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Autore: TimesNewMozzi    28/12/2016    0 recensioni
"[...]vorrei solo che germogliassero, quei semi, che nuove bottiglie nascessero dai resti delle vecchie, e che il campo ne risplenda. Bottiglie per me, bottiglie per chi si accampava qui per pomeriggi e sere e litigava e spintonava e urlava e rincorreva la palla in ogni direzione, strisciando verso terra, correndo a destra e a sinistra, scalando il nulla verso l’alto. "
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il campo.

Sono corso fuori dalla porta di casa a tutta velocità, cercavo di scaldarmi mentre la nebbia di dicembre si faceva strada fino alle mie ossa.
No ho mollato la palla finché non sono arrivato al campo. I canestri dallo scheletro blu mi salutarono immobili, potevo sentire i ferri fremere come se la vista della mia palla fosse quella di un amica rivista dopo troppo tempo.
Avevo continuato a vederlo anche se non ero più tornato a giocare, il campo, l’avevo visto da lontano e da vicino, avevo rilanciato palle da calcio a chi si divertiva a tirare contro i tabelloni e ogni tanto ne lanciava una un po’ troppo curva. Forse non avrei dovuto.
Da lontano certe cose non si vedono, per vederle c’è bisogno di essere lì, la palla da basket che rimbalza e gli occhi fissi sulle linee del campo, lo sguardo che le segue e la rabbia che sale ad ogni scheggia di vetro, ogni coccio di bottiglia e guscio di noce lasciati tra le linee.
Ci sono momenti in cui ti senti bollire, come se nelle vene gorgogliasse qualcosa che invita ogni muscolo a contrarsi.
La nebbia isolava il campo dal resto del mondo, oltre la rete verde squarciata da un leone, o da una banda di ragazzini, c’erano solo le ombre di qualche alto e magro albero. Non la vedevo ma la sentivo, la strada poco distante mi faceva compagnia suonando overture di scarichi e motori.
Avevo giocato nella pioggia e sapevo come fosse sentire la balla bagnata tra le mani, le scarpe scivolare anche su quel ruvido che ha reclamato decine e decine di ginocchia. La pioggia era di aprile.
Le pozzanghere e la nebbia e il ghiaccio di dicembre non perdonavano così tanto, e l’acqua non si scaldava, quella sulla palla forse, ma ogni tiro mancato, e molti lo erano, rimbalzava in una pozzanghera diversa.
Il gelo alle mani era quasi confortevole. Mi faceva venire in mente un paio di calzini bianchi che avevo distrutto giocando senza scarpe, con la pioggia che alleviava il caldo, anche quella volta da solo. Era raro che non ci fosse nessuno al campo, era perché non lo è più, ma ad aver mollato non sono state entrambe le parti, una è rimasta in piedi. Non che avesse altra scelta.
Ero sceso per buttarmi completamente tra le righe, per sporcare i canestri del fango che si era accumulato ai loro piedi,  anche per farmi del male, ma nel modo giusto, quello fisico che stira i muscoli e azzanna gli arti ma schiarisce la testa e alleggerisce le spalle. Deve essere merito dei nostri antenati, delle corse interminabili nella savana: non c’era tempo per pensare alla tribù e ai problemi di una sempre più ricca vita sociale, non c’era tempo per essere nient’altro che scimmie particolarmente equipaggiate per la corsa; la gazzella all’orizzonte non aspettava i pensieri e scattava via, inseguirla significava battere anche la propria testa, tenersi a distanza fino al momento giusto per dare un senso a tutta quella fatica.
La palla rimbalzava da una pozzanghera all’altra senza badarci troppo. Ad ogni contatto uno schiaffo al silenzio risuonava tra la nebbia fitta.
Se avevo freddo il rimedio era semplice: avanti e indietro per il campo, un tiro da una parte, rimbalzo, un tiro dall’altra. Cinque volte? Dieci volte.
Non correvo da mesi, al più avevo fatto cento metri per prendere al volo un treno, così i polmoni richiamavano tutta l’attenzione e il freddo spariva per un po’.
Avevo le palme delle mai completamente vestite di nero, solo i polpastrelli si schiarivano lavati dall’acqua che rimaneva sulla palla, e mi sentì un po’ orgoglioso. Mi ricordavo ancora come palleggiare, non col braccio, ma col polso e toccando con la punta delle dita. Era già qualcosa, bilanciava le decine e decine di tiri che sfioravano appena il ferro, come due amanti in un film strappalacrime, separati dal destino o da un movimento di gambe troppo fiacco. Non avevo mai scolpito quel movimento nella testa, la frusta parte dal basso, non sono i bicipiti a tirare, ma le gambe che raccolgono la forza come delle molle.
Io improvvisavo e improvviso, ogni tanto funziona, ogni tanto le caviglie restano a terra come sacchi di cemento lasciati in mezzo al cantiere.
Provo un palleggio dietro le spalle, l’ultima volta dovevo essere ancora a scuola in una lezione di ginnastica, la palla sfugge via senza che riesca a riprenderla con la sinistra.
La lascio rotolare in un angolo del campo in cui la rete è ancora intatta e un palo di ferro la blocca.
Ho avuto la buona idea di portare una bottiglia d’acqua, non che debba proteggermi dal caldo o bagnarmi la testa, ma un sorso d’acqua mi aiuta a non badare alla stanchezza. I muscoli si ribellano sì, sono più duri e legnosi di quanto mi ricordassi; uno si aspetta sempre che la propria tecnica rimanga intatta, anche con qualche kilo di pancetta in più e molto tempo di distanza dall’ultimo allenamento, la fluidità nei movimenti sembra sempre un segreto della mente e  non del corpo. Se il corpo non collabora però, immaginarsi nel mezzo di una virata in velocità non fermerà la palla dal colpire la punta di un piede e schizzare via.
Guardo in basso accorgendomi di quanto mi sia sporcato, ogni manica alzata, ogni schizzo,  le mani nere coi polpastrelli rosa, ma lo sporco, quello vero, quello marcio e distruttivo è a terra.
È lo sporco della noia, del desiderio di essere importanti o di sentirsi tali.
Cenere.
Non so chi abbia incendiato una delle panchine vicine al campo, non so chi l’abbia fatta a pezzi e l’abbia guardata consumarsi e spargersi sul campo in scaglie nere e grigie. Non so neanche come abbia fatto l’altra panchina a essere sradicata e lanciata in mezzo all’erba, a metri di distanza.
Le cose non cambiano; ce ne convinciamo ogni volta, eppure non è quasi mai vero. I posti della nostra infanzia invecchiano mentre noi cresciamo, hanno una vita più corta delle persone, a volte basta qualche minuto, una nuvola che copra il Sole e cambi la luce per far invecchiare una piazza, una città, un campetto.
Di nuvole negli ultimi anni ne sono passate tante. Posso immaginarle tutte quelle microscopiche goccioline d’acqua passarsi raggi di luce come bambini che giocano a palla, le vedo agitate dal soffio della Terra così in alto che da qui, da dove le radici degli alberi scompaiono nei tronchi e nella terra, sembra impossibile che gli aerei possano volare così lontano dal posto naturale di noi uomini.
Recupero la palla e torno a tirare. Della gente passa e non s’interessa, altri mi guardano per poco forse domandandosi perché sia qui a infangarmi, scaldarmi le mani con l’alito e correre avanti e indietro per un campo rosso seminato a schegge verdi smeraldo. Mi accorgo che vorrei solo che germogliassero, quei semi, che nuove bottiglie nascessero dai resti delle vecchie, e che il campo ne risplenda. Bottiglie per me, bottiglie per chi si accampava qui per pomeriggi e sere e litigava e spintonava e urlava e rincorreva la palla in ogni direzione, strisciando verso terra, correndo a destra e a sinistra, scalando il nulla verso l’alto.
Potrebbe essere solo nostalgia, potrebbe mancarmi una squadra, so solo che anche così, nel nulla bianco, senza scopo né obiettivo, rimbalzarla, sentirla vibrare mi libera di tutto. Non c’è un peso da scaricare, non brucia via spine, è solo un progressivo sparire, sentirsi più invisibili e confondersi col resto, esistere perché quella sfera arancione ha rimbalzato sul tabellone, il gong ha suonato, e qualcuno deve raccoglierla, e poi restituirla al canestro e farlo finché quella retina malandata non schioccherà.
E poi respirare, solo allora respirare.
Intanto, mi sono tagliato con qualche scheggia rimasta sulla palla. Mi fermo per lavarmi via il sangue e lo sporco dalle mani, un rapido conto per rassicurarmi che non morirò di tetano, grazie ai miracoli della medicina moderna, e poi butto il resto dell’acqua sul campo, lavo anche quello restituendogli il sudore che si meriterebbe, ma che questo inverno fa scarseggiare.
Raccolgo le mie cose; sarà passata un’ora  e mezza da quando sono sceso e ho corso nel fango. Sono sprofondato in ricordi di più ore di quante possa ricordare, per mia incapacità e per la strana mania che ha il tempo di scorrere di corsa quando ci guardiamo indietro.
Quando sparivano le retine era tutto a posto;  una volta un tipo si è aggrappato al canestro dopo aver schiacciato, sfasciandolo, ma andava tutto bene. Ora del campo restano le linee, solo lo scheletro.
Ma questo basta.
Con la destra raccolgo la palla a un passo dalla linea da tre punti, verso il canestro. Mi muovo partendo dalle ginocchia piegate e rilascio con la migliore frusta che una mano ancora sanguinante e infreddolita possa concedere.
SDENG.
Ferro netto.
Non è cambiato nulla.

 
  
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