altro che raccontare ciò che era successo ad Andrea, il nostro povero amico. Povero perché doveva sorbirsi le nostre storie, amico perché, beh, ha avuto la sfortuna di incontrare noi due ed essere stato così incosciente da fare amicizia.

«...e poi lei comincia a suonare e viene fuori questa meraviglia, ma che dico?! Questo capolavoro!» e alzò le mani al cielo, mentre i passanti ci guardavano sorridendo per la nostra esuberanza. 

«Zitta! Non voglio che tutti sappiano che invece di fare Storia sono andata a suonare quello stupido strumento!» le dissi tappandole la bocca con la mano. Era mai possibile che da timida che era, fosse diventata così loquace? E così selvaggia, visto che mi stava mordendo il palmo per liberarsi dalla mia presa. 

Lanciai un sonoro "Ahi" e guardi storto la mia "piccola amica", anche se tanto piccola non mi sembrava.

L'aria era gelata, ad ogni respiro si formava una nuvoletta di fumo che mi incantava. Le vetrine dei negozi erano addobbate in stile natalizio, luci e ghirlande erano protagonisti. Famiglie riunite passeggiavano allegramente in mezzo a quell'atmosfera di pace che regnava tra le stradine meno affollate. Vidi una bambina dai capelli dorati ridere allegramente quando il padre la prese sulle spalle facendo agitare la sua chioma boccolosa. Sorrisi nascosta dalla mia sciarpa.

«Sentite un po', che ne dite di fare un giro dopo mangiato? Ho sentito dire che hanno aperto un nuovo negozio che vende roba usata» cercò di cambiare argomento Andrea, riuscendoci in pieno. Amavo i negozi dell'usato, vedere cose con una loro storia, già vissute, veterane se si può dire.

Annuii eccitata e corsi verso casa lasciando i miei due amici ridere per la mia reazione. Svoltai a destra della piazza dove si trovava Marco, un vecchietto ormai solo che si sedeva sempre su quella panchina, aspettando la sua Luisa, che non sarebbe mai arrivata.

«Hey! Ancora niente?» gli chiesi salutandolo. Lui in risposta mi lanciò un sorriso assai triste e consapevole. Anche lui sapeva che non sarebbe mai arrivata, ormai erano anni che lei ci aveva abbandonata. Quella panchina era il luogo in cui si erano conosciuti e il luogo in cui si erano visti l'ultima volta. Da allora Marco non fu più lo stesso. Strano come le persone possano lasciare un segno così indelebile nella vita di altre per poi portarsi via un pezzo di noi con la loro scomparsa. Un pezzo della nostra anima finito dove finiscono tutte le nostre speranze, i nostri sogni e le nostre paure. 
«Ci vediamo, tu non perdere la speranza» annuì e torno a guardare fisso davanti a sé. Feci un sorriso malinconico e proseguii per la mia strada.

Arrivata a casa entrai di corsa gettando la cartella sul divano e urlai per avvisare la mia presenza alla mamma. Fuori faceva molto freddo, infondo era Dicembre, e per riscaldarmi dovetti strofinarmi le mani, poi mi ricordai che ormai ero a casa e allora mi diedi della stupida.
Appena vidi sbucare una testolina tutta sporca di tempere non potei fare a meno di ghignare. Ciuffi ribelli color carbone le ricadevano sul viso incorniciato da sottili rughe. A quanto pare mia madre stava cercando un hobby con cui rilassarsi, e questa volta si era data alla pittura. Forse meglio quella, mi ricordo ancora quando aveva provato a diventare una perfetta cuoca. Quattro parole: cucina andata a fuoco. Il solo che riusciva a cucinare erano degli spaghetti alla carbonara e un po' di purè, per il resto ci pensava il fattorino delle pizze e il ristorante cinese a sfamarci. Quando c'era papà era lui a cucinare. 
Mi avvicinai a lei così da poter vedere il suo lavoro, anche se sembrava ci fosse più pittura sulla sua faccia che sulla tela. Del viola tra i capelli, un po' di giallo sulle guance, insomma, era un quadro vivente. Ad ogni modo del dipinto riuscii a riconoscere una figura alta e longilinea, una massa castana e con alcune pennellate turchesi in cima e due puntini marroni poco vicino. Non sapevo proprio cosa fosse?

«Allora?» chiese lei.

«Ehm...» esitai io.

«Sei tu!» disse felice del suo capolavoro. Feci una finta risata, ma infondo come dovevo reagire? Quella ero io? Feci per guardarmi allo specchio. Ora capivo, la massa informe erano i miei capelli e i due puntini marroni erano i miei occhi. Non era granché, ma la feci passare per buona, disegnava certo meglio di alcuni miei compagni egocentrici. Adesso sembrava tutto più chiaro, o quasi. Vicino a quella me dipinta c'era una macchia marroncino chiaro, piccola e poco definita. 

«Cos'è quello?» e indicai la macchiolina. Infondo a destra del quadro vi era una specie di macchia con una forma indefinita, di un colore assai strano, come se fosse stato mischiato consapevolmente con altri colori, quindi non era un errore non voluto fatto col pennello. Proprio non riuscivo a capire il suo significato, anche se una strana sensazione mi accarezzò la schiena facendomi venire i brividi.

«Eh? Ah boh, prima non c'era.» si alzò facendo spallucce. Cercai di non pensarci, anche perché avevo un certo languorino. Ora che ci pensavo bisognava mangiare, ma cercando con lo sguardo una qualche fonte di cibo non la trovai. Lanciai uno sguardo interrogativo a mia madre. Ricambiò lo sguardo, ed io allora picchiettai sullo stomaco, come a farle segno del mio essere affamato, molto affamato. Pregai avesse recepito il messaggio.
«Ahhhh! Potevi dirlo prima, invece di giocare al mimo?» fece sbattere la mano sulla fronte e si alzò dalla sedia. Scomparve dietro la porta della cucina e io sospirai, non sarebbe mai cambiata.
Passò poco tempo quando sentii odore di bruciato. Ebbi paura di ciò che aveva combinato.

«Ehm, tesoro, potresti aiutarmi un attimo? C'è un piccolo problemino» fece una risatina isterica. Sconfortata mi diressi verso la cucina mentre l'odore di fumo mi stuzzicava le narici.
Non potei fare a meno di lanciare un ultimo sguardo al dipinto, cercando quella macchiolina chiara.

Ma sembrava sparita.

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Author's corner

Salve a tutti e ben riletti! So che non sono stata molto attiva su EFP, avevo bisogno di un periodo di pausa. In questi mesi sono cambiate molte cose, ho iniziato il liceo artistico, sto man a mano forgiando il mio carattere, la mia personalità, il mio stile. Mi sto sempre rendendo più conto di chi sono, chi ero e chi sarò. Sto riprendendo in mano le redini della mia appena iniziata adolescenza, un pò turbolenta ma anche così improvvisa e nuova. Mia.

Ho deciso di ricominciare a scrivere questa storia, ce la farò.

Ora non posso dilungarmi troppo ma ho il dovere di dirvi che la sto man a mano continuando, modificando e revisionando.

Ne parleremo nel prossimo capitolo cari amici.

Commentate se volete! Voglio un vostro parere su questo capitolo che ho attentamente revisionato e modificato!

See yah!

Dexys

 
   
 
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