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Autore: Andrew Foulieur    29/12/2016    0 recensioni
La storia parla di un ragazzo che si ritrova essere un eroe e da ciò gli viene assegnata una missione, ma non può morire fino a che non riuscirà a terminarla. Sarà in grado di raggiungere il suo obiettivo?
Genere: Azione, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 1

 

La Scelta

 

Ero seduto per terra. Il fuoco ardeva fragorosamente fuori la tenda e i corpi dei miei probabili genitori giacevano qui dentro. Non ero intenzionato a credere a una specie d’apparizione mistica utile solo per complicarmi la vita, ma utile almeno nel spiegarmi la mia incredibile fortuna con la morte. Li vedevo lì, stesi al suolo. Nessuna parola, nessun falso movimento. Solo il sangue colato per terra. E gli occhi rivolti verso la porta. Come se attendessero di dirmi qualcosa, ma non la potrò mai più sapere: loro non c’erano più, con me.

Invece mi sbagliavo. E pure di grosso, perché seppi cosa vollero dirmi, ma il messaggio si riferiva a un qualcosa di cui ero già sicuro.

Sarebbe stato meglio confermare.

Mi domandavo come avrei dovuto verificare chi li avesse uccisi. Non avevo alcun sospetto, anche se il cacciatore di prima avrebbe potuto benissimo passare per di qui, lo esclusi proprio perché non incontrai altre persone nel circondario e quindi non avevo nessuno da controllare.

Per quanto riguarda il moncherino, della mano destra, lo fissai per qualche secondo e notai che la mano si stava rigenerando da sola. Come sempre e come ogni ferita infertami per cercare di capire il perché fossi sempre così fortunato. Era già da un pò che riflettevo sul perché riuscissi a poter fare che ad altri miei simili non avrebbero potuto fare: combattere con orsi a mani nude, resistere nei laghi ghiacciati per quanto tempo avessi voluto o anche semplicemente, per così dire, lo scottarsi con una torcia e sentire solo un breve e intenso odore di carne bruciata. La mia. Come in quel minuto, in cui rimasi a contemplare il simbolo della mia possibile rinascita: una mano monca, che si stava rigenerando, ma che c’avrebbe messo del tempo. Ma in quel momento, stava per calare la notte e avrei dovuto anche provvedere per le esequie dei miei genitori e non avrei avuto molto tempo prima che i lupi venissero a reclamare la loro carne.

Mi preparai.

Mi tolsi la maglia, rimanendo a torso nudo. Rimasi, dunque, con il pantalone e a piedi scalzi. La mia rabbia non s’era minimamente affievolita. E con tutto il corpo in tensione, mi recai nella rimessa per prendere qualcosa per spalare la terra e già decisi che il posto ove li avrei seppelliti sarebbe stato dietro la tenda: in fondo, l’avevano costruita da giovani per ripararsi dalle intemperie. Così mi raccontò mio padre, ma aggiunse che erano stati cacciati dalla loro patria originaria perché l’uomo bianco bramava l’isola che non c’era. Proprio queste parole usò: l’isola che non c’era. Non avrei potuto fare altrimenti, che dargli una degna sepoltura.

Per rendergli l’onore che non avrei mai avuto io: avrei dovuto difenderli.

Loro per me c’erano sempre stati, sopratutto nelle difficoltà.

Io no.

Uscì dall’ingresso della tenda, determinato nel voler esprimere per loro le loro ultime volontà, ma la strana sensazione che la mia giornata non sarebbe dovuta ancora finire con un solo addio fece capolino nel mio cervello. Come un tarlo di pura e folle paranoia, mentre calava lentamente la notte e l’aria fredda era già pronta per avvolgermi con il suo abbraccio, ma presi la via della rimessa e vi entrai dopo circa un minuto. Dopotutto, era vicino. Non pensavo ad altro. Feci soltanto la cernita degli artrezzi. E presi la maledetta vanga e uscii, nel mentre la imbracciai, sentii dei strani rumori. In lontananza. Non me ne importai.

Presi a scavare.

Diedi il primo colpo di vanga – riuscii a crearla con un bastone, una pietra pomice e anche qualche corda – al terreno innevato. Aveva nevicato la sera prima. Ma presi la decisione di continuare a scavare, a qualsiasi costo.

Continuai a scavare.

Diedi una decina di colpi, arrivando al metro di profondità e larga poco più della larghezza della stessa vanga. Pensavo soltanto a dargli una degna sepoltura. La colpa era la mia e io ero il solo e unico a dover pagare questa colpa. Il nervoso e il rimorso s’erano presi gioco del mio cuore. Strinsi il legno della vanga con tutte le mie forze, per gli ovvi motivi, del tipo che la fossa non si sarebbe mai scavata da sola se mai l’avessi lasciata perdere.

Sudore, rabbia e anche il rimorso caratterizzarono tutto il calvario per scavare una fossa larga soli due metri e profonda soli tre metri. Avrei dovuto impedirlo, ma non ero abbastanza forte da riuscirci e in quel momento, ne volli soltanto pagare ogni responsabilità e vendicarli. Il punto era che non avevo la più pallida idea di chi li avesse uccisi. Anche se m’avesse reciso tutti e quattro gli arti, non mi sarei arreso e avrei continuato a combatterlo, quel bastardo: non aveva senso prendersela con persone che non si sarebbero potute difendere.

Mi ritrovavo tra le mani, ormai rigenerate, anche se non ci feci subito caso, perché ero troppo concentrato nel flaggellarmi addosso, il sudore mesto al mio sangue e a quello dei miei genitori adottivi e l’unica cosa che avevo in mente era quella di terminare questo mio strazio.

Il momento era giunto.

 

Avevo finito.

La fossa, intendo.

Infatti avevo già gettato la vanga per terra. Nonostante fossi già in un bagno di sudore e la neve non cadesse più.

Li misi lì dentro, distesi l’uno difianco all’altro, avvolti dalle coperte e mano nella mano. Uniti anche nella morte. E l’avevo causato io questo. Facendo in modo che l’unica cosa che avrei potuto fare era soltanto ricoprire la fossa. Piansi, poche altre lacrime. Tutto il mio corpo era già abbastanza contratto per tutto quello che avevo già provato e non avevo intenzione di rinunciare a vivere per colpa di un singolo bastardo. Mi recai dentro casa e presi una lanterna a olio. Volevo ricostruire una piccola veglia per le loro anime, anche se non fosse stato nulla di così speciale. M’inginocchiai, poggiando il lume sulla terra senza un minimo di neve e anche abbastanza smossa. Poggiai entrambi sulle ginocchia e chiusi gli occhi.

Il buio.

Cercai soltanto d’accompagnarli verso l’aldilà, di cercare d’essergli vicino e anche se non avevo la più pallida idea di cosa avrebbero trovato una volta arrivati lì, il solo poterli aiutare mi stava gratificando e non poco.

 

«Kapoooow!» – Sentii il rumore di fucile. Proveniente a circa qualche chilometro da me.


Aprii gli occhi.

Niente di strano, all’apparenza, ma nella notte quasi fonda, vidi delle torce avvicinarsi direttamente alla casa. Attesi, e nel mentre ne contai quattro, per cui calcolai che sarebbero potuti essere massimo sedici persone, ma non ne vidi altri. Ogni tanto sentivo delle urla e sopratutto trentadue, poi sempre due in meno, rumori di passi.

Altro non sentivo.

Allora mi concentrai, imprimendo energia psicofisica nei miei sensi, per cercare d’evitare ulteriori guai. Il mio cervello stava pian piano immaginando di potersi estendere sempre di più, fino ad una pur certa esplosione, ma che non avvenne, perché il suono dei trentadue passi, trasportato dal freddo vento, era accompagnato da altri due. Molto meno percettibili. Molto più veloci. Non supersonici, ma abbastanza celeri da essere impercettibili ad un orecchio non molto attento e sviluppato come il mio. Passi su passi si susseguivano. Capitava che ogni tanto qualche coppia di passi andava a scemarsi nel vuoto, ma gli spari dei fucili erano sempre più frequenti e sempre nel nulla. Il loro bersaglio era troppo veloce e sicuro di se per farsi prendere, pensai. Anche se, ogni tanto, sentivo un rumore che sembrava fendere il vento stesso.

Trentadue. Trenta. Ventotto. Ventisei. Ventiquattro. Ventidue. Venti. Venti passi, tutti preceduti da un vuoto d’aria. Causato da uno squarcio. Non ero sicuro su cosa li provocasse, ma nel riflettere pensai che dovesse essere qualche tipo d’oggetto tagliente: una delle prime ipotesi a cui pensai è che fosse una spada. Alla fine, è un’arma, è veloce e trasportabile: perfetta per evitare gli inseguimenti. Infatti gli sarebbe bastato un solo fendente per eliminare gli inseguitori di poco conto: soli cinque uomini erano già morti… con soli cinque fendenti.

In poche parole.

Il vento, nel preciso momento in cui il misterioso maestro d’arme scagliò il sesto fendente e altre due fonti di rumori di passi vennero misteriosamente rimosse, decise di divenire loquace: mi rivelò, dal tipo di fendente, che il maestro d’arme usava un tipo di lama di cui non avevo ancora mai avuto conoscenza. Una katana. Affilata come poche altre armi viste in quel momento, ma il problema era che ogni fendente di cui era partecipe era sempre più forte. Ogni suo sibilo era sempre più forte e in forte avvicinamento verso di me, dunque.

 

«Kapoooow!» – Sentii di nuovo lo stesso rumore dello stesso e maledetto fucile. Distante meno di due chilometri da me.

 

Questa volta, però il proiettile s’andò giusto a conficcarsi nella parete della casa, a qualche metro dal mio volto: ovviamente, capii che non era destinato a me e che era solo un proietile vagante. Cercai di capire da dove diavolo provenisse, e concentrandomi, compresi che a sparare era stato uno di quelli che stava dando la caccia al misterioso maestro d’arme.

Non conoscevo minimamente il motivo delle loro dispute, ma ascoltando ancora il vento, capii che il misterioso maestro d’arme stava procedendo verso di me. Incalzante e con una velocità assurda, tale da non essere percepito da occhio inesperto. E io non lo sarei stato più. Inesperto, tanto che qualcosa dentro di me mi stava dicendo che il maestro d’arme stava cercando proprio me: tipo una strana sensazione. Anche se non ci sarebbe stato motivo alcuno d’inoltrarsi in questo luogo dimenticato da tutti solo per un’effimera scampagnata. I passi dei vari inseguitori erano sempre più incessanti e sempre più diretti verso di me. E ormai erano giunti a meno di un chilometro da me, seguiti dai loro colpi di fucile. Di cui nessuno mi colpii: tutti a conficcarsi a pochi centimentri dal mio corpo.

La cosa che più mi sorprese fu che dal mio incontro con La Morte, divenni una specie di superuomo molto comune e di cui non conoscevo l’identita. Molto più forte di quanto potessi immaginare e per questo decisi d’intervenire in quella disputa di cui molto presto sarei diventato io il motivo della loro contesa. M’alzai abbastanza velocemente, facendo attenzione a rendere fluidi tutti i miei movimenti, e a scattare verso i fucili di coloro che avevano cercato di spararmi. Non ci sarebbero riusciti di nuovo, o almeno promisi a me stesso che non ci sarebbero riusciti e essendo loro a meno di un chilometro da me, decisi solamente di raggiungerli.

Scattai, con passo rapido, mentre poi decisi di correre più veloce che potessi al momento, circa a dieci chilometri all’ora, per cercare di raggiungere sia il maestro d’arme e sia il gruppo dei suoi folli inseguitori, veloci quanto lui, ma non saprei quale fosse il loro livello di potenza… soprattuttto se io e il samurai avessimo unito le forze per abbatterli.

Avrei felicemente sfogato tutta la mia rabbia su di loro, ma avrei dovuto prima raggiungerli. Sentivo tutto il vento tra i capelli e le orecchie, e il vento stesso sembrava quasi alimentare il fuoco della vendetta che scorreva nelle mie vene.

Correvo, molto.

Mi ci vollero solo una decina di minuti per individuarli, nel mentre il maestro d’arme ne aveva uccisi altri due. E nel correre, vidi nel maestro d’arme l’espressione che ormai avevo già calcolato: ero io colui che stava cercando e ormai non mi sarei potuto più tirare indietro, a questa storia.

 

Lo vidi. Finalmente.

Testa pelata. Senza mantello, o almeno lui lo era. Indossante quello che poi avrei scoperto essere solo un semplice e casto kimono marrone. Occhi castani, ma all’apparenza sembrava essere soltanto uno stupido vecchio, anche se mi convinsi del contrario. Cinque secondi dopo aver osservato i suoi occhi. In essi ardeva il fuoco della determinazione. Le pupille quasi gli tremarono dalle varie vibrazioni del suo corpo e divennero leggermente più piccole.

Da ciò capii anche che era incappato in me quasi per sbaglio, ma quello che di più gli ammirai fu la sua katana. Era come una naturale estensione del suo braccio: leggiadra e letale come il vento stesso che si stava incominciando ad increspare in queste montagne. E nel frattempo, d’idioti nemici, ne erano rimasti soltanto in cinque.

Lo sguardo teso nei occhi mi fece presagire che quello che era appena successo non era contemplato nei loro oscuri piani. Difatti si guardarono tra di loro come per domandarsi il che farsi, ma decisero che il cercare di portare a casa il loro compito a casa.

Decisero per la scelta sbagliata, ovviamente. Il tutto mentre io e il vecchio c’osservammo a circa tre metri di distanza, con i cinque che c’avevano circondato. Come se fossimo noi le prede, e non loro. E con la consapevolezza d’avere ancora qualche possibilità, ma nessuno di loro non avrebbe mai potuto immaginare che nel corpo di un ragazzo risiedesse una tale potenza.

Neanche lo stesso ragazzo se ne sarebbe potuto rendere conto.

Dunque, il freddo continuò ad attanagliare i loro cuori, mentre il gioco di sguardi tra me e il vecchio stava diventando sempre più strano. Chissà per quale motivo, mi chiesi. Nel mentre i nostri, o i suoi, nemici sembravano quasi pronti nel decidersi il da farsi, mentre il tempo sembrò fermarsi e il tutto sembrarmi sempre più strano. Infatti, uno dei cinque, cui non sarebbe utile nemmeno indicarne le infidesimali differenze dagli altri quattro, perché mi sembravano tutti uguali: giubba nera, capelli corvini, razza caucasica e occhi marrone scuro. Come il legno degli alberi che circondavano, a poche centinaia di metri, casa mia.

Comunque, tornando a noi, cercò di correre verso di noi, forse per tentare qualche tipo d’offensiva, ma il samurai se ne accorse e gli bastò un fendente della spada nella sua direzione per abbatterlo.

Cadde. Morto, con il sangue uscente dalla ferita infertagli alla pancia.

Nel vederlo cadere, mi resi conto quanto facile sia togliere la vita agli esseri viventi, e al contempo che preservarla sia ancora più difficile. Gli occhi vitrei e la rapidità della sua esecuzione mi sorprise e non poco, ma la sua espressione di rassegnazione nel fendere l’aria per togliere la vita a questi uomini non coscienti della loro ineluttabilità, mi fece capire che anche lui era costretto a farlo. Dunque, limitai la mia curiosità solo nell’osservarlo. Anche perché era veloce anche per me e dunque, non sarei riuscito nemmeno a stargli dietro.

Un altro fendente: un altro morto. Il fendente sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il secondo.

Un altro ancora, di fendente: ancora un altro morto. Sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il terzo.

Un altro ancora, di fendente: ancora un altro morto. Sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il terzo.

Un altro ancora, di fendente: ancora un altro morto. Sempre allo stesso posto: leggermente sopra la pancia. E cadde il terzo.

Fine dello scontro. O almeno sembrava fosse così.

I cinque cadaveri nostri – o suoi – avversari giacevano lì, sulla candida neve. Il tutto non m’era così tanto strano, nel senso che avevo già visto un corpo morirmi davanti, ma la rapidità della loro morte mi fece stranamente riflettere di quanto io non potessi più fare: morire senza che nessuno mi possa piangere. Nel frattempo, una strana puzza d’animale bagnato m’assalì le narici. Non che non ne fossi abituato, tra tutti gli orsi e i lupi presenti in queste lande alquanto sconfinate, sopratutto quando mi divertivo a cacciarli o a rincorrerli e basta. Non era mia intenzione ucciderli, perché da solo non ne sarebbe valsa la pena. Era come se fossi legato a loro, in un certo senso, ma questo odore aveva un non so che di diverso.

 

«Ehi, vecchio. Arriva qualcosa di strano, un animale credo» – Gli dissi, pacatamente al samurai.

«Un animale, dici? E perché sarebbe strano? Siamo in Canada!» – Mi rispose, alquanto stranito. Non ne sapevo il motivo, ovviamente.

«Il suo odore, è strano. Non ne saprei il motivo, ma non sembra un comune animale. Ma è come se la mia percezione degli odori fosse migliorata molto. Da un momento all’altro» – Cercai di dargli una qualche informazione in più, ma erano insufficienti anche per me. Infatti il mio tono di voce era un po’ incerto, proprio perché ero insicuro nel dare informazioni non confutabili.

 

La sua espressione assunse un tono ancora più dubbioso, rispetto al mio primo allarme. Incominciai a sentire anche l’animale annaspare, nella nostra direzione, facendomi capire immediatamente che sarebbe stato l’unico che non sarebbe scappato da noi. Avrebbe lottato per la sopravvivenza, ma non sarebbe dovuto succedere.

Non era normale, per me. Anche se non sapevo nemmeno definire più il normale.

Incominciai a sentirne anche i passi felpati. Erano quattro. Per cui era un animale a quattro zampe, che correva verso di noi a grande velocità, ma macinava metri ogni secondo che passava e il freddo non sembrava nemmeno fargli effetto. Era in avvicinamento, all’incirca cinquecento metri. Era alla nostra portata visiva, ma era come se non riuscissi a vederlo. Evidentemente non stavo guardando nella giusta direzione. Nel frattempo, nemmeno il samurai ebbe idea a cosa mi riferissi, ma si voltò e mi disse che vedeva qualcosa di molto veloce che correva verso di noi. Non eravamo stati attenti a tutto, e quello che sembrava un semplice allarme di un pazzo senza cognizione di causa, ma tutto il mio allarmismo si rivelò reale.

Da quattro rumori di passi non sentii nemmeno uno. Presunsi che l’animale s’era fermato. A circa trecento metri, ma sembrava invisibile. Non lo vedevo, e nemmeno il samurai. Era muto come un pesce fuori dall’acqua.Ero in allarme, ma in quel preciso momento, ossia dopo l’ennesima occhiata al samurai, sentii e percepii che i rumori erano diventati due, come se fosse cambiato qualcosa nel nostro inseguitore: era chiaro come il sole che ce l’aveva con noi due… e se no, con chi altri.

I vivi, qui, eravamo solo noi: io e il samurai misterioso.

I due passi erano sempre più cadenzati, sempre di più, fino a che non si fermarono di botto. E io non capii più dove potesse essere. Chiusi anche gli occhi, mentre il samurai era sempre più silenzioso, ma si mise in una posizione strana: mise la lama della spada perpendicolare del terreno e il braccio con cui la mantiene, teso di fronte a se… come se fosse pronto per qualcosa.

Io m’agitai, perché non vedevo niente.mentre la notte era sempre più buia, tanto che l’unica nostra luce divenne la luna. Eravamo in campo semi aperto, ma incominciai a sospettare che forse, il piano dei cinque guerrieri "sacrificabili", fosse proprio quello proprio quello di morire per distrarci da un qualcuno di più forte di loro. Ci ragionai dalle loro espressioni di rassegnazione. Nessuno dovrebbe morire solo per fare da esca.

Incredibilmente fu così.

 

«Rooooooooar!» – Si pronunciò l'orso.

 

Quello che sentii, era senza dubbio il ruggito di un orso. Assordante come altre poche cose. Senza alcun dubbio, era molto vicino, quasi vicino a noi, ma appena alzai gli occhi, ecco che pensai che nulla sarà – mai più – una coincidenza. Un grizzly ci stava per piombare addosso. Si, un grizzly: è quello che ho detto. Mi spostai giusto in tempo, buttandomi in avanti e rivolgendomi lo sguardo a dove ero prima. Era piombato proprio in mezzo a noi due, tanto che il samurai ne rimase sorpreso. Non si scompose, ma il suo unico movimento fu quello di voltarsi e di mantenere la posizione di prima: oltre al fatto che essendo inverno, gli orsi dovrebbero essere tutti in letargo.

 

«Il nostro, o il tuo primo, avversario, è un orso che riesce a piombare giù da un albero posto a duecento metri da noi. Benvenuto nel tuo nuovo mondo, indiano» – Mi disse il vecchio samuraI, nel commentare un momento “delicato”. La cosa più strana è che cercò di parlare in un inglese alquanto diverso da quello che conoscevo io – ebbi la fortuna d’impararlo recandomi nelle città appena fatte per le commissioni del mio padre adottivo – e incominciai anche io a parlargli in quel modo. Solo per capirci.

«Primo, io sono Cuore Infuocato. Secondo, come fai a sapere queste cose? Parla!» – Gli risposi.

«Avrai le tue risposte se lo batterai da solo. Tanto, per quello che so di te, non ti servo nemmeno per batterlo. Sei più forte, ma ancora non lo sai!» – Mi apostrofò il samurai.

 

Feci una smorfia di disapprovazione, ma aveva ragione: non aveva senso discutere di stronzate, quando un grizzly ci vuole morti. Infatti, la risposta dell’orso non si fece attendere: un ruggito assordante, atto a sottolineare la sua volontà nel volerci affrontare. Però mi sorse strano un particolare: o il suo territorio era vastissimo, o quest’orso aveva qualcosa di strano. L’orso sferrò la sua zampata, verso di me. Con la destra. Fu più veloce di me: infatti mi scaraventò a circa venti metri da dove ero. Lui era in piedi, su due zampe. Era circa tre metri, ma qualcosa dentro di me incominciò a farsi avanti. Un ardente sentimento di voler lottare a tutti i costi. Questo, mi fece rialzare: nessun orso m’avrebbe messo giù. Anche se l’unico dolore che sentii, fu nel mio carattere. Anche se il colpo fu parecchio violento: e i graffi che mi ritrovai sul petto, erano la sola e unica conseguenza dello scontro tra le sue unghie e il mio corpo.

Il samurai, non disse niente. Anche mentre il grizzly s’avvicinò a me con rabbia. Ero stranamente forte, ma pensandoci era realmente la prima volta che mi sentivo così: l’incontro con La Morte m’aveva realmente fatto bene. Forse ero predestinato a questo incontro, ma ero pronto a verificarlo.

Nel farlo, mi avvicinai al mio avversario, mentre era già a pochi metri da me e cercai di sferrargli semplicemente un pugno: non mi ricordo come diavolo avessi fatto, ma ricordo d’aver mirato allo stomaco ed è semplicemente crollato a terra. Non era morto o battuto, ma quella botta l’aveva semplicemente intontito: infatti, si rialzò emettendo un verso. Non capivo a cosa si riferisse.

Tanto che rimasi sulla difensiva, pensando a qualcosa per abbattere qualcosa di apparentemente più ostico del normale: avevo già affrontato degli orsi, ma questo sembrava capirmi.

Lo sentivo strano. Fece i tre passi necessari per raggiungermi, ma non riuscii a bloccare nemmeno la seconda zampata. Mi feci un altro volo di circa una ventina di metri, ma questa volta riuscii a sostenere l’impatto: pensai solo a non cadere e a rimanere in equilibrio... solo questo. Sorrisi, tanto che cercavo di capire anche le parole del samurai. Tanto che cercai d’impegnarmi nel volerlo abbattere… l’orso: anche se ero più impaziente di scoprire chi fosse il mio misterioso interlocutore. Che era rimasto immobile dall’inizio dello scontro.

Tentai di capire cosa fare, ma l'adrenalina che il mio corpo stava sprigionando dentro di me mi stava rendendo impossibile ogni ragionamento logico: e forse l'affidarsi all'istinto, per una volta, sarebbe stata la scelta migliore. Chiusi gli occhi, mentre l'orso dava ancora segnali d'impazienza, perché non volevo crollare dinanzi ai suoi piedi.

Ruggiti, susseguiti da un’altra zampata: la terza. Scese su di me più veloce di un fiume in piena, ma riuscendo a percepirne l’intera discesa a terra, mi spostai a qualche centimetro di distanza e ricordandomi la posizione dell’animale, scagliai un sinistro sotto il fianco destro… sentii solamente un gemito di dolore, da parte del mio avversario. Solamente dopo, gli scagliai un sinistro in pieno petto: un altro gemito. Non riuscii a calcolare quanta potenza ci misi nei colpi che gli inflissi, ma quello di cui ero sicuro è che non l’avrei voluto uccidere. Non m’era mai piaciuto farlo, ma sentivo dentro di me di nuovo quella strana rabbia. Ero comunque appena passato da avere una vita perfetta, al rimanere solo: come un animale… come il mio avversario, che stava per crollare. Lo percepivo dai battiti del suo cuore, sempre più lenti.

Anche dalla bava uscente dalla bocca, sintomo di affaticamento: non era il primo orso con cui avevo a che fare in vita mia, ma lo sentivo… quel qualcosa di strano nell’orso. Durante i miei flebili contatti con l’orso, sentivo che i suoi muscoli e le sue ossa impattare con i miei pugni, nonostante le altre volte non gli facessi chissà quale male, ma adesso… ripensandoci, tutti gli altri orsi non erano così resistenti. Sarà stata qualche strana coincidenza, ma anche le coincidenze finiscono prima o poi per sfociare nella realtà dei fatti. E la sicurezza che l’avrei saputo solo al momento della sua sconfitta, era sempre più lampante e che il samurai fosse collegato con quest’orso… pure. Non mi stavo dando pace, nel mentre insistevo nel voler mantenere chiusi gli occhi senza un motivo “pragmatico”: cercavo di capire qualcosa senza avere informazioni… ero proprio un genio.

 

«È quasi morto, basta un ultimo colpo ben assestato per mandarlo all’altro mondo!» – Si pronunciò il samurai, con tono sarcastico e sbrigativo.

 

A sentire le sue parole, e sopratutto il tono, avvertii il sangue ribollirmi nelle vene e volevo sperare che l’orso non c’entrasse niente con la morte dei miei genitori adottivi… non m’ero dimenticato di loro, in questo frangente di tempo… ma uno strano sesto senso, forse nemmeno dipendente da me, mi fece ricredere della tesi appena formulata. Forse non era lui il diretto esecutore, perché trovavo improbabile che un essere alto tre metri potesse entrare in una porta ad “altezza uomo”: ma lì tutto poteva essere. Mi stavo facendo tremila domande, ma ero cosciente che l’unica azione da fare era: il mio avversario doveva conoscere… realmente… chi aveva di fronte.

Un solo pugno, sotto la pancia…stavolta, mentre stava ancora barcollando: bastò solamente questo per farlo crollare del tutto. Sfiancato, e con il morale sotto le zampe. Il cuore batteva pian piano e la furia che alberghava nel mio animo sembrava essere svanita: decisi finalmente d’aprire gli occhi.

Era totalmente buio, e le unica luce utile… e presente… era rimasta quella lunare. L’orso era stanco, abbattuto e incapace d’alcun movimento. Il samurai era intento a osservarne il corpo, mentre la sua espressione… del samurai… era stranamente cupa. Era come se riflettesse su qualcosa di cui io non avevo idea: ossia tutto il resto. Ma avevo già sentito l’odore di quest’orso, ma non ricordavo quando di preciso. Ne avevo sentito tanti d’odori e sempre diversi, ma questo era inconfondibile: quando lo scoprii, ci rimasi di merda.

 

«E adesso, cos’hai da dire adesso?» – Apostrofai incerto al samurai, pronto a conoscere “la verità”.

«Aspetta!» – Mi replicò il mio interlocutore, con tono serio.

 

In quel momento, in tutta la terra sconfinata, c’eravamo soltanto noi tre: io, il samurai e l’orso. Ma l’orso, sembrava essere davvero qualcos’altro. Il pelo dell’orso sembrava sfoltirsi, come preso da un improvviso attacco di alopecia. Rapidamente, come anche l’intero corpo dell’orso stava diventando più piccolo: più specificatamente… a taglia d’uomo. Tra una mutazione genetica e l’altra, divenne un maschio sulla quarantina, capelli e occhi castani, alto sul metro e ottantacinque e pesante circa un ottantina di chili: capii quale fosse la stranezza… l’odore non combaciava con quello degli altri grizzly – o altri orsi – e quindi potenzialmente rintracciabile… oltre al fatto che – ripeto – sarebbe dovuto starsene in letargo. E vedendolo tornare umano, e con il sangue alla bocca, mi vennero dei flashback di quella mattinata e mi ricordai dell’odore che l’orso contro cui combattei quella stessa mattina. Mi strappò la mano con un pesante morso all’altezza del polso. E se la mangiò, ma non sapevo che c’era qualcosa sotto. Solo nel momento in cui l’avevo battuto, capii che c’era qualcosa di grosso dietro, e non era nemmeno casuale lo spuntare di un samurai con al seguito tanti soldati pronti a farlo fuori. Quell’orso avrebbe dovuto uccidermi e non l’ha fatto… o non c’è riuscito. Credetti subito alla versione dei fatti che qualcuno l’avesse mandato da me e che il samurai fu soltanto una fortuita coincidenza: non c’erano altri elementi per deliberare. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo: stavo diventando ripetitivo anche con il cervello, ma in quel momento mi vennero alla mente le parole di mia madre – quella vera – sul dovermi impegnare per qualsiasi cosa io avessi voluto fare e su chiunque fossi voluto diventare nella vita.: tutto stava diventanndo una fottuta coincidenza, ma il voler sistemare anche questo casino sarebbe stata la scelta migliore.

 

«Ho visto, è diventato un uomo. Credo che tu dovresti dirmi almeno qualcosa, a questo punto della storia!» – Apostrofai, abbastanza alterato, al samurai: forte anche della scoperta appena fatta sul mio avversario.

«Ti avevo promesso delle informazioni e delle informazioni avrai: che uomo di parola sarei, se no. Io sono un samurai, ossia un soldato posto a guardia degli imperatori del mio paese!» – Il samurai prese a raccontare, ma in queste frasi c’era sempre un “ma”.

«Ma? Come mai ti trovi qui?» – Chiesi perplesso, con una “quasi” ritrovata ovvietà.

«Sono fuggito per cercare una soluzione. Mi sono imbattuto in te, quasi – togliamo il quasi – per caso, anche se ho visto che mi potresti tornare adirittura utile, in questa guerra!» – Parlò per qualche minuto, a voce bassa. Non capii tutto perché non avevo tutte le informazioni, ma anche adesso c’erano due grossi “ma”… che avrei dovuto risolvermi da solo.

«Ma? C’è sempre qualcosa che non mi dici, samurai!» – Chiesi perplesso, con una ritrovata ovvietà.

«Prima di tutto: il mio nome è Kaze… ho vagato per dieci lunghi anni per il mondo intero per cercare esseri in grado di combattere la morte. Per la tua natura di non morto che cammina, dovrai affrontare molte altre battaglie e con esseri che non penseranno che sei soltanto un ragazzo. Hai la necessità di un maestro che t’insegni a sopravvivere e a lottare per i tuoi scopi: ed ecco che entro in scena io. Ho già combattuto e ucciso molti di questi esseri, che in qualche modo non sono nemmeno umani. Ti chiedo una mano, come io la darò a te… se deciderai di seguirmi in questa impresa: ti do la mia parola di samurai!» – Cercò di contenersi dalla rabbia, per qualche strano altro motivo. Stringeva il pugno destro, mantenendo la spada, ma la ripose subito nel fodero e facendomi segno d’entrare nella tenda: inutile aggiungere che accettai

 

Accettai senza farmi troppe domande. Non avevo ragione di dubitare di qualcuno che percepivo essere puro di cuore. Aveva nobili intenti, o almeno sembrava d’averli ed era sempre utile avere qualcuno che sapeva cosa stesse succedendo. E gli feci strada al misterioso samurai, ossia Kaze. Sapere il suo nome m’era abbastanza di conforto, per la questione “mamma, ho un samurai senza nome in casa”… anche se io i genitori non li avrei avuti più, da quel giorno. Entrammo nella tenda e tutto mi sembrava così spoglio. Mi sarei dovuto ancora abituare all’idea d’avere un nuovo inquilino in casa, ma non avrei creduto minimamente a cosa sarei andato incontro. E con questo, ci misimo a dormire entrambi nella tenda.

La mattina successiva, mi svegliò all’alba e prese anche la sua spada. Uscì fuori dalla tenda e mi fece segno di seguirlo… e lo feci. La mattina era sempre uno spettacolo: lo spiazzo tra la conifera e la mia tenda era abbastanza ampio per godersi tutto il panorama e l’uomo che avevo steso la notte prima era sparito, – c’avrei giurato – nel mentre Kaze prese la pala che usai per seppellire i miei genitori e la pose vicino al primo albero che vide. M’indicò che l’avrei dovuta prendere, per vincere la sfida. Tutto a gesti, me l’indicò. Inizialmente non capivo molto di quello che diceva, anche se poi imparai il giapponese – e vorrei vedere come si fossero capiti se no – proprio per poterci capire e anche il comprendere la sua storia m’è risultato più facile. Mi dichiarò una sfida, ma quello che non mi disse fu che avrei dovuto sorpassarlo: me ne accorsi dopo il primo tentativo, perché finì a terra dopo aver subito un fulmineo pugno alla bocca dello stomaco.

Mi ripresi, cercando di capire cosa dovessi fare per cercare di superare l’ennesimo ostacolo. La mia rabbia era comprensibile. Ancora non ero entrato nell’idea che il samurai volesse soltanto allenarmi a cavarmela da solo. Ma intanto avrei dovuto soffrire e incassare colpi come se non ci fosse davvero un domani. Non sopportavo gli allenamenti senza uno scopo prefissato e questo era uno di quelli, ma cercai di farmi forza e riprovaci. Nemmeno a dirlo, la mia breve corsa finì nel momento in cui mi scontrai con Kaze che non ci mise nulla ad atterrarmi. Avevo i polmoni e lo stomaco urlanti dal dolore… credevo che mi si fossero rotti… anche se camminavo con molta più fatica, ma cercai di rilassarmi e di focalizzare le mie ultime e due corse: troppo rapide e confusionarie, per un esercizio con un samurai.

Chiusi gli occhi, ma proprio per cercare di rimanere calmo.

Focalizzai che Kaze era a cento passi da me e che mi sarei dovuto soffermare prima su di lui. Pure il mio obbiettivo sarebbe dovuto passare in secondo piano: se mai fossi riuscito a essere più veloce di lui e dirigermi verso l’obbiettivo, avrei avuto il sospetto che lui sarebbe potuto essere dietro di me e quindi fregarmi… invece io l’avrei fronteggiato. Se mai fosse stato un nemico, non avrei fatto lo stesso ragionamento?

Un cenno d’intesa mi bastò per dirgli che sarei partito alla volta dell’obbiettivo. Lui comprese e si posizionò non usando nemmeno la spada: lo sentivo dall’assenza delle sue vibrazioni. La posizione assunta dal samurai fu di una specie d’uccello… credo il pavone… e rimase fermo. Io, invece, mi feci avanti con una corsa esagerata. Sentivo che il suo cuore era troppo pacato, nel mentre mi misi a ragionare sul fatto che non avevo modo di combattere il suo stile di combattimento, per cui capii che avrei dovuto improvvisare.

Anche lui lo sapeva, secondo me.

Gli arrivai vicino… a pochi passi da lui, in realtà.

Il primo pugno cercai di sferrarglielo in pieno volto, un gancio per l’esattezza. Ma non credevo che sarei stato in grado di colpirlo. Sentii soltanto un accenno strozzato di dolore da parte sua, che quasi lo ritenni uno starnuto e non ci feci caso. Il secondo colpo, quello che feci per cercare di stenderlo del tutto fu un calcio al perno, ma quello che sentii fu solo che qualcosa mi stava perforando il piede e che faceva un male cane. Riaprii gli occhi e vidi che il samurai aveva usato la sua spada come uno stuzzicadente: m’aveva bucato il piede.

E l’aveva anche ritirata fuori, nel frattempo.

Il mio sangue era sia a terra e sia su quella dannata spada, ma la cosa più strana fu che non riuscii nemmeno a percepirla. Forse ero ancora troppo acerbo per accorgemene, ma quello che mi sorprese fu che il samurai era dolorante. Si reggeva il petto con la mano sinistra, ossia quella libera e con la destra stava maneggiando la spada. Il suo corpo era tutto contratto per cercare di trattenere il dolore e credo d’avergli fatto realmente male, anche se all’epoca non riuscivo a rendermi conto di chi fossi e cosa potessi fare: anche se la sua espressione intendeva che avrei fatto soffrire molte persone. E il samurai cercò di darsi delle risposte, lo vedevo arrovellarsi per cercare di capire come dovesse fare per impartirmi delle lezioni: evidentemente non aveva mai ragionato con qualcuno che non potesse morire. Si riprese e m’attaccò lui con la spada.

Gli bastò un fendente per affondare la lama dentro il mio braccio destro e anche la rimozione fu abbastanza veloce. Il dolore si fece sentire, ma il suo volto si contrasse e il nervoso gli salì ancora di più: non ci credeva e nemmeno io, mentre perdevo altro sangue tra la neve ancora non sciolta della sera prima e la sua espressione divenne ancora più alterata e mai avrei giurato di vederlo così fuori di testa. Altri fendenti scagliò, miranti tutte le mie articolazioni, recidendomi sia le braccia e sia le gambe. Mi sentivo incapace di difendermi da un abuso vero e proprio di un samurai che voleva soltanto capire: per certe cose però non serviva la più benché minima comprensione… sarebbe bastato crederci.

Tanto fui io a cadere per terra – da fermo – pieno del dolore per tagli su molte parti del corpo, tanto che lo stesso Kaze si fermò per cercare di capire come fosse andato il suo esperimento. Le mie urla di dolore si resero protagoniste per tutta la foresta, ma capii un’importantissima lezione: “Se nella vita non conosci la sofferenza, non puoi imparare la felicità”. E sarebbe stato soltanto l’inizio, tanto che io… nonostante tutti i tagli, ero soltanto agonizzante e con tutto quasi tutto il mio sangue tra la neve: che nel frattempo stava continuando a uscire.

Sarebbero potute essere le sette del mattino, ma sentivo d’aver fame… cercando di gesticolare per indicargli il mio bisogno, ma non riuscivo nemmeno a muovermi al momento. Piano piano, cercai soltanto di focalizzarmi sul volermi rimettere in piedi. Contrai tutte le parti del corpo che “riuscii a salvare” e cercai di rimettermi in piedi… senza risultato.

Ogni ferita del mio corpo, stranamente si stava già cicatrizzando, simbolo del fatto che stava iniziando il processo di rigenerazione, ma la sola sensazione di bruciore e prurito che mi stava dando, che avrei voluto fissare e urlare a un maestro che m’aveva messo volutamente in pericolo, ma che all’inizio del processo di rigenerazione, sparì senza dare altre informazioni. Decidendo così di trascinarmi dentro la tenda, solo per rilassarmi, con il corpo piegato su sé stesso e continuando a perdere sangue. Anche se era sempre di meno, quello perso.

Passarono circa dieci minuti, dovendo percorrere circa un centinaio di metri trascinandomi con le sole mani. Riuscii ad arrivare e a entrarvi, nella tenda, per cercare un po’ di conforto. Le ferite mi facevano ancora male, ma la rigenerazione era peggio. Straziante come poche altre cose già provate, ma non avevo il corpo così resistente ai tagli, nonostante tutte le ferite fossero superficiali e solo in quel momento stessi imparando come permettere al mio corpo di durare più a lungo. Ma non ce la facevo ancora. E infatti il mio corpo collassò per sfinimento o credo che solamente il cervello ebbe un blackout.

 

«Svegliati Cuore Infuocato!» – Mi disse il samurai, dinanzi a me e lentamente. Mi diede anche una piccola botta con il manico della spada, per velocizzare il mio risveglio.

Appunto: mi svegliai. E mi ritrovai Kaze fissarmi “in piedi” dentro la tenda. Mi fece il gesto per uscire e nell’uscire notai che il sole era già alto nel cielo… probabilmente era ora di pranzo. Infatti proprio per evidenziare il mio sospetto di ovvietà, si presentò con una decina di salmoni, strappati dalle grinfie di qualche grizzly incazzato. E alla loro vista incominciai ad accendere il fuoco fuori dalla tenda, e prendere anche i pezzi di legno per attaccarci il nostro pranzo e cucinarli. Qualcosa non mi stava tornando… nel ragionamento – perché avrebbe dovuto agire così d’impulso, se non per qualche ragione precisa – sulle motivazioni del samurai: dopotutto ero uno strano ragazzo con strane abilità. Quasi tutto il mondo m’avrebbe additato come un mostro, ma lui no. Forse gli sarei servito per qualche altro motivo.

Avevo molte domande, ma non avevo idea delle risposte.

 

«Ho una notizia da darti: non puoi morire, nemmeno se volessi!» – Mi disse il samurai ragionando a voce alta, mentre ormai stavamo già pranzando, ma sentivo che c’era qualcosa che non andava nelle sue parole. Il combattimento di prima m’aveva reso cosciente della mia impreparazione a quello che mi sarebbe successo successivamente. Il problema era che aveva ragione. Non sarei potuto morire nemmeno per togliermi tutte le responsabilità che io scelsi di prendermi. Gli feci segno di spiegarsi ancora, dato che non parlavo ancora la sua lingua e quindi non avrei potuto capire comunque quello che avrebbe detto. Infatti, quello che sto raccontando, è tutto un vago ricordo su quando non ero chi sono adesso: questa però è un altra storia.

 

Ritornando a noi, mi disse soltanto che ci saremmo dovuti allenare per perfezionarmi totalmente. E non ci sarebbe dovuta essere, da parte mia, nessuna lamentela. Mi sorprese perché parlò da frustrato e per quel poco che lo conoscevo, era fin troppo chiuso anche per i suoi limiti. Qualcosa lo turbava, e anche parecchio.

Gli chiesi… a gesti… che avrei voluto imparare a parlare come lui, ma lui… sempre a gesti… mi rispose che l’avremmo fatto sempre dopo gli allenamenti fisici: toccandosi prima la testa, poi roteando l’indice dinanzi il petto e verso l’interno del corpo, e infine mi fece una posa di combattimento. Riuscendo a capirlo, non mi restava che allenarmi. Ma quello che stavo dimenticando che l’assassino dei miei genitori era ancora in libertà e che l’avrei voluto vedere in volto prima di… della sua morte.

 

Nei mesi a seguire, mi iniziò al bushido: ossia la via del guerriero… contenente tutte le arti marziali che conosceva e l’arte del perfezionamento fisico. Avrei dovuto difendermi da cose molto più grandi di me, nonostante io non sapessi ancora da cosa mi sarei dovuto difendere. Kaze tentava forse di proteggermi da chissà cosa o aspettava – semplicemente – che io riuscissi a comprenderlo quando me l’avesse cercato di spiegare.

All’imbrunire, m’insegnava anche la sua lingua, per avere quella comunicabilità che tanto avrebbe aiutato a capirlo meglio: accostando i gesti alle parole e alla scrittura… ci misi mesi per impararmi una lingua così complessa. E così imparai molte altre lingue, dato che anche il samurai convenne utilizzare del tempo in più per raggiungere la perfezione. Che avrei avuto soltanto quando io mi sarei sentito davvero consapevole di chi fossi, ma che in realtà non l’avrei saputo fino a che non ci sarei diventato. Considerando che quello che fu il mio “battesimo del fuoco” non era niente a quello che era successo con la scoperta di quanto stesse succedendo in realtà.

 

Passarono quattro anni da quando conobbi Kaze e nessun altro venne a disturbare, allontanando il sospetto di strani incontri. O almeno per tutto questo tempo. Infatti, non m’aspettavo interferenze e solo una ne è bastata per farmi decidere sul da farsi: che coincidenza voluta. In poche parole, scoprii chi aveva massacrato e ucciso i miei genitori adottivi. Mi stavo allenando con Kaze, mentre decisi d’avventurarmi da solo nei boschi. Volevo cacciare in memoria dei vecchi tempi, mentre sentii che qualcuno mi stava seguendo. Rumori di passi, due… per essere precisi. Rimasi fermo, per capirne la posizione dal poter propagare nell’aria la mia percezione uditiva – un piccolo trucco imparato con la meditazione – e calcolai che sarebbe potuto essere ubicato a circa quattrocento metri da me. Lo percepivo, ma non riuscivo a vederlo. Volevo che fosse lui ad attaccarmi, proprio per evitarmi il tentativo di cercarlo in tutto il bosco. Si nascondeva bene, anche se ripresi il mio compito senza pensare al probabile inseguitore e mi continuassi a chiedere chi fosse.

M’avventurai verso uno dei fiumi, per prendere del pesce e incominciare a cucinare quello e poi finire su della carne. Kaze non mangiava molta carne rossa: diceva che era per preservare il suo corpo… io, d’altro canto, non c’ho mai creduto – alle diete – e quindi facevo doppia caccia; era tutto allenamento il mio, come quello di quel momento per sfuggire al mio inseguitore, ma senza destare troppi sospetti. Corsi, più veloce del vento stesso, e anche in mezzo agli alberi semplicemente per divertimento, mentre sentii già l’odore del fiume a pochi chilometri da dove mi stavo trovando io. Nel correre, notai che la neve si stava incominciando a sciogliere e che non c’era presenza degli altri animali: andava bene il letargo, ma come per l’orso che era semplicemente un mutaforma, per gli altri non sarebbe dovuto cambiare niente. Mi detti uno slancio per affrettarmi, percorrendo in una decina di minuti lo spazio che mi stava separando dal fiume e m’appostai per iniziare la pesca… soltanto con le mani. Per farla breve, presi quel che dovevo prendere e riposi la decina di pesci sotto il braccio e intrapresi la via del ritorno, per poi riprendere la caccia subito dopo. Corsi ancora più velocemente di prima, nonostante il bosco fosse per lo più sempre uguale, anche se la conformazione del terreno e delle rocce davano una strana sensazione di potervisi orientare. Saltavo da un masso all’altro e da un tronco all’altro, solo per testare sempre il mio fisico: potenziato nel tempo e ancora più prestante. Avendo scalato montagne, cascate e sfidato animali d’ogni genere, realizzai che sarei dovuto essere pronto a qualsiasi cosa anche senza – per forza – perdere i capelli. E – per non portarla per le lunghe – riuscii ad arrivare alla tenda senza aver incontrato nessuno, ma appena riuscii a intravederla, vidi un altro uomo dinanzi a Kaze – che nel frattempo stava incominciando ad accendere il fuoco.

 

«Se si segue la tana del bianconiglio, si trova sempre l’inaspettato!» – Disse lo strano uomo, vestito con pelli d’animali e armato di due tomahawk, in uno strano inglese. Non era del luogo, come non l’eravamo nemmeno noi due. Kaze gli stava già puntando la katana alla gola, nel mentre attendeva il mio arrivo, anche se volevo capirne le intenzioni… anche se il mio sensei lo stava già tenendo a bada.

«Parla, hai la mia attenzione!» – Disse Kaze, altamente scocciato e continuante a puntargli l’arma alla gola.

«Non sapevo fossi qui, ma già che ci stiamo aspettiamo tranquillamente il tuo allievo?» – Propose l’evidente straniero, forse a conoscenza d’informazioni che sarebbero trapelate soltanto con mezzi non convenzionali.

«Cosa vuoi da lui?» – Chiese Kaze, immutato a pochi secondi prima.

 

Lo straniero rimase impassibile alla minaccia di Kaze, mettendo le classiche “mani in alto” e con un falso sorriso sul volto, atto a sottolineare quanto sia soltanto un messaggero di qualcuno molto più potente di lui. Mi portai verso di loro, con passo rapido e ricolmo di rabbia, con entrambe le mani impegnate ad assolvere l’ultimo compito intrapreso prima d’affrontare quest’altro sgherro e lì, in quella strana circostanza, sentii di nuovo ardere il fuoco dentro di me. Un’insana voglia di pestare le persone e d’affrontare ogni sfida con rabbia e decisione. Accellerai incredibilmente per compiere i cinquecento metri che mi separavano dalla tenda in pochi minuti e nel passare la tenda, riuscii nel lanciare i pesci vicino al fuoco. Passai tra i due interlocutori. Poi, diedi un pugno sul volto dello straniero che lo fece crollare a terra. Nell’impatto tra la sua faccia e le mie nocche sentii che il suo osso del collo rompersi sotto la forza dei mio pugno. Mi sentii dannatamente potente e credo che sia la prima volta che ebbi il desiderio e la volontà d’uccidere qualcuno. Però, stranamente, si rialzò in piedi. Sentivo d’aver usato tutta la forza che avevo in corpo, ma si rialzò… ridendo come un pazzo.

 

«Cosa vuoi da me?» – Chiesi allo straniero, recandomici vicino ai suoi piedi. In piedi, lo esaminai dall’alto verso il basso: vestito principalmente da cowboy, ma indossante un gilet di pelle d’orso e due feretre – per i tomahawk – alla cinta. Occhi e capelli castani, pelle caucasica: non l’avevo mai visto, ma a giudicare dal volo che gli feci fare – almeno cento metri – anche lui era stato resistente al mio colpo. E questo non mi piaceva.

«Quello che vogliono tutti… ucciderti!» – Si rialzò, guardandomi fisso negli occhi e brandendo con fare sprezzante le sue adorate armi. E con aria di sfida, che accettai senza fare altre domande. Anche quella volta, stranamente, Kaze rimase lì a guardarmi combattere: io odio ancora le coincidenze.

Non sapevo minimamente cosa volesse da me, anche se il suo intervento non era per niente causale. La mia paura era che non c'entrasse La Morte. Non volevo crederci, alla sola probabilità che lei potesse trarmi così facilmente in inganno, ma l'avrei dovuto accettare comunque: a qualsiasi costo. Potesse realmente essere davvero tutto un inganno, ma avrei preferito affrontarlo e non rimanerne passivo.

«E come è cresciuto il piccolo indiano!» ‒ Disse il cowboy barcollando e massaggiandosi il mento, mentre mostrò un leggero ghigno.

«E tu chi saresti?» ‒ Chiesi, spinto da una rabbia non mia.

«Quelli della tua gente mi chiamano Serpente a Sonagli. Un sibilante assassino d’indiani: mi hanno mandato qui per farti fuori… non prenderla sul personale, lurido indiano… dovrei soltanto ucciderti per risolvere tutte le mie grane!» ‒ Disse lui, mostrandosi molto sicuro di quello che avrebbe potuto farmi; fiero anche delle sue molte capacità.

 

Kaze si posizionò alla mia destra – e alla sinistra del cacciatore, dunque – non smetteva d’osservare tutta la scena, con occhi attenti per voler cogliere qualsiasi dei nostri movimenti o soltanto starsene buono per vedere i miei progressi. Anche se li avrebbe potuti verificare in altri tremila modi, ma io ero l’allievo e non avrei dovuto discutere i metodi del mio maestro… ma non sarebbe stata di certo quella l’occasione per allenarmi.

Il sole era alto e non c’era altro che noi e il bosco sconfinato. Nessun animale non aveva intenzione d’avvicinarsi e noi non ne avremmo voluti. Il “cacciatore-cowboy” faceva roteare i suoi tomahawk per cercare d’intimorirmi e nel frattempo mi studiava… e io studiavo lui. Ero in guardia e ripassavo tutte le possibili variabili di ogni suo probabile colpo. Come pararlo e come contrattaccare. Non mi sentivo così pronto da molto tempo. E sentivo che quell’evento sarebbbe dovuto succedere per forza nella mia vita.

Un evento cardine della mia vita, mi dissero più avanti.

Incominciai a massaggiarmi le mani, perché mi prudevano: volevo pestarlo a sangue, ma aspettai che fosse lui a fare la prima e unica mossa: avrei voluto chiudere subito questa faccenda, ma avevo il sentore che sapeva molto più di quello che dimostrava… sopratutto il venirmi a cercare in questa landa dimenticata soltanto da chi non sapesse dove mi trovassi all’epoca. Serpente a Sonagli – il cowboy-cacciatore di prima – era sempre di fronte a me, a una decina di passi… per essere precisi, preparandosi ad attaccarmi. Io ero pronto a tutto, pur di capirci qualcosa di più.

Avevo una strana sensazione, come se lo spirito della vendetta fosse dentro di me, ma l’ardore del mio animo era tutto scombussolato… come se avesse riconosciuto lo strano tipo, o fosse collegato con me in qualche strano modo, ma qualcosa sembrava bloccarmi dal poter realizzare tutta la situazione.

 

«E tu saresti il mio prossimo obbiettivo, indiano? Ho ucciso molti come te… mi fate schifo, con le vostre regole del cazzo! Solo perché non ero puro come voi, brutti bastardi infami!» – Disse il mio avversario, forse schifato dell’evidente commissione, ma che per qualche oscura ragione era quasi obbligato a rispettare. Per sottolineare il suo disdegno nei miei confronti, sputò anche per terra e mi fissò… forse per cercare di terrorizzarmi, o soltanto per farmi innervosire, ma sarei dovuto essere pronto anche a questo. Cercai di mantenere la calma, ma attesi sempre la sua prima mossa. A gesti, lo invitai ad attaccare, semplicemente tendendo le mani davanti a me e muovendole verso di me. E attesi, quasi sbadigliando: mi venne un’idea… non dargli importanza. Mi voltai verso Kaze e chiusi gli occhi… alzando il pollice della mano destra per segnalargli che era tutt’apposto: ero sicuro che non era a conoscenza della mia immortalità, per cui un attacco di soppiatto non m’avrebbe recato chissà quali danni. Volevo che m’attaccasse a tutti i costi, ma evidentemente non era così stupido o voleva che io l’attaccassi.

«Sei troppo stupido anche per attaccarmi? Dici che ci odi, ma preferisci attaccare solo chi non può difendersi come me? Non si compiono battaglie che non si possono terminare fino alla fine, sai? Io rimarrò qui in attesa che sia tu a fare la prima mossa… avanti!» – Gli dissi, pensando di smuoverlo e partire l’ennesima scazzottata. Mi prudevano troppo le mani: l’avrei voluto pestare soltanto perché m’aveva interrotto il pranzo e i successivi allenamenti. Sentivo che il mio fuoco interiore si stava lentamente risvegliando, come se qualcosa non andasse. Ero sempre con gli occhi chiusi, ma presi anche a camminare avanti e indietro rispetto alla mia precedente posizione: tanto avevo tutto sotto controllo con gli altri sensi.

«Si, soprattutto le donne e i bambini: il futuro della specie! Non m’importa chi devo far fuori per portare avanti il mio giuramento: morirete tutti, un giorno. Secondo perché un cacciatore d’uomini dovrebbe passare il suo tempo per trovare le sue prede, se non ha la certezza che si trovino soltanto nella zona di caccia? La risposta è ovvia: perché come il serpente, sente ne percepisce l’odore e la raggiunge per porre fine alla sua effimera esistenza! Ma stranamente non ho trovato chissà quali prede, in questi quattro anni!» – Quasi legato a vecchi ricordi e continuando lentamente a roteare i suoi tomahawk, incomiciando ad avvicinarsi a me, quasi per volermi attaccare, ma la curiosità era troppa per non pormi l’unica domanda necessaria a togliermi qualsiasi dubbio sull’identità di chi avessi davanti: a chi si riferisse.

«Sporco indiano, anche la lingua t’hanno mozzato? Mi riferisco a chi abitava questa tenda giusto quattro anni fa, ma passandoci varie volte non trovai più nessuno. Oggi, stranamente trovo un altro lurido indiano e un vecchio giapponese: la strana coppia. Mi dite voi cos’è successo o ve lo strappo a suon di accettate?» – Il cacciatore iniziò a roteare più velocemente le sue armi, mentre io cercai di farmi “due conti” sulle sue parole. Qualche altro sputo per terra, per schiarirsi la gola e in pochi secondi dopo capii.

 

Questa tenda… una coppia d’indiani… e se si sta riferendo anche alla tenda, sarà stato lui a porre fine alle loro vite: purtroppo anche io mi feci bene i conti con il mio passato, ma quando ti alleni per anni senza conoscerne la fine, dimentichi anche chi sei.

E io me ne resi conto soltanto in quel momento.

 

«Volevi una scusa per farti attaccare? L’hai avuta: ci sono io perché ci sono cresciuto qui. Erano i miei genitori adottivi quelli che hai ucciso. E ti dirò di più: nonostante questo, mi pregherai di smetterla di pestarti a sangue!» – Risposi con la rabbia e l’ardore che premevano per uscire da dentro il mio corpo. Avrebbero voluto infliggergli più dolore possibile, tanto che avrebbe pregato per cercare di farli smettere, ma la vendetta sarebbe solo la mia e incominciai ad attaccare. Aprendo gli occhi, ma li sentivo strani. Irrorati di sangue, mi si erano sfondati i capillari oculari e quindi sembravano rossi come il fuoco. Vedevo rosso sangue, ma puntai soltanto verso di lui. Otto passi in due secondi, tanto ci misi. Due passi in più per una ginocchiata, in pieno stomaco, che lo fece piegare su sé stesso. Solo questo bastò per fargli sputare sangue dalla bocca e dal naso. Mi guardava. E dal sguardo cercava di capire cosa avesse sbagliato, perché non si capacitava d’avermi trovato molto pià forte… o almeno credevo.

«Blup! Coff! Già che stupido, era una delle spiegazioni più ovvie! Sei cambiato da allora, anche se già allora non mi riuscivo a capacitare sul come non fossi morto. Eppure ti avevo tagliato una mano e adesso ti ritrovo che mi hai quasi battuto… eppure ci deve essere una spiegazione!» – Il cacciatore sputava sangue, mentre cercava di rimettersi in piedi. Mi fissava con sguardo vitreo, come se il solo calcio inflitto, quasi l’avesse lasciato stremato. Pochi altri attimi e sarebbe potuto anche morire. E invece no, era sempre in piedi, come se qualcosa lo spingesse a cercare delle risposte. Non mi feci nessuna domanda. Alzai il piede destro, mirando alla sua testa. Lui era stranamente stremato, anche se ancora in piedi. Si spostò indietro di qualche passo, lasciando cadere i tomahawk per terra: forse in segno di sconfitta precoce. Non si mosse nemmeno di un secondo da lì, ma il mio corpo sentiva che qualcosa non stava andando nel verso giusto e anche io non mi stavo sentendo del tutto bene.

«Credo possa bastare, Cuore Infuocato! Il tuo avversario ha sofferto abbastanza e credo che stia per avere una brutta morte. Fratture multiple: polmoni, sterno e torace… tutt’e tre sfondati e con varie fuoriuscite di sangue: praticamente è diventato il suo ossigeno. Non lo vorrai mica uccidere? Non è per questo che ti ho istruito!» – Intervenne Kaze, sempre così attento e sicuramente m’avrà fregato con qualche strana tecnica energetica a distanza. Era fin troppo serio, ma in fondo aveva ragione. E anche se era l’esecutore finale del duplice omicidio dei miei genitori adottivi, non mi sarei dovuto macchiare le mani del sangue di un razzista vigliacco: sicuramente m’avrebbe dato più informazioni da vivo. La mia espressione di diniego nell’ucciderlo fu recepita da entrambi i miei interlocutori, o almeno speravo, perché non mi sarebbe costato nulla, ma nemmeno nulla c’avrei guadagnato. E per il premio “miglior idiota della giornata”, l’unico candidato e vincitore Serpente a Sonagli, per il suo autolesionismo nel voler cercare ancora d’attaccarmi nonostante fosse evidente la mia superiorità e il sangue che ormai aveva cacciato dal suo corpo era superiore al litro e mezzo, per cui barcollava avanti e indietro. Non riuscendo a stare nemmeno fermo: in pratica, il suo corpo stava iniziando a collassare. E anche abbastanza velocemente.

«Tu non m’ucciderai e non farai un bel niente, sporco indiano! Devo soltanto riuscire a mantenere la calma e avanzare verso…» – Sembrò avere una spinta in più, stranamente. Come se sapesse cosa dovesse fare, o la falsa illusione di poter fare ancora qualcosa per portare la situazione a suo favore; qualsiasi fu la ragione, non ci stava riuscendo. Anche se l’intromissione di Kaze fu fondamentale per farmi ragionare. E per salvargli la vita. Nel frattempo, nel mentre il mio maestro cercava d’usare l’arte oratoria per cercare un’altra via per risolvere dei nostri problemi, ma il cacciatore decise di confermare il suo tentativo di ripresa del combattimento: e questo non mi piacque. Talmente la mia frustrazione era arrivata a livelli assurdi, che vedevo la mia pelle emettere dello strano fumo grigio e assumere un colorito verso il rosso. Non sapevo cosa stesse succedendo, ma esclusi la possibilità che il sangue avesse rotto anche i capillari della pelle, anche se mi sentii molto potente… più di quanto non mi sarei mai aspettato in quel momento. Stavo forse prendendo fuoco? Non ne avevo idea.

«… Non avresti dovuto!» – Dissi, mentre sentii il mio corpo bruciare, come se qualcosa volesse uscire da dentro di me. La rabbia o non seppi che altro, premeva per uscire. Gli occhi gonfi di sangue e rabbia, nel mentre il mio avversario riprese i tomahawk da terra e li alzò entrambi verso di me… tendando un doppio fendente verso il mio petto, ma nel reagire all’atto di presunzione diedi la schiena a Kaze e con il pugno destro lo sferrai vicino alla bocca del cacciatore… troppo idiota per ricordarsi cose che sono successe poco più di cinque minuti prima. Ma non lo colpii: non credevo fosse giusto togliere la vita a chi già è precaria. Rinunciai anche a visualizzare la sua espressione, sicuramente stranita per quello che era appena successo, ma per me non avrebbe più avuto importanza. Era già morto, ma ancora non lo sapeva: soprattutto per quello che sarebbe successo nel minuto successivo.

«La tua pelle stava prendendo fuoco, davvero. Ma che diavolo? E non tocca a te farlo fuori, Cuore Infuocato. Purtroppo dovrai essere l’invisibile fuoco di Prometeo, ossia colui che sarà incaricato di proteggere chi non può farlo: come i tuoi genitori adottivi, però la prossima volta sarai divenuto più forte di quando hai iniziato!» – Si voltò Kaze, estraendo la sua spada e si diresse verso il cacciatore; pochi passi e soltanto un fendente all’altezza dello stomaco: tanto bastò per farlo cedere, e crollare a terra, nella stessa posizione ove era.

«E così alla fine sono morto davvero… m’aspettavo di meglio, onestamente. Dimenticavo: l’uomo che ha fregato La Morte vi sta cercando!» – Tutto successe così in fretta, tanto che riuscii solamente a vedere – e a percepire – i movimenti del samurai. Sembrava essere tutto finito con una folata di vento. Ma non avevamo fatto i conti con il fato infame: diede la parola all’ormai defunto cacciatore per darmi una specie di messaggio e complicarmi ancora di più la giornata. Ovviamente, non potevo conoscere il soggetto citato dal morto che cammina, ma dall’espressione di rabbia espressa da Kaze avrei potuto persino presumere che lui sapesse molto più di quanto avrei immaginato. Insomma, il da farsi c’avrebbe atteso… in fin dei conti.

«Allora c’ha trovati, il bastardo. Sarebbe stato fin troppo casuale che un cacciatore s’aggirasse solo e soltanto per una foresta, invece che controllare tutte le altre presenti in Canada. E in effetti, sto incominciando a odiare anche io le coincidenze, ma adesso che mi ci fai pensare: dovremmo partire prima possibile… per il Giappone!» – Disse Kaze osservando l’ormai cadavere del cacciatore che giaceva al suolo, senza dire altre parole, ma la mia espressione era tutt’altro che felice. Stavo ancora ripensando a quello che era appena successo: avevo finalmente capito cos’era successo quel giorno, ma non sarebbe cambiato niente se fossi stato io il suo carnefice. Non sarebbe stato leale ucciderlo, perché tutti abbiamo bisogno di una seconda possibilità: basta saperla sfruttare. E non ebbi neanche il tempo per riuscire a onorare i miei genitori adottivi, che il fuoco della responsabilià dentro di me ardeva perché sapeva cosa avrei dovuto fare nel prossimo futuro: lasciarmi guidare dal vento per crescere sempre di più; infatti, nemmeno il tempo di finire la frase che raccolsi le provviste prese, le impacchettai con dei rami abbastanza flessibili e cercai di prepararmi mentalmente a ogni futura sfida. O almeno quella fu la mia intenzione.

 

   
 
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