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Autore: rocchi68    01/01/2017    3 recensioni
Quello era l’ultimo anno prima della maturità.
Era passato tanto tempo da quel giorno eppure quando si avvicinava quel periodo, lui si sentiva molto peggio del solito.
Tutto era tornato apposto, ma quella calda giornata estiva gli aveva causato una profonda frattura.
Il che era un vero peccato, considerando il passato.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dawn, Duncan, Scott, Trent
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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Quello era l’ultimo anno prima della maturità.
Era passato tanto tempo da quel giorno eppure quando si avvicinava quel periodo, lui si sentiva molto peggio del solito.
Tutto era tornato apposto, ma quella calda giornata estiva gli aveva causato una profonda frattura.
Il che era un vero peccato, considerando il passato.
Erano così uniti e una sciocchezza aveva distrutto ogni cosa.
Lo ricordava ancora.
Aveva ancora negli occhi quella figura che correva tra i campi, salvo poi scontrarsi con quello che si era verificato dopo pochi minuti.
Si era trasferito nell’appartamento di suo zio, uno squallido monolocale dove sperava di ritrovare la pace.
Un equilibrio che aveva perduto e che difficilmente sarebbe stato in grado di recuperare.
Non perché non lo volesse, ma per la sua incapacità di afferrare quel desiderio.
5 lunghi anni erano già volati via.
E lui era sempre stato nella più totale solitudine con quell’orribile ricordo.
Avrebbe tanto voluto farlo scomparire, ma non poteva.
Quel giorno aveva impresso a fuoco nella sua mente e nel suo cuore un marchio dal quale non poteva divincolarsi.
Niente più risate e sollievo, ma solo tanta rabbia.
Non voleva arrivare a tanto, ma dopo aver perso tutto, quella era l’unica possibilità.
Tutto perché voleva rincorrere quel folle desiderio.
Aveva imparato solo che quando qualcuno perdeva tutto, poi non aveva più nulla da perdere.
Nessuno comprendeva la sua sofferenza e il cancellare quel sogno lo aveva reso ancora più infelice.
Un sogno che era naufragato subito dopo.
Caduto con quel volo di pochi metri.
Era tutta colpa della scuola se si era ridotto così.
Tutta colpa loro se stava per perdere ogni cosa.
Se non avesse dovuto studiare, non avrebbe patito tutto quel dolore.
Il male che lo attanagliava non gli avrebbe mai fatto visita e non sarebbe stato costretto a rinchiudersi nella sua sofferenza, fatta di rancore verso il proprio corpo.
Voleva essere il migliore, ma il destino era stato crudele.
Proprio il destino si era divertito a scombussolare le sue ambizioni, donandogli di volta in volta un profondo tormento e una rabbia sempre più crescente.
Sembrava una bomba sul punto d’esplodere, salvo poi interrompere il conto alla rovescia.
Riusciva a trattenersi dai suoi folli intenti, ma quelli che lo infastidivano non erano così fortunati.
Poteva essere migliore di così, ma chi voleva esserlo, dopo quello che aveva causato?
Non ne aveva bisogno.
Quel sogno era andato e lui era diventato un teppista che terrorizzava, come tanti, la sua vecchia scuola.
Prima odiava la violenza.
Con l’errore commesso aveva cambiato idea.
Quel giorno la violenza gli tese una mano e lo fece sentire meno inutile.
Le risse erano come le ciliegie: una tirava l’altra e lui si trovava sempre in mezzo.
Era stato lo stesso odio a convincerlo.
Tutti avevano bisogno di conquistare la calma e lui l’aveva trovata dopo un lungo cercare.
Quella era l’unica soluzione che lo aveva conquistato.
Succedeva solo per pochi istanti, ma sufficienti per attingere alla droga della calma.
Si sentiva bene, quando gli altri tornavano a casa devastati dal dolore che lui provava ogni giorno.
Poi si chiudeva nella sua angusta stanzetta e i sensi di colpa tornavano a galla impietosi.
E questi lo torturavano.
Combatteva per farli stare zitti, menava le mani e si sentiva ancora peggio.
Mai soddisfatto e mai felice.
Raramente trovava riposo e dormiva solo quando assisteva alle lezioni soporifere dei suoi insegnanti.
Quelle sì lo costringevano a buttarsi sul banco e a chiudere gli occhi, ben sapendo che nessuno avrebbe mai osato risvegliarlo dal suo magico, momentaneo equilibrio.
 
Tutto ciò però non durava a lungo, ma questo non gl’importava poi molto.
Aveva motivo di odiare anche i professori.
Tutti quei vecchi gli scartavetravano le palle.
Erano logorroici, ripetitivi, noiosi e chiassosi.
Uno su tutti era motivo di rottura e quello era il prof di matematica.
Un 50enne che viveva ancora con la madre, occhiali grossi due dita, quasi completamente calvo, alto quanto un tappo da spumante e rotondo come una botte.
Il resto non valeva la pena d’essere sottolineato.
Era anche il vicepreside della struttura e se ne vantava.
Come se fosse fantastico restare oltre l’orario consueto e sputare sentenze nei vari colloqui.
Tutti passavano tra le sue fauci e lui spartiva lodi e rimproveri in base al suo pessimo umore.
Alcuni ragazzi, per lui, erano come spazzatura che si accumulava agli angoli delle strade.
E quel ragazzo lo sfidava e non si scomponeva.
Sempre in ultima fila a dormire, a fissare il vuoto, oppure a guardare il nulla del giardino, mentre quello spiegava cose inutili.
Ogni tanto osservava il suo zaino che lo istigava alla violenza.
Avrebbe tanto voluto tirarglielo sulla testa per poi andarsene a casa, ma quello era un pensiero poco ricorrente.
Infatti, quel giorno era stravaccato sul suo banco, mentre il compagno cercava di seguire la lezione.
In quella classe non era l’unico ad abusare della scarsa forza del professore e le ore passavano con uno scambio serrato di bigliettini dove ognuno scriveva quello che voleva.
L’essere animato con cui condivideva il banco quella mattina era stranamente attivo, ma quella non era una novità.
“Scott finita la lezione quello della sezione C vuole vederti.” Quelle poche parole lo avevano risvegliato.
Rialzò subito la testa, incrociando gli occhi del professore.
Era inutile chiedergli spiegazioni, tutti sapevano cos’era successo la settimana prima.
Quella inoltre era stata l’unica volta in cui aveva avuto a che fare con il tizio che doveva incontrare.
“Quindi il risultato dell’espressione è 4.”
Sentì solo la voce del professore ripetere la soluzione dell’esercizio, ma quel gracchiare lo infastidiva.
Infatti, gli rivolse un’occhiataccia come a fargli capire che doveva chiudere il becco.
Non riusciva a riflettere, se qualcuno interrompeva il flusso dei suoi pensieri con problemi inesistenti.
“Morte?” Si chiese, negando con il capo.
“Amicizia?” Negò di nuovo.
“Vendetta?” Cenno d’assenso.
“Non gli sarà bastata la ripassata dell’ultima volta.” Borbottò a bassa voce, deluso per la motivazione che quel tipo avrebbe usato per incontrarlo nuovamente.
Mancavano pochi minuti e avrebbe scoperto tutta la verità.
Era ancora troppo presto, ma volle lo stesso osservare verso il giardino.
Aveva anche osservato il cielo e ovviamente le piante che decoravano quel grigio Istituto.
Era quasi estate, ma nel suo cuore sarebbe sempre stato inverno.
Un inverno che non sarebbe mai cessato e dal quale non poteva né fuggire, né nascondersi.
“Signor Riddle vuole ripetere l’ultima formula che ho appena spiegato?”
Era di nuovo lui.
Quello lo osservava dalla lavagna con la tipica bacchetta di legno in mano.
Gli altri studenti non si voltarono nemmeno a guardarlo ben immaginandosi la faccia da demone che aveva assunto.
Occhi spiritati, ghigno malvagio e un’aura maligna e oscura ad avvolgere tutto il suo corpo.
Era sempre lui a essere beccato da quello.
Probabilmente perché non faceva mai nulla, oppure perché sembrava dormisse in piedi.
Gli rivolse un’occhiata, una scrollata di spalle e gli lasciò continuare la spiegazione.
Di solito bastava poco perché tornasse a scrivere, ma quel giorno doveva avere le sue cose.
“Le ho chiesto di ripetere.”
“Sua madre non le ha ancora comprato i fumetti? È per questo che è così nervoso?” Chiese senza mostrare paura, mentre i compagni ridacchiavano divertiti.
L’uomo, rosso in viso, picchiò la bacchetta sulla cattedra e tutti tornarono in silenzio.
“Vuole andare dal Preside?”
“Non vedo l’ora.”
Il vecchio non raccolse quell’ennesima provocazione e si girò di nuovo verso la lavagna.
Non aveva intenzione di dannarsi il fegato con uno come lui, anche se Scott lo odiava solo per la sua materia e per l’aspetto insignificante che si ritrovava.
La matematica, almeno per lui, era l’inutilità più assoluta.
Eppure quel vecchio era l’unico che gli teneva testa e che non si era arreso all’evidenza.
Doveva saperlo che era una perdita di tempo, ma lui continuava a provarci.
Gli rivolse un’altra domanda.
Il giovane non rispose, concentrò il suo sguardo verso l’orologio posto alla parete, quasi fulminandolo e poi piazzò i suoi occhi grigi sull’insegnante.
“È finita.” Questa fu la sua risposta.
La campanella aveva fatto il resto.
Quel suono che alle 8 era orribile, nel primo pomeriggio diventava una soave melodia.
Prima ti pugnalava alle spalle con l’inizio delle lezioni e poi ti liberava con gioia.
L’uomo stanco e avvilito appoggiò il gesso sulla scrivania, raccolse i suoi libri e uscì senza lasciare compiti ai ragazzi.
Aveva ben altro per la testa.
Doveva metabolizzare quella sconfitta personale e poi aveva un colloquio urgente con alcune famiglie che volevano iscrivere i loro pargoli all’Istituto.
 
Gli altri, con l’uscita del vecchio, erano già scappati, ad eccezione del rosso che aveva i suoi buoni motivi per andarsene con calma.
Raccolto lo zaino, se lo mise in spalla e con passo lento iniziò ad aggirarsi per la scuola.
Quel breve tragitto era essenziale per farlo riflettere.
La fretta era sempre stata una cattiva consigliera e quando era a scuola, riusciva a pensare solo quando era solo.
Non voleva che qualcuno lo vedesse pensieroso e tanto meno desiderava che qualcuno riuscisse a leggere dentro di lui.
Ne avrebbero ricavato un immagine sbiadita e completamente fuori luogo.
L’esatto opposto di come appariva normalmente durante le poche ore di lezione.
In quel momento tanti pensieri affollavano la sua mente.
Stava passando dalla scuola, agli esami, al cibo e all’incontro con il tizio del cancello in pochi secondi.
Sapeva che non sarebbe stata una visita di piacere e mentre scendeva le scale, si era soffermato sui dettagli della rissa precedente.
Ripensava agli errori commessi e alle debolezze palesate.
E poi era tornato al passato.
Quegli anni erano volati con la sua tipica, inutile, semplicità giovanile.
Se solo l’avessero visto a distanza di tanto tempo.
Aveva quasi fatto un salto in avanti e poi era tornato nei posti infimi della graduatoria.
Ora voleva solo trascinare con sé nel pantano tutti quanti.
D’avanzare e migliorare non se ne parlava nemmeno.
Eppure tutto ciò era nato diversamente.
Era vicino alla maturazione, ma poi si era involuto.
Nemmeno ricordava bene quel cambiamento così drastico.
Ricordava solo che aveva preso il controllo della scuola con una strategia ben curata.
In terza e in quarta poteva essere il leader, ma aveva preferito aspettare.
Solo in quinta aveva deciso di reclamare ciò che gli spettava.
Avrebbe esercitato quel ruolo per poco: giusto il tempo di capire se valesse la pena continuare o no.
Credeva ne sarebbe stato soddisfatto, ma qualcosa gli diceva che doveva aspettarsi anche una sensazione di malessere.
Si era preparato a lungo come era prevedibile dalla sua fama di stratega.
Dopotutto aveva sempre un piano e delle capacità superiori alla media.
Lui si beava di ciò.
Era considerato il genio e il braccio armato della scuola.
Ciò che gli andava era al sicuro.
Ciò che lo infastidiva, aveva vita breve.
 
Ancora qualche gradino e poi sarebbe arrivato all’ingresso.
Diede una rapida occhiata ai tizi che stavano alla zona delle macchinette.
Si trattava di alcuni ragazzini che mangiavano qualcosa e di alcuni professori che stavano sorseggiando un po’ di caffè.
Il ragazzo giunto alla porta, si guardò intorno e poi si avviò verso il cortile.
Nessuno lo avrebbe mai seguito e lui stesso non desiderava altro che la pace.
Il chiasso, la frenesia e il casino non erano i suoi compagni ideali.
A un giro in discoteca preferiva una bella rissa e alle oche giulive che incontrava per i corridoi, preferiva una birra gelata.
Era tutta qui la compagnia che ricercava.
Ora però gli importava solo dell’idiota che doveva picchiare.
Sarebbe stato uno scontro tra teppisti della peggior specie.
Tra membri della feccia.
Tra quelli considerati minacce della scuola e colpevoli di ogni tipo di reato.
Anche se per loro era sufficiente un bell’occhio nero con cui divertirsi.
Uno dei tanti passatempi di Scott era il riempire di lividi e occhi neri tutti gli sventurati che gli si facevano sotto.
Tutti quelli che gli rompevano le palle e che osavano farsi beffe del suo carattere.
Infatti, solo in pochi erano al sicuro e anche i più forti erano destinati a una dura lezione.
La strafottenza e la stupidità non vincono mai.
Avrebbe impartito un chiaro esempio di quanto male potesse fare, quando qualcuno lo disturbava.
Credeva che una volta fosse sufficiente, ma si era sbagliato.
Perfino quello che aveva ripassato, desiderava un’altra visita in infermeria.
Voleva altro dolore, prima di tornare a casetta per farsi medicare dalla sua cara mammina.
Si chiedeva quanto si potesse essere stupidi.
Era da persone anormali comportarsi così.
Nemmeno quel ghigno che gli solcava il viso era normale.
Nemmeno quel suo sguardo di sfida lo era.
Tutto lasciava trasparire un qualcosa di poco normale, ma per Scott ormai nulla lo era.
Nulla poteva essere considerato normale.
Non dopo quello che aveva combinato in quella calda giornata estiva.
 



Angolo autore:

Sono tornato!
Per vostra immensa sfortuna.
Innanzitutto vi auguro un buon anno.

Ryuk: Sarà orribile, considerando che ci sei anche tu.

Modestamente.
E comunque gli aggiornamenti saranno ogni giovedì e lunedì.
Credo.
Qualora cambi idea, vi avvertirò in anticipo.
Se me lo ricordo.

Ryuk: E lasciatela una piccola gratificazione a questo stupido autore.

Stupido?
Ora facciamo i conti!
E comunque...alla prossima (quanto mi mancava dirlo).

   
 
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