♣ Sangue e Neve ♣
La
notte ormai giunta, con il suo mantello scuro aveva avvolto la città già da
qualche ora. Il buio e l’oscurità entravano in netto conflitto con la purezza
del manto bianco, che riposa placido sui tetti delle case, ricopre i
marciapiedi, le strade deserte e l’intero paesaggio circostante. Alla fioca
luce dei lampioni svolazzano i piccoli fiocchi che imperterriti continuano la
loro discesa, rendendo ancor più faticosa la mia andatura. Gli alberi privi di
foglie sembrano spose nel loro giorno più bello, con il velo candido e i rami
appesantiti dalla neve, inclinati come segno di saluto.
Avvolto
nel pesante cappotto in cui ho saggiamente nascosto le mani, svolto l’angolo
vedendo in fondo alla distesa delicata una struttura diroccata. L’unico essere
vivente oltre al sottoscritto in questa strada, mi osserva con sguardo
tracotante. I miei occhi cesii glaciali fronteggiano egregiamente quelli
dell’individuo che li abbassa sconfitto. Non rimpiango di essere diventato una
persona apatica e imperturbabile, i sentimenti feriscono, ti corrodono l’anima
se non li esterni, giungono a divorarti. Proprio per questo il giorno di Natale
tendo a passarlo a netta distanza dall’ipocrisia che regna sovrana, dai sorrisi
di circostanza e benevolenza arrivista. Oggi invece mi tocca andare proprio a
festeggiarlo.
Il
batacchio d’ottone di forma antropomorfa, illuminato dalle due lanterne
all’entrata, assume un aspetto sinistro e inquietante. Al contrario, il legno
rovinato della porta fa presumere una sua imminente caduta. Fisso con intensità
il gran portone, senza però decidermi a bussare. Passo nervosamente la mano fra
i capelli color fuoco osservando la muratura dell’ex monastero barocco: mattoni
color rosso sangue interrotti da grate in ferro battuto. Un posticino proprio
allegro a prima vista. Sospirando per l’ennesima volta seccato, decido di
battere tre colpi sul portone che cigola ad ogni tocco.
Una
bambina dai capelli color ebano apre un piccolo spiraglio cauta, scrutandomi
con diffidenza.
“Zio
Alexandre!” esclama euforica appena mi riconosce e spalanca l’entrata
rabbrividendo per l’improvvisa folata gelida che la investe.
“Alexis,
è arrivato! Te lo avevo detto che sarebbe venuto!” continua a trillare allegra
correndo verso qualche luogo dell’edificio lasciandomi basito ad osservarla.
L’ultima volta che ero stato qui le avevo strappato il diario in cui aveva
scritto e disegnato la futura famiglia dei suoi sogni. Ero andato via
lasciandola in lacrime, il suo pianto aveva un suono fin troppo familiare. Mi ero sentito come quelle belve che mi hanno strappato via ogni
piccolo attimo dell’infanzia.
Tuttora
non capisco come mai queste piccole pesti mi adorino tanto, non ho mai rivolto
loro confidenza, sorrisi, carezze, eppure continuavano ad esultare ogni rara
volta che arrivo.
Percorro
il lungo corridoio affrescato che in passato aveva sicuramente visto tempi
migliori, giungendo nel refettorio. Una ventina di bambini schiamazzano allegri
correndo in tutte le direzioni, evitando accuratamente di travolgere l’albero
addobbato al centro della stanza.
“Alla
fine lo hai accettato il mio invito. Non ci vediamo e sentiamo da un anno, per
quanto ne sapevo potevi essere anche sotto tre metri di terra.” Il tono sconsolato
di quelle parole appartiene ad Alexis a due passi da me con indosso un
grembiule che sembra aver affrontato la rivoluzione russa e i capelli castani
arruffati.
“Ciao
Demidova” rispondo gelido voltandomi nella sua direzione. “Non mostrare mai le tue debolezze, la gentilezza non esiste. Chi lo è
nei tuoi confronti vorrà sempre qualcosa in cambio.” Parole che pensavo di
aver ormai segregato in un meandro oscuro della mente, prepotentemente tornano
a farsi sentire.
“Ora
siamo passati addirittura al cognome? Dovrei essere io quella astiosa non tu!
Non provare a rovinarci il Natale se sei venuto per questo.” Sdegnata, Alexis
lanciandomi un’ultima occhiata di fuoco con i suoi occhi ramati, torna a
dedicarsi agli scalmanati che hanno iniziato a tirarsi contro i primi oggetti
che capitano loro sottomano.
Mi
appoggio alla parete in un angolo remoto della sala a braccia conserte, all’apparenza
imperturbabile come al solito, ciò non si può dire per la mia mente che lavora
come un’auto in corsa. Due anni fa nonostante i vari ostacoli burocratici ed
economici Alexis era riuscita ad aprire quell’orfanotrofio. Aveva cercato la
sua vicinanza e il suo appoggio, ma lui dopo le continue insistenze era
totalmente scomparso. Si era comportato da codardo. “Aiuti sempre gli altri, qualcuno ha mai aiutato te?” Quei brandelli
di discorso che facevano la loro comparsa nei momenti meno opportuni. Aveva
gettato al vento come se fossero insignificanti sbuffi di fumo, anni di sopravvivenza insieme.
Ricordo
perfettamente cosa abbiamo passato, ogni singola cicatrice sul mio corpo tende
a ribadirlo costantemente ogni qual volta osservo il mio riflesso o muovo un
semplice muscolo. Un ammasso di carne maciullata priva di emozioni, ecco cosa sono.
Non posso aiutarla a donare speranza, il significato di tale parola ha smesso
di esistere nella mia essenza.
“Mi
raccomando, la cena è quasi pronta! Non combinate disastri altrimenti Babbo
Natale non verrà!” Un coro unisono di sì pervade la stanza in segno di risposta
mentre Alexis si dirige nuovamente verso la cucina. Nel momento esatto in cui
sparisce dalla mia visuale, la ragazzina mora scatta in piedi come una molla e
si avvicina trotterellando allegramente nella mia direzione.
“Zio,
zio! Ci leggi una storia?” esclama allegra agitando un libro di fiabe e
gesticolando sprona anche gli altri ad insistere. Un futuro per il controllo
delle masse ha questa bimbetta.
“No,
e non sono tuo zio.” Ribatto allontanandomi da lei, ho bisogno di una boccata
d’aria. L’espressività di quegli occhi azzurri la riconosco fin troppo bene,
l’ho rivista centinaia di volte nella mia foto da schiavo. Le foto identificative della carne da macello.
“Non
andare via!” impaurita mi si piazza davanti spalancando le braccia, “Alexis poi
si arrabbierà con noi!”. Immagino stia
soppesando bene le parole poiché aggiunge quasi sottovoce “Non volevamo vederti
da solo in un angolo, è Natale”.
Un
ricordo lontano arriva prepotente offuscando la mia visuale. “È Natale! Perché dobbiamo rimanere
segregati come topi in gabbia? Abbiamo il diritto di giocare come i bambini che
abbiamo incontrato!” Il mio urlo rimbomba in quei sotterranei. La gola brucia
cosi come gli occhi ma in risposta ottengo solo un sogghigno sarcastico. Mi
avvento stringendo con foga le sbarre di ferro arrugginite. Piccoli taglietti
si aprono sulle mani, goccioline dense e scure cadono sulle gelide pietre.
Spalancano il portone accanto la cella e l’aria tagliente ci investe, la neve
si infiltra ovunque in quello spazio angusto. Scivolo in terra distrutto, le
mani che gocciolano imbrattano la superficie spolverata di bianco. Due esili
braccia mi circondano alle spalle e una massa di capelli castani oscura la mia
visuale.
Sbatto
due volte le palpebre per riprendere il completo possesso del mio corpo. L’aria
non affluisce più regolarmente, mi sento soffocare e le insistenze di Natalya
hanno solo il risultato di farmi innervosire.
“No.
Corri via in lacrime anche stavolta, non ho voglia di perdere tempo con degli
esseri d’infimo livello”. La cattiveria pura è intrisa in quelle parole, rabbia
che non dovevo riversare su di lei.
Non
si muove, rimane imbambolata a fissarmi con gli enormi occhi cerulei sgranati.
Sorride. Sta sorridendo? Non è una smorfia, è sincero. Le si illuminano gli
occhi.
“Corro
via per scappare dai cattivi, non da chi fa finta di essere cattivo” mi
risponde pacata e approfittando del mio stato sbigottito mi prende la mano. Una
piccola manina calda che avvolge delle dita gelide come cubetti di ghiaccio.
Un
leggero tepore si propaga dalla mano fin sul resto del braccio, travolge come
se fosse lava incandescente sulla neve. Il respiro mi torna regolare così come
i battiti del cuore che prima volevano squarciarmi il petto.
Mi
accomodo con lei sotto l’albero e numerosi occhietti vispi mi fissano in attesa
che cominci a leggere. Io, persona taciturna, provo una miriade di sensazioni
differenti in quello che sto facendo. Stento a credere al fiume di parole che
esce dalla mia bocca, non saranno mie ma non ho mai parlato così tanto. Ogni
tanto osservo i volti dei miei ascoltatori e loro sono lì attentissimi a non
perdersi neanche la minima sillaba. Erano anni che non facevo qualcosa se non
per me stesso, mi sento appagato. Natalya si è ormai rannicchiata sulle mie
gambe e lotta contro morfeo per non addormentarsi. Prima insiste per sentire la
fiaba e poi si addormenta. Al termine della mia lettura un applauso arriva alle
mie spalle. Alexis ha gli occhi lucidi e mi guarda come se mi vedesse per la
prima volta.
“Bambini
a tavola su, iniziate pure a mangiare, io e lo zio andiamo un attimo fuori.”
Così dicendo mi trascina sul retro della struttura dove il giardino è
totalmente immacolato senza alcuna impronta.
“Sai,
sono felice di aver rivisto l’Alexander che conoscevo.” Esordisce dopo attimi
di silenzio osservando il cielo in cui le nuvole diradandosi hanno lasciato
intravedere le stelle.
“Quello
che conoscevi tu non esiste più.” Purtroppo è così, il vecchio Alexander è
morto molti anni fa. Lei non mi risponde si incammina nello spiazzo immacolato
affondando nei primi solchi da lei stessa creati. Mi siedo sulle pietre sotto
il portico miracolosamente prive di neve e osservo il respiro diventare vapore
acqueo appena uscito dalla mia bocca. Un’improvvisa botta sulla spalla mi fa
oscillare e sento i cristalli di ghiaccio infiltrarsi sotto la sciarpa e
scivolare lungo il collo. Mi volto verso la colpevole e lei beata ride con la sua
risata cristallina, ha ancora le mani piene di neve, pronte a colpire
nuovamente. “Dici che non esiste? Saprò se lui vive ancora o è morto e sepolto,
fai la tua mossa” un ghigno di sfida le solca le labbra screpolate dal freddo
mentre corre a ripararsi dietro un albero. Vuole la guerra? E guerra sia.
Mi
alzo di scatto correndo nel mezzo del giardino e raccogliendo un po’ di neve
lancio la prima, di una lunga serie di palle che a volte fanno centro e altre
no, ma non importa. Lei ride, con una spontaneità e felicità che non vedevo da
troppo tempo. Stanco di giocare al gatto con il topo, le arrivo alle spalle
sollevandola per i fianchi, in tutta risposta lei si dimena scalciando con le
gambe facendomi perdere l’equilibrio. Ora siamo qui entrambi distesi nella neve
che oltrepassa i pensanti abiti invernali inzuppandoci, ma non ho freddo io sto
ridendo con lei. La mia risata è rauca, ha un suono grottesco, la mia gola non
è più abituata neanche a ridere. Dopo essersi calmata si volta osservandomi “Ho
vinto. Lui esiste ancora, qui” poggia la mano sul mio petto all’altezza del
cuore continuando a parlare. “So cosa hai passato, non ho dimenticato nulla
nemmeno io. Ricordo perfettamente quando ci incatenavano l’un l’altro per venderci
come bestie per giorni lavorativi. Le violenze subite, le continue torture,
sono incancellabili. Soprattutto non ho rimosso te!”
Il
tono finale delle sue parole è intriso di una dolcezza piacevole, il suo
respiro caldo mi accarezza le gote. Giro la testa verso destra affondando il
viso nella gelida neve, sento il sangue affluire troppo velocemente verso le
mie guance. Il rosso dell’imbarazzo contro il pallore della mia pelle, rosso e
bianco, come il sangue versato sulla neve durante la mia vita.
Lei
imperterrita continua a parlare tornando a distendersi in modo da guardarmi
negli occhi, l’azzurro glaciale come iceberg dei miei contro l’ambrato caldo dei
suoi, paragonabile ai primi raggi del sole che seguono il crepuscolo.
“Devo
ringraziare te se io sono ancora qui a lottare, avevi una luce negli occhi che
noi avevamo perso, quella della speranza in un futuro migliore. Non ti facevi
plagiare da loro, rovinavi i loro piani con la tua impertinenza, infondevi
coraggio a tutti. Vederti dopo anni come la brutta copia di te stesso, fa male.
Non sono riuscita a ricambiare tutta la forza che tu in precedenza mi hai dato.
Finendo per farti logorare dall’interno.” Abbassa lo sguardo accarezzando con tocco
sinuoso e delicato la mia mano e rimaniamo in silenzio. Può sembrare surreale
ma ascoltando il silenzio si può apprendere da esso, durante quel momento non
si emette mai lo stesso rumore.
“Io
adesso sto bene” esordisco ad un tratto dopo lunghi momenti di riflessione.
Sembra strano anche a me, ma riesco a percepire quella agognata felicità dell’uomo
decantata da poeti e scrittori. La mia felicità equivale ad una pace interiore
finalmente ritrovata. Stiro le labbra in quello che nel pieno delle mie facoltà
e il mio primo sorriso sincero.
Alexis
si sposta e la ritrovo a pochi centimetri dal mio volto. I capelli le ricadono
davanti scomposti e mossi dal vento, tanto vicini da sentirli solleticarmi il
viso. Due occhi ambrati che si socchiudono, due labbra rosee corrose dal freddo
che si schiudono, un contatto caldo sulla mia bocca. Le sue mani scorrono lungo
il mio profilo, si intrufolano nei capelli ormai umidi. Li accarezza, capelli
rossi come il sangue sparsi sulla bianca neve. Un tormento che finalmente
assume una connotazione positiva.