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Autore: Panenutella    29/12/2016    1 recensioni
Sara Vitali è una che scappa: ha lasciato l'Italia, ha cambiato cognome e numero di telefono pur di sfuggire al suo stalker, e si è nascosta a Belfast nella speranza che lui non la trovi mai. Non si fida di nessuno e sente il disperato bisogno di sentirsi al sicuro, protetta e non più sola. E' in questo stato che una sera in un anonimo bar incontra Kit Harington, appena uscito dalla sua relazione con Rose Leslie e nel pieno delle riprese del Trono di Spade. Sara non pensa che da quell'incontro possa cambiare qualcosa, ma scoprirà presto di sbagliarsi.
Nota: il primo capitolo è identico alla prima parte della mia One-Shot "Two stories in the night". Se siete curiosi di leggere anche la seconda, fateci un salto! Grazie in anticipo a chi leggerà.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kit Harington, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Halo
 
I found a way to let you win
But I never really had a doubt.
Standing in the light of your halo
I’ve got mi angel now.
It’s like I’ve been awakened,
Every rule I had you break it,
It’s the risk that I’m taking,
I ain’t never gonna shut you out.
- Beyoncé.
 
 
***
Gry
 
Mi sembra di non essere più sulla Terra. Non con lo spirito, almeno.
È come se stessi vivendo dentro a un sogno, prima impotente di fermare la cascata di cose orrende che stavano capitando a mia figlia, ora di non godermi appieno la rinnovata speranza di non perderla.
Guardo Sara prendere in mano la penna che il dottor Vazhiri le sta porgendo e firmare in basso al foglio di carta sulla cartella clinica, come al rallentatore.
Come se non sapessi cosa c’è scritto su quel pezzo di carta.
Come se non sapessi che sta firmando per dare a Kamile un’altra possibilità, senza che nessuno glielo avesse chiesto.
Quando il dottor Vazhiri e Kris sono entrati insieme nella stanza di Kamile, avrei temuto il peggio se non fossi stata seduta proprio accanto al monitor del battito cardiaco.
“Gry, abbiamo trovato un donatore”.
Cinque, semplici parole in grado di far ripartire il cuore di una madre.
Ho chiesto di ripetere, per essere sicura di non aver capito male.
“C’è un donatore”.
Il dottore deve essere abituato a queste reazioni.
“Chi?”.
Kris mi ha guardato con la gioia negli occhi, ancora rossi di pianto.
“È Sara”, ha risposto.
Senza parole, la mia mente stanca cercava di ricordare esattamente di quale Sara stessimo parlando. La babysitter di Oslo? La parrucchiera? Sara Vitali?
Kris ha indicato fuori dalla stanza con un unico, semplice gesto.
Mi sono alzata dalla sedia sistemata accanto al letto e ho sbirciato fuori, sul corridoio, verso il banco delle infermiere del piano.
Ed eccola lì.
Gli scuri e lunghi capelli ramati sciolti sulle spalle, una felpa blu e verde con la zip chiusa sopra la giacca del pigiama, scarpe da ginnastica e un borsone, la testa china, intenta a scrivere firme svolazzanti su una pila di fogli che un’infermiera le porgeva.
Forse accortasi del mio sguardo, ha sollevato la testa dai fogli e mi ha guardato. Poi, con un sorriso, ha alzato una mano in segno di saluto, la penna ancora fra le dita.
E lì è cominciata la trance.
Non ricordo bene cosa sia successo dopo. Credo di aver pianto.
Ricordo molto bene il sorriso di Kamile quando le abbiamo detto che avrebbe ricevuto un fegato nuovo. Era un po’ di tempo che non sorrideva, non sinceramente almeno. Continuava a chiedere se stessimo scherzando.
Kris, in fibrillazione, ha fatto la spola tra il letto di nostra figlia e quello di Sara senza fermarsi nemmeno un secondo.
Hanno fatto indossare a Sara un camice verde semitrasparente, le hanno fatto le analisi del sangue, delle urine, e le hanno proibito di mangiare fino a domani. L’operazione è fissata per le prime luci dell’alba di dopodomani: occorre del tempo per preparare il fegato di Sara e quello di Kamile.
E ora sta firmando di accettare di fare l’intervento nonostante la lunga lista di complicazioni elencata nel foglio davanti a lei.
Restituisce la penna al dottor Vazhiri, che chiude la cartella e se ne va dopo avermi sorriso di sfuggita.
Sara guarda per l’ennesima volta lo schermo del cellulare.
- Non ha ancora richiamato – sospira.
- Sono quasi le due del mattino, starà dormendo di sicuro. – Le sorride Kris, visibilmente teso.
Skeeter, arrivata in ospedale insieme a Kris e Sara, torna dal bar dell’ospedale e si appoggia sbuffando allo stipite della porta.
- Nemmeno Richard risponde. Mi aveva detto che avrebbe lasciato il telefono acceso per tutto il tempo, in caso avessi avuto bisogno di lui.
- Odio i campeggi – commentano in sincrono.
- Il telefono di Kit non prende nemmeno. – Commenta Sara prima di stiracchiarsi e scostare le coperte. – Facciamo una passeggiata, Skeeter?
- Ma certo, prima che qualcuno mi cacci a pedate. – Sorride.
Sorrido, incapace di spiccicare parola, e torno a controllare Kamile.
 
***
Sara
 
Il sole sta sorgendo quando mi sveglio dal dormiveglia in cui ero caduta.
L’orologio del cellulare segna le 5.30 del mattino.
Fuori dalla porta della stanza i rumori del reparto non sono fastidiosi, ma comunque limpidi. Le infermiere che passano davanti alla porta parlando fra di loro a bassa voce, colpi di tosse dei degenti nelle altre stanze, un allarme che a un certo punto comincia a suonare.
Il telefono non registra chiamate perse, per cui decido di andare in oncologia pediatrica a fare visita a Kamile. Devo fare in fretta: non credo che alle infermiere farà piacere pescarmi a girovagare per i reparti, anche se teoricamente non ho nessuna malattia che mi costringa a letto. Credo che c’entri qualcosa col protocollo.
La stanza di Kamile, con le pareti verdi e decorate con sticker della Disney, è tranquilla. Gry sta dormendo su una poltrona reclinabile accanto al monitor cardiaco, Kris e Sibil sonnecchiano l’una tra le braccia dell’altro su un letto di cuscini sotto la finestra. Dal momento che stanno bombardando Kamile di immunodepressori in vista del trapianto, per diminuire il rischio di rigetto, i suoi familiari sono tutti bardati di camice verde, guanti, mascherine, sovrascarpe e cuffie igieniche per capelli verdi.
L’unica sveglia è proprio Kamile: sta sdraiata nel letto a leggere tranquillamente un fumetto in norvegese, una bandana a fiori annodata intorno alla testolina calva. Sulla sua pelle gialla di ittero spiccano le profonde occhiaie viola che le solcano il viso, e i tubicini sembrano fin troppo numerosi per quel piccolo corpo, come una piovra attorno a un pesciolino. Eppure, nonostante sia stanca e debole, sembra tranquilla. Quasi felice.
Afferro da un carrello poco lontano una mascherina, dei guanti e una rete per capelli e me li infilo in fretta. Poi apro la porta e infilo la testa nella stanza.
- Ciao, Kammi. – sussurro. Lei alza lo sguardo dal fumetto e mi sorride.
- Ciao, Sara – agita una manina, parlando a bassa voce per non svegliare i genitori e la sorellina.
- Come stai?
- Mamma dice che domani avrò un fegato nuovo!
- Sì, tesoro, ho sentito.
- E dopo non avrò più il cancro?
- Credo di no, Kammi. Guarirai completamente, te lo prometto.
Una parte di me mi sgrida per aver fatto una promessa che non sono sicura possa essere mantenuta, ma la metto a tacere.
- Ma come fanno a darmi un fegato nuovo?
- Te lo regala qualcuno.
Il suo viso si illumina. – Davveeero? E chi?
Alzo le spalle – Non saprei, tesoro.
Mi volto a guardare nel corridoio. Meglio che torni in camera.
- Devo andare, Kammi. – Agito una mano per salutarla e lei risponde con lo stesso gesto, prima di tornare a leggere il fumetto. Controlla di sottocchio il sonno dei genitori, poi si immerge nelle pagine.
 
Fuori dalla mia porta un’infermiera molto somigliante alla signorina Trinciabue* mi sta aspettando con le braccia conserte e lo sguardo truce, tamburellando un piede a terra.
- Tu non deve uscire da letto! – Sibila in inglese stentato.
- Mi scusi.
Filo sotto le coperte.
 
L’orario delle visite inizia alle otto in punto, in Islanda. Scoccata l’ora Skeeter, bellissima nella semplicità di leggins neri, maglione largo e rosso, capelli biondi sciolti sulle spalle e due ali di eyeliner, entra nella stanza con il mio laptop sotto braccio.
Varcata la soglia si guarda intorno.
- Ancora nessun segno di Kit? – Chiede in italiano col suo forte accento. Scuoto la testa. – Che tristezza… io propongo astinenza per un mese.
- Facciamo due.
Ridacchia. – Ti ho portato il computer e qualche vestito.
- Hai degli snack? Sto morendo di fame!
Scuote energeticamente la testa. – Non si può, almeno fino a domani.
- Nemmeno se facciamo a metà? O se ti noleggio Vacanze Romane e passiamo tutto il tempo a sparlare di Audrey Hepburn?
- No, nemmeno in quel caso.
Incrocio le braccia. – Sei incorruttibile.
- Anche io ti voglio bene! – Mi fa l’occhiolino.
Posa il computer sul tavolino davanti a me e io lo accendo, mentre Skeeter si siede con leggerezza ai piedi del mio letto.
- Toc toc!
Mi volto verso la porta, sperando sia Kit, ma Heida ci guarda entrambe con un largo sorriso.
- Ciao Sara! Come stai?
Heida è la mia assistente costumista della troupe islandese. Ha la pelle diafana, corti capelli castani e un bel paio di occhi verde bottiglia. La corporatura curvilinea non stona per niente col viso, ma la sua intelligenza e il suo forte carattere sono in grado di far stare chiunque al proprio posto, soprattutto gli uomini. Il suo sogno è creare una collezione di abiti di alta moda. A causa dei pochi interessi che abbiamo in comune abbiamo passato poco tempo assieme al di fuori del set, ma per quanto riguarda i rapporti di lavoro siamo davvero amichevoli e tolleranti l’una con l’altra.
- Ciao, Heida. Tutto a posto. Skeeter si diverte a fare l’aguzzino e non darmi nulla da mangiare.
- Ordini dell’ospedale, non si mangia nulla fino all’operazione. – Si difende.
- E anche oltre – aggiungo.
Heida sorride un po’ a disagio, poi aggiunge: - Sono solo venuta a vedere come stavi e se avevi bisogno di qualcosa.
- Tutto a posto. Grazie, Heida.
- A parte il fatto che i nostri uomini non si fanno vedere né sentire quando abbiamo più bisogno di loro…
- Mi dispiace, sono partito appena ho sentito il messaggio e il cellulare si è scaricato.
La voce di Kit arriva trafelata dalla porta facendoci sobbalzare tutte insieme. Heida si volta verso di lui e, istintivamente, fa un passo indietro coprendosi la bocca prima di scoppiare a ridere.
I capelli di solito perfetti di Kit sono sparati per aria e pieni di polvere, il viso è ricoperto di terra e la costosa felpa che aveva portato con sé in campeggio porta un lungo strappo a livello del polpaccio.
Sembra tornato dal Kosovo, non dal campeggio. Sulle sue spalle sta un grosso zaino sporco almeno quanto lui.
- Santo cielo! – Esclama Skeeter. – Sei sicuro di non essere andato in guerra?
Kit le lancia un’occhiata piena di sofferenza.
- Non sono fatto per certe cose – spiega sbrigativo posando lo zaino a terra per poi dirigersi verso di me e prendermi le mani fra le sue sedendosi sul letto. – Posso sapere cos’è successo? Perché sei qui? Stai male?
- No, non sto male – sorrido. – Te l’ho detto, ho solo trovato il modo di far star bene Kamile.
- Cioè?
- Oh beh, è semplice: Sara donerà il fegato a Kamile! – Spiega Skeeter in un eccesso di entusiasmo. Heida sembra voler essere da qualsiasi altra parte in questo momento, ma non qui.
Kit sembra pietrificato ed è sbiancato di colpo. Si volta di nuovo verso di me con due occhi grandi così, tanto che mi sembra di scorgere nelle sue pupille la lancetta dell’ora in cui comincerà a dare seriamente di matto.
Ma non dice niente, come mai?
- Kit, stai bene?
Adesso sviene.
Gli afferro il viso fra le mani.
- NON pensare alle siringhe, Harington. NON PENSARE AL BISTURI.
- Ora vomita. – Commenta Skeeter.
- E tu hai avuto il tatto di un elefante – mormora Heida. Nemmeno Skeeter le va a genio.
Passa un secondo in cui Kit non dice assolutamente niente, Skeeter lo osserva in ansia e Heida cerca il momento migliore per fuggire. Improvvisamente la voce di Richard esplode nel corridoio come una bomba, carica di entusiasmo.
- Cavolo, trovare parcheggio è stato come un incontro di lotta libera! - Infila la testa in camera: lui non è meno sporco di Kit. – Ehilà, Sara! Ciao, amore! – Guarda Skeeter con due occhi grossi così.
Lei gli si butta tra le braccia e lo bacia appassionatamente, tra lo scandalo di Heida e la totale indifferenza da parte di Kit. Lo scuoto per ottenere risposta, agitandogli una mano davanti agli occhi.
- Quante dita sono queste?
Invece di rispondere le ingloba nella sua mano.
- Stai veramente per fare un gesto simile? – Mormora.
- Hai dubbi? Non sarei qui se fosse altrimenti.
Sospira e mi mette una mano dietro la nuca. – Oh, Fawny…
- Non è molto pericoloso. E a Kamile serve un fegato.
- È pericoloso. È un’operazione, cavolo. So che a Kamile serve, ma… - il suo viso sembra aver ripreso colore. – Vado a parlare con un medico. Devo sapere tutto su questo intervento. Quali sono i rischi, soprattutto.
- Kit, posso spiegarteli io…
- No. So che minimizzeresti per farmi star tranquillo. – Si alza in piedi, poi mi guarda con tenerezza e si china a baciarmi. – Sei davvero generosa, Fawny. Sei fantastica.
Esce frettolosamente dalla stanza, posando una mano sulla spalla di Richard mentre passa dietro di lui.
Richard, dal canto suo, mi guarda ancora col sorriso sulle labbra.
- Eh allora, andiamo sotto i ferri domani eh? – Si avvicina e mi abbraccia. Puzza di cenere. – Brava, piccola. – Sussurra nel mio orecchio.
- Sara, quanto vuoi che si sappia in giro nella troupe da 1 a 10? – Domanda Heida dall’angolo più remoto della camera, guardando il cellulare.
- Zero. Meno gente lo sa, meno mi staranno addosso.
- Troppo tardi, zuccherino – ribatte. – La notizia si è già sparsa.
Mi batto una mano sulla fronte.
- Fanstastico…
 
Skeeter e Richard sono rimasti fino all’ora di pranzo a far chiasso e raccontarci del campeggio. Kit è seduto accanto a me con l’aria preoccupata: i dottori non gli sono mai piaciuti, e men che meno i chirurghi. Ha parlato col dottor Vazhiri e col chirurgo generale che presenzierà con lui all’espianto, e le parole “emorragia”, “lunga incisione” e “complicanze pericolose” gli sono rimaste visibilmente inchiodate in testa. Si sono aggiunti anche Kris e Sibil, che sta seduta in un angolo a disegnare coi pastelli. Sembra più un pranzo di Natale in famiglia che le ore immediatamente precedenti a un’operazione importante.
Io sono sul blog a controllare la situazione, e a parte un utente dal nickname Atlanta che ha postato la propria storia e commentato sotto la mia rimangono soltanto le 2500 visualizzazioni dell’ultimo mese. Il blog non è ancora molto conosciuto, ma la storia di Atlanta è molto simile alla mia: io però mi sono ripresa in qualche modo, con l’aiuto di Kit e dei miei amici, lei invece è ancora nell’oscurità.
Posto un commento sotto la sua storia, facendole sapere che capisco come si sente e rassicurandola che non è sola.
Non so quanto sarà utile, ma ai tempi avrei voluto che qualcuno me lo dicesse.
Un’infermiera entra in camera e annuncia che l’orario delle visite è terminato, spingendo tutti a uscire.
Vedo Kit aprire la bocca per dire qualcosa per restare con me, ma lo fermo posandogli una mano sul braccio.
- Hai bisogno di una doccia e di riposare: torna in albergo, fatti una doccia, rilassati. Non puoi rimanere a lungo l’Uomo del Fango… Io ti aspetterò qui.
Si volta per protestare, ma una mia occhiata gli fa cambiare idea. Mi prende per mano.
- Ti scrivo appena arrivo in albergo, ok?
- Ok.
Ci baciamo di nuovo, poi esce dalla camera insieme agli altri.
 
***
Kit
 
L’orario serale delle visite scatta alle sette.
Il sole è già calato da molto tempo quando, alle cinque e mezza, mi presento in ospedale incapace di stare ancora lontano da Sara.
All’accettazione un’infermiera cerca di placcarmi, dicendomi che soltanto la famiglia è autorizzata a rimanere in ospedale fuori dall’orario di visita. È caparbia, la signora.
Che le dico? Sono un cugino. No, non va bene. Un fratello? …mi chiederebbe la carta d’identità. Cavolo, ma perché in ospedale uno deve per forza essere imparentato per stare insieme alla persona che ama? Le relazioni amorose non sono contemplate?
- Siamo fidanzati e fra qualche mese ci sposeremo – Sbotto alla fine, stufo. L’infermiera mi guarda sorpresa, poi ribatte:
- Pensavo che lei e Rose Leslie foste fidanzati.
- Beh si sbaglia, signorina. Ora, se vuole scusarmi, la mia fidanzata mi sta aspettando in camera.
- Aspetti un secondo… - posa una mano sul mio braccio. – Se lei e la paziente siete fidanzati, come mai lei non ha un anello?
- Ha mai visto un uomo non ancora sposato con la fede di fidanzamento?
Sembra interdetta. – In Islanda si usa.
Sto cominciando a scaldarmi. - Si dà il caso che io non sia islandese ma inglese. Vogliamo star qui a parlare della mia vita privata ancora per molto?
Balbetta per un momento, stupita e imbarazzata. Poi gira sui tacchi e mi accompagna dalla stanza, rimanendo a curiosare sulla porta mentre entro.
- Ciao, amore mio! Come stai? Io ho riportato il tuo anello di fidanzamento in albergo, come mi avevi chiesto. Posso fare altro per te, per la cerimonia?
Sara alza lo sguardo dallo schermo del computer sul tavolo davanti a sé e mi guarda come se fossi impazzito, ma prima che possa dire qualcosa le tappo la bocca con un bacio. L’infermiera sta ancora guardando, è irritante.
- Reggimi il gioco. – Le sussurro nell’orecchio.
- Ciao, tesoro! – Risponde lei allegra, cogliendo al volo la situazione. – Una noia mortale! Non mi fanno mangiare niente e ho una fame da lupi… Hai fatto bene, non voglio che l’anello rimanga qui incustodito! E ha chiamato la boutique dell’abito a Los Angeles, dicono che vogliono fissare una prova per dicembre. – Sorride gioiosa.
Con la coda dell’occhio vedo l’infermiera andarsene lentamente, quasi controvoglia, dopo aver gettato su di noi un’ultima occhiata curiosa e con le orecchie talmente tese da ricordare il microfono a parabola degli agenti segreti di un tempo.
Anche Sara la sta osservando, e quando alla fine se n’è andata, ridacchia e mi tira un coppino.
- Che ti è saltato in mente?
- Non volevano farmi entrare!
- Potevi dire di essere mio cugino, o qualche fratello sconosciuto!
- Mi avrebbe chiesto i documenti… - “Ci avevo fatto un pensierino, a dir la verità”.
- Quanto scommetti che adesso va a spifferare tutto quanto? Le hai dato lo scoop del secolo!
- Scoop falso, no? Almeno sono riuscito a eludere gli orari di visita.
- Sì, ma a quale prezzo…
Faccio spallucce. – È la mia parola contro la sua… tempo un mese e questa storia sarà dimenticata.
- Ti costava tanto aspettare altre due ore?
- Sì. Moltissimo.
Sorride intenerita. Sotto la corazza lo vedo che è contenta, anche se me ne sta dicendo di tutti i colori.
Si avvicina e mi bacia con tenerezza. È uno di quei baci avvolgenti che ti scaldano dentro. Quando si allontana, per me è durato fin troppo poco.
- Che stavi facendo prima che io entrassi? – Domando sedendomi accanto a lei.
- Guardavo “Via col Vento”. L’hai mai visto? È un capolavoro. – Risponde facendomi posto.
- È uno dei film preferiti da mia madre.
Sorrido alla vista di Rossella O’Hara, interpretata dalla bellissima Vivien Leigh, fronteggiare un nordista e sparargli in fronte, uccidendolo. Melania Hamilton, il personaggio di Olivia de Havilland, le corre incontro con la spada del fratello caduto in battaglia.
Sono cresciuto guardando questo film, e Rossella è stata la prima donna, seppur immaginaria, che io abbia francamente ammirato – esclusa mia madre. Il carattere di ferro che si nasconde dietro al suo viso di giovane e dolce donna del sud, ammaliante e tentatrice, e la sua incredibile forza di volontà e caparbietà a continuare ad andare avanti sono ciò che più amo in lei, sia nel libro che nel film.
- Anche a me piace moltissimo – mormora intrecciando le dita con le mie.
Sara sta guardando il film in italiano, ma non è un problema: conosco a memoria tutte le battute e le recito nella mente insieme ai personaggi.
- Possiamo ricominciare dall’inizio, se vuoi. A me non dispiace – propone, nonostante siano passate quasi tre ore di film dalla prima scena.
- Se davvero non è un problema, mi farebbe molto piacere. Ci aiuterà a passare il tempo!
Muove il cursore del computer sulla barra di visualizzazione e lo riporta dall’inizio, poi mi offre la cuffietta che non porta alle orecchie.
“Oseresti dire, Mrs. Rossella O’Hara, che la terra non conta nulla per te? Ma se è la sola cosa per cui vale la pena di lavorare, di lottare, di morire! Perché è la sola cosa che duri!”. Esclama Gerald O’Hara puntando un dito contro alla figlia.
“Oh, parli come un irlandese!”, si lamenta Rossella.
“E sono molto fiero di esserlo! E non dimenticare, cara, che per metà lo sei anche tu: e chiunque abbia una sola goccia di sangue irlandese ama la terra come la propria madre. Ma per adesso sei troppo giovane, l’amore per la terra ti verrà col tempo: è fatale, quando si è nati irlandesi!”.
L’overture di Max Steiner suona mentre i due personaggi si ergono abbracciati sotto un grande albero, neri contro il rosso del sole al tramonto, e la piantagione di Tara sullo sfondo.**
Roba da far venire i brividi.
In questo momento è tutto perfetto, e per un po’ dimentico dell’operazione che sta per affrontare.
 
Alle undici meno un quarto di sera, finite le visite dei nostri amici, sono fuori dall’ospedale a mangiare un panino e fumarmi una sigaretta quando, sopra le luci dei lampioni, un lampo verde e ondulato solca il cielo. Poi un altro, più lungo e ondulato, che sfuma dal verde al viola. E un altro. E un altro ancora.
Oh mio Dio.
L’Aurora Boreale!
Spengo la sigaretta e la getto via insieme al resto del panino, tornando di corsa dentro l’ospedale.
- Sara! Sara!! – Grido entrando nella camera, togliendomi il cappotto e buttandoglielo sul letto. Lei si strofina gli occhi.
- Kit, mi ero appena addormentata! – Si lamenta con un sonoro sbadiglio.
- Dai, infila il cappotto! Saliamo sul tetto!
- Eh?
- Andiamo, sbrigati!
Le afferro la mano e la trascino giù dal letto, poi su per le scale dell’ospedale e infine sul tetto. Lei continua a corrermi indietro lanciandomi ogni tipo di impropero finché, una volta fuori sul tetto, non guarda il cielo.
Con un’espressione di sorpresa e gli occhi scintillanti si stringe nel cappotto e si appoggia a me. La abbraccio, e guardiamo insieme l’Aurora. I bagliori verdi, gialli e viola si riflettono nei suoi occhi carichi di stupore e il sorriso sulle sue labbra non accenna a spegnersi.
Avevo già vissuto questo momento con Rose diciotto mesi fa, ma non così intenso. Guardo l’immensa gioia sul suo volto, mi ricordo cosa sta per affrontare volontariamente… e capisco che non ho mai, mai provato un sentimento così forte verso qualcun altro. Lo sapevo già, ma solo empiricamente: ora riesco a toccare con mano questo sentimento.
- La cosa che stai per fare… - le sussurro nell’orecchio. – È il gesto più coraggioso che io abbia mai visto.
La sua mano cerca la mia e la stringe in tutta risposta.
- Kit… ti ricordi quando ho trovato te e Rose mezzi nudi, in albergo?
- Come potrei dimenticarlo…
- Tu mi hai detto di essere innamorato di me, e io non ti ho risposto.
- Fawny, te l’ho già detto, non devi sentirti in obbl…
- Ti amo, Kit.
Si è voltata verso di me con lo sguardo serio. Sopra di noi l’Aurora continua a brillare.
Ammutolisco, colpito dalla forza di quelle tre semplici parole che mi rimbombano in testa mettendo a tacere tutto il resto.
Dio mi perdoni, quanto ho aspettato questo momento?
Mi avvolge la vita.
- Quando ci siamo incontrati pensavo di essere da sola al mondo. Niente amici, niente lavoro, niente famiglia, i miei genitori soltanto un punto di riferimento sbiadito. Vivevo nel buio e nella paura. Pensavo di non poter tornare a essere felice come lo ero prima di Matteo. E poi sei arrivato tu.
- Fawny… - Mi tappa la bocca.
- Avevo delle regole, Kit: stai da sola, non fidarti di nessuno, non farti notare e nessuno ti farà male. Rimpiangi la tua vecchia vita, scappa via, e non sarai mai in pericolo. E tu le hai distrutte tutte: mi hai portato a casa tua, mi hai fatto avere un lavoro, mi hai portato dai tuoi amici e mi hai fatto trovare la mia seconda famiglia. Forse alla fine ce l’avrei fatta anche da sola, non posso saperlo, ma so per certo una cosa: niente di questo avrebbe senso se non ci fossi tu al mio fianco.
Se questo è un sogno, per favore nessuno mi svegli.
Lei è in attesa, e vedo nei suoi che una parte di lei ha paura che io la respinga.
Che idea stupida.
Le prendo il viso fra le mani gelide e le bacio la punta del naso, poi la bocca.
- Anche io ti amo, Fawny.
Sorride, le nostre labbra impercettibilmente separate.
 
Molte ore dopo sono ancora incredulo sulle parole di Sara, ma la preoccupazione per lei prevale.
Lei e Kamile sono nelle sale operatorie da più di quattro ore, e per me, Gry e Kris l’attesa interminabile si sta facendo insostenibile.
Seduti sulle panche della sala d’attesa non diciamo niente. Ognuno tiene i suoi pensieri per sé, e si è creata così intorno a noi un’atmosfera di inquieto silenzio.
Ho provato a leggere un libro, a scrivere qualcosa, a giocare a Angry Birds, ma niente basta a distrarmi. Nemmeno la voglia di fumare quattrocento sigarette una dietro l’altra.
Sul cellulare di Sara e sul mio continuano ad arrivare messaggi dei nostri amici, di stupore e felicità per la donazione. Ho chiamato i miei genitori e parlato con mia madre della situazione, e lei si è definita ansiosa di conoscere Sara. Desidera farci visita non appena saremo tornati a Londra, tra più o meno una settimana, il giorno dopo le dimissioni di Fawny e Kamile dall’ospedale.
Il telefono di Sara squilla per l’ennesima volta, ma stavolta è qualcuno che non conosco.
“Pinna”.
Che sia l’amico di cui mi ha tanto parlato? Quello gay?
Muoio dalla voglia di parlarci.
“E probabilmente non sa niente del trapianto”, mi ricorda una vocina nella testa.
Rispondo.
- Chi parla? – Dice un’interdetta voce grave.
- Sono Kit.
Scoppia a ridere. – Oh, mio Dio, sto parlando con Kit Harington! Vuoi farmi prendere un infarto?
- Tu sei Pinna, l’amico di Sara?
- Ci puoi giurare, amico! Sono quello che ti sfascia le budella se la fai soffrire! Hai letto il mio biglietto?
- Certo. L’ho trovato molto conciso.
Ride ancora. – Scusa i miei pessimi modi, ma non mi aspettavo di parlare con te! A dirtela tutta non ero del tutto sicuro che Sara non stesse raccontando balle, quando parlava di te. Scherzo, ovviamente!
- Ti posso assicurare che sono vivo.
- Non stento a crederci! Senti, Kit… mi passeresti Sara? Devo dirle una cosa importante.
- Mi dispiace, Pinna, ma Sara in questo momento sta subendo un’operazione.
- Un’operazione? – Si fa allarmato. – Che operazione? Sta male?
- No, non sta male. Sta donando il fegato a una bambina.
- … Mi stai prendendo in giro?
- Fidati, non scherzerei mai sulla salute di Sara.
Una pausa. – Prendo immediatamente l’aereo.
- Non siamo a Londra. Siamo in Islanda.
- Quando tornerete in Inghilterra?
- Tra qualche giorno. A dire il vero… credo che per lei sarebbe una grande sorpresa trovarti a Londra, e se tu rimanessi qualche giorno con lei a casa mia potresti aiutarla durante la convalescenza. Purtroppo il mio agente e l’HBO mi hanno programmato una serie di eventi promozionali della serie a cui non posso sottrarmi, e mi detesterei se rimanesse da sola tutto quel tempo.
- Kit, fammi sapere quando sarete a Londra. Mi staccherò dal lavoro e mi farò trovare lì. Tanto… ho proprio bisogno di cambiare aria.
- Ti ringrazio, Pinna. Non vedo l’ora di conoscerti.
- Oh, mio Dio! – E scoppia in un’altra risata isterica, prima di chiudere la chiamata.
 
Dopo altre due ore, Kamile e Sara escono dalla sala operatoria e vengono riportate in camera. Il dottor Vazhiri assicura che la bambina si riprenderà completamente, e Gry e Kris scoppiano di gioia.
Mi precipito nella stanza di Sara, che è ancora addormentata. Sono presente mentre un infermiera le  cambia il bendaggio all’addome: una lunga ferita piena di punti le scorre al di sotto del diaframma, tanto lunga da fare impressione. L’infermiera la cosparge di un liquido rosso, poi la benda di nuovo. Sara sembra non dare segni di risveglio.
- È normale che ci metta un po’ a riaprire gli occhi, non si spaventi signor Harington. – Mi informa il dottor Vazhiri. – Il fegato era perfetto.
Gli lancio un’occhiata di sbieco. Poi, seduto accanto alla mia Fawny, le prendo una mano e aspetto.
 
*La signorina Trinciabue è la perfida e terrificante direttrice del collegio di Matilda, dal libro “Matilda sei mitica” di Roald Dahl.
***Da “Via col Vento”, film di Victor Fleming con Vivien Leigh, Clark Gable e Olivia de Havillard, 1939, tratto dal libro
 “Via col Vento” di Margaret Mitchell.
   
 
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