Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: charly    01/01/2017    0 recensioni
In questo libro conclusivo assisteremo ai primi anni di matrimonio di Deja e Zaron, in cui lei si renderà conto di provare qualcosa per suo marito, qualcosa di profondo, che la spingerà a cercare con insistenza la compagnia di suo marito e la passione che scopre tra le sue braccia. Saranno anni turbolenti: le avances non richieste di un terzo incomodo, la gelosia e due attentati. Riuscirà Deja a conquistare il cuore di Zaron?
Estratto:
Deja aveva atteso con trepidazione l’arrivo del suo quindicesimo compleanno. […] Presto sarebbe stata un’adulta e di sicuro suo marito l’avrebbe vista con occhi diversi. Di sicuro.
-
Avrebbe voluto che le cose tornassero a com’erano prima, a quando lei aveva avuto dodici anni e il loro rapporto era stato semplice, […], quando l’aveva considerata una bambina graziosa e la sua vicinanza tra le lenzuola non l’aveva mai turbato.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Il cuore di un drago'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

IX. IL TEMPO DI UCCIDERE E QUELLO DI AMARE

 
 
Il maestro delle spie del khan era un ometto basso per i canoni rakiani. Piccolo di statura e sottile di costituzione, non aveva una presenza minacciosa ma una faccia onesta e credulona, rotonda e con ridicoli baffetti sottili, che spingeva le persone a sottovalutarlo. Nessuno però sottovalutava il suo compagno: un omone dall’aria truce, ricoperto di cicatrici e con la lingua mozzata in qualche ignota occasione, forse un incidente, forse un atto voluto per metterlo a tacere. Se era quest’ultimo caso era stato per niente perché quel gigante di uomo, dalla testa rasata e dall’aria ottusa, era molto più intelligente di quello che pareva e sapeva leggere e scrivere benissimo. A torto molti consideravano lui il braccio dotato di forza bruta e il piccoletto l’unico in grado di pensare e progettare la rovina di un avversario. Separati erano una forza da temere, insieme erano una macchina micidiale, infaticabili nella ricerca della verità. Ed era quella che interessava loro: la verità, non una bugia compiacente. La violenza che impiegavano era solo un incentivo per le loro vittime a vuotare il sacco, tutto e in fretta, non c’era nessun sadico piacere nel torturare, nessun desiderio di sentire urlare o di stillare sangue e questo li rendeva ancora più spaventosi. D’altra parte loro lavoravano per conto di khan Zaron, per cercare la verità, per quanto scomoda fosse, non per compiacere la vanità di un tiranno convinto di avere tutte le risposte.
Con discrezione e brutale efficienza indagarono sulla canna utilizzata per abbattere l’aeronave dell’imperatore. Scoprirono che l’assenza della canna era stata notata ben undici giorni prima, ma che il rapporto si era perso per strada, non essendo stato considerato forse abbastanza importante da giungere all’attenzione del khan. Due soldati delle truppe appositamente addestrate per l’utilizzo delle nuove armi avevano disertato lo stesso giorno del furto ma, nella confusione della guerra e nell’ansia di tornare a casa, nessuno aveva pensato di collegare le due cose. Fu fatta un’approfondita analisi del passato dei due disertori: erano amici d’infanzia, provenivano dallo stesso villaggio ed erano persino cognati. I due stupidi furono ritrovati vivi mentre cercavano di lasciare Rakon con le loro famiglie, appesantiti da due borse piene d’oro ciascuno. Furono incarcerati e interrogati, separatamente e a lungo, e così si scoprì che erano stati contattati per rubare la canna e abbattere l’aeronave del khan ma che avevano, per paura e per fretta, anticipato i tempi del loro committente. Il piano sarebbe stato di attendere e colpire l’aeronave quando a bordo ci fosse stata anche la regina, nel loro annuale viaggio verso Issa. I due, invece, avevano preteso un anticipo sul compenso, non fidandosi del loro contatto, e poi avevano agito prematuramente, non prendendosi neppure la briga di controllare che il bersaglio fosse effettivamente morto ma fuggendo con quello che avevano in tasca.
Erano due poveretti, stupidi e avidi e dopo aver ottenuto da loro tutte le informazioni possibili e il nome dell’uomo che li aveva contattati, erano stati affidati alle cure dell’esercito, con la raccomandazione di attendere prima di eseguire la condanna a morte per diserzione, perché fino a quando non avessero finito la loro investigazione potevano ancora aver bisogno di loro.
Poi si concentrarono sull’uomo che li aveva contattati offrendo una somma assurdamente alta per assassinare il khan e finirono in quello che all’apparenza era un vicolo cieco, perché il ricco mercante, che entrambi avevano indicato, era stato sgozzato il giorno in cui khan Zaron era tornato dal regno dei morti per reclamare il suo trono. Ma il gigante e il piccoletto erano testardi e precisi e interrogarono minuziosamente tutti quelli che conoscevano il mercante e vennero così a sapere che quest’ultimo aveva la pessima abitudine di condividere tutti i suoi affanni con la sua cortigiana preferita. La donna, dietro compenso, riferì di tutti i traffici illeciti che il mercante svolgeva all’ombra della legge, di tutte le persone che aveva corrotto e di tutti i potenti che si era ingraziato e così scoprirono che aveva ricevuto un’ingente commessa da un ricco rakiano che apparteneva alla piccola nobiltà ma che aspirava a essere di più.
Seguendo la pista del denaro arrivarono al nobile Jigars che li riconobbe subito quando se li ritrovò davanti in un vicolo buio della Città Nuova. Era talmente terrorizzato che non ebbero bisogno di tirar fuori neppure gli arnesi: una volta rinchiuso nelle segrete e legato, aveva vibrato dal desiderio di parlare e come gli avevano tolto di bocca il sudicio cencio che vi avevano ficcato quando lo avevano prelevato dalla strada, lui vuotò subito il sacco: le sue prime parole furono il nome di un nobile signore della corte del khan che lo aveva avvicinato per proporgli di fare da tramite per un “favore”, come lo aveva chiamato, che gli avrebbe assicurato l’ingresso a Palazzo. In lacrime ammise di aver fatto parte del complotto ma giurò e spergiurò che non sapeva cosa gli altri stessero progettando, che lui doveva solo fornire i contatti e effettuare il pagamento. In poche ore il nobile signore indicato da Jigars finì legato a una sedia affianco a quella del suo accusatore, drogato con un particolare cocktail di loro personale invenzione che impediva alla vittima di mentire e poi il più grosso dei due dimostrò di quanta delicatezza le sue enormi mani fossero capaci, infliggendo dolore senza spezzare ossa né far sanguinare la sua vittima. Il nobile Kergik fu torturato senza che gli fosse fatta una sola domanda. Jigars si era insozzato le braghe, piangendo e singhiozzando senza ritegno; l’altro, gli occhi dilatati dalla droga e dal dolore cominciò a parlare non appena il gigante gliene diede l’opportunità, lasciando il campo al suo smilzo compagno.
Faceva parte della cerchia interna dei congiurati, una cerchia molto illustre, dato che annoverava membri della famiglia reale stessa. Fece tutti i nomi che sapeva e tutti quelli di cui sospettava, ed entro l’alba tutti coloro che aveva nominato erano stati rastrellati.
Le indagini erano durate due settimane e in una sola notte sette nobili furono prelevati, assieme alle loro famiglie, e imprigionati nelle segrete del Palazzo, drogati e interrogati separatamente per ordine di khan Zaron.
 
L’imperatore era sceso nelle prigioni sotterranee del Palazzo Reale, prigioni di cui pochi sapevano l’esistenza dato che servivano a detenere solo brevemente i membri della nobiltà che poi venivano giustiziati o rilasciati, a seconda che la loro colpevolezza fosse provata o negata.
Il braccio rotto si era saldato bene ma i guaritori avevano insistito affinché continuasse a tenerlo in riposo assoluto per un totale di cinque settimane, con la minaccia che il braccio non sarebbe mai tornato come prima se l’imperatore non avesse seguito le loro direttive. La spalla invece guariva più lentamente, ma almeno guariva, aveva pensato con sollievo Zaron mentre un sottile strato di pelle nuova si formava sulla carne viva. Il suo maestro delle spie lo guidò fino alla cella che conteneva suo cognato, il nobile Brafit.
- Mi confermi quindi che almeno lui è totalmente innocente?
Chiese il khan. I baffetti dell’altro uomo vibrarono.
- Nessuno è totalmente innocente, mio khan. Posso dire però con quasi completa certezza e con convinzione personale che il nobile Brafit non ha fatto parte della congiura, nonostante alcune piste portino proprio a lui. È stato un caso sfortunato che alcuni dei congiurati abbiano risieduto sotto il suo tetto.
Zaron fece una faccia cupa e piena d’odio, pensando a loro.
- Apri la porta, voglio parlagli.
- Il nobile Brafit ha espresso anche lui il desiderio di parlarvi. Devo avvisarvi che ancora non gli abbiamo detto nulla sul suo futuro.
- Verrà rilasciato, ovviamente. Non faccio giustiziare innocenti.
Aveva replicato il khan. L’altro parve imbarazzato e tossicchiò nervoso.
- Temo che il nobile Brafit abbia riportato più ferite del necessario: quando lo abbiamo appeso la sua mole non gli ha fornito un buon servizio e le braccia gli si sono disarticolate prima del previsto e tirandolo giù si è slogato un polso. Potrebbe anche essersi morso la lingua perché ha sputato sangue. Un deplorabile errore da parte nostra, me ne assumo tutta la colpa. Nessun danno interno tuttavia, glielo assicuro, né ossa rotte o un solo segno sulla pelle.
Detto questo il maestro delle spie si era inchinato, aveva aperto la pesante porta in legno e poi gli aveva richiuso l’uscio alle spalle. La cella di Brafit era ben illuminata da numerose torce, le pareti di pietra nuda erano spoglie e il pavimento ricoperto di paglia, per facilitarne la pulizia. L’uomo era ancora legato alla sedia usata per le interrogazioni, i piedi nudi legati per le caviglie e il torace assicurato alla spalliera da una grossa fune. Gli abiti che aveva erano quelli che aveva indossato la sera prima per coricarsi ed erano sporchi e sgualciti. Un filo di bava rosata gli scendeva dalle labbra socchiuse, bagnandogli il davanti della casacca. Le braccia, non legate, pendevano inerti e con una strana angolatura. Gli occhi, spenti e velati, incassati in un viso gonfio, lo misero a fuoco e suo cognato sobbalzò, gorgogliando agitato, cercando di portare le mani al petto, istintivamente, prima di emettere un roco gemito di dolore e abbandonarsi alla corda che gli costringeva il petto.
- Mio khan…
Riuscì a sussurrare con un singhiozzo soffocato.
- Non parlare Brafit. Va tutto bene.
Lo tranquillizzò Zaron avvicinandosi e poggiandogli con leggerezza la mano sulla spalla.
- Tutte le accuse contro di te sono decadute.
L’uomo si mise a piangere, strizzando gli occhi e singhiozzando convulsamente.
- Grazie, grazie…
Ripeteva e Zaron strinse la mano, cercando di confortarlo.
- Non devi ringraziarmi. Di cosa? Se sei innocente è tutto merito tuo che mi sei rimasto fedele.
- No,
Negò lui scuotendo il capo.
- Non lo sono stato…! Così a lungo ho accarezzato il sogno di divenire khan… vi ho augurato di morire in battaglia mille e mille volte mio signore, me ne vergogno così tanto… Ma mai, mai, dovete credermi, ho complottato contro di voi!
Gli occhi lucidi e iniettati di sangue di Brafit cercarono quelli del khan.
- E poi voi siete scomparso e ho avuto alla mia portata quello che a lungo avevo bramato e ho scoperto… che non lo volevo davvero! Sono un vile, un verme… Messo difronte alla prospettiva di tutto quel potere, di tutta quella responsabilità, ho avuto paura. Non ho chiesto di aspettare i dieci giorni dalla vostra morte perché volevo aiutare la regina ma perché speravo che il vostro erede si facesse avanti, salvandomi dalla necessità di propormi come vostro successore… Non merito il perdono, ma vi prego… perdonatemi comunque…
Zaron aveva sospirato.
- Pensi che non me ne sia mai accorto, del tuo desiderio? Non mi ha mai disturbato. L’ambizione non è malvagia, è ciò che si è disposti a sacrificare per essa che distingue gli innocenti dai colpevoli. Non importano le tue motivazioni: mia moglie molto probabilmente deve la vita alla tua insistenza nel seguire le tradizioni.
- Mia moglie? I miei figli?
Chiese con voce tremante Brafit. Zaron strinse le labbra ripensando all’incontro che aveva avuto con sua sorella prima di scendere a liberare Brafit.
Mentre le famiglie dei congiurati erano state tutte tratte in prigione, Zaron aveva voluto un trattamento differente per Sali. Lei e i suoi figli erano stati portati in una delle stanze del Palazzo, guardati a vista dai suoi soldati faliq; sua sorella aveva a gran voce chiesto udienza con lui, ma il khan si era rifiutato di accontentarla. Solo quando gli era stata finalmente data la notizia dell’innocenza di Brafit, era andato da lei.
A Sali era stata data una coperta da avvolgere sulle spalle per coprire la sottile camicia da notte, aveva gli occhi rossi e gonfi dal pianto e stringeva tra le sue braccia i figli terrorizzati. Vedendolo era scattata in piedi, lasciando andare la coperta, e si era buttata in lacrime ai suoi piedi, poggiandogli la fronte sugli stivali. Zaron aveva distolto lo sguardo, imbarazzato dalla vista del corpo seminudo di sua sorella. Lei aveva cominciato a implorare pietà, chiedendo umilmente di quale colpa si fossero macchiati per subire un tale trattamento.
- È stata attentata alla mia vita, Sali. E una delle piste ha condotto alla tua casa.
Lei aveva emesso un lugubre gemito di disperazione, perfettamente cosciente di quale fosse la pena per i traditori e la sorte che toccava alle loro famiglie.
- Ti prego…
Aveva continuato a implorare singhiozzando.
- Almeno i miei figli… Sono i tuoi nipoti, hanno il tuo sangue. Abbi pietà almeno di loro!
Zaron si era chinato su di lei, carezzandole il capo con tenerezza.
- Non devi piangere, Sali. Non vi succederà nulla. Tu hai la mia fiducia. Io so che non metteresti mai a repentaglio le vite dei tuoi bambini per nulla al mondo, neanche l’ambizione di tuo marito.
La speranza si era fatta strada sul viso di sua sorella sollevato verso di lui.
- Noi… siamo salvi?
Aveva chiesto incredula.
- Sì, lo sareste stati in ogni caso, per questo siete qui e non in prigione.
Sali si era tirata su, rimanendo in ginocchio ai suoi piedi, gli occhi lucidi e pieni di disperazione.
- E… Brafit?
Non aveva osato chiedere di più, straziata dal pensiero di non riabbracciare mai più il marito. Zaron le aveva sorriso.
- È stato interrogato e prosciolto da ogni accusa.
Sali aveva chiuso gli occhi e aveva ondeggiato, come prossima allo svenimento e suo fratello l’aveva velocemente afferrata per le spalle.
- Sali…!
Lei con un sospiro di sollievo gli aveva cinto i fianchi in un abbraccio, il primo che gli avesse mai dato, premendo il capo contro il suo addome.
- Grazie!
Aveva sussurrato con voce roca. Lui le aveva carezzato i capelli.
- E di cosa, sorella? Copriti adesso, vi farò scortare nuovamente alla vostra residenza. Tuo marito vi raggiungerà presto.
Dopo, Zaron era sceso nelle segrete per liberare il cognato.
- La tua famiglia sta bene. Stanno tornando a casa in questo momento. Non hanno mai visto l’interno di una cella.
Piangendo, Brafit chinò il capo fino a toccarsi il petto con il mento florido, sopraffatto dal sollievo.
- Fatti coraggio cognato. È finita.
Con queste parole Zaron si congedò da lui, dando ordine che il nobile Brafit fosse rimesso in sesto e lavato, il polso bendato e che gli fossero dati abiti adeguati alla sua posizione prima di essere riaccompagnato a casa.
Poi, con espressione truce e occhi duri, si apprestò a incontrare chi si era messo a capo di quella congiura. Gli fu aperta la porta della sala delle torture, dove lo attendevano il capo delle spie e il suo silente compagno. Nudo e legato mani e piedi a un rozzo tavolo di legno, gli arti tesi da corde assicurate ad argani, c’era Dassikiv.
Le sue articolazioni erano gonfie, violacee e probabilmente gli dovevano causare molto dolore, ma i suoi occhi erano lucidi, folli e dilatati dalla droga.
- Dopo un inizio recalcitrante ha parlato come un fiume in piena e quando ha finito con i fatti è passato agli insulti verso di voi e soprattutto rivolti alla vostra regina, mio khan.
- E adesso com’è? È in grado di parlare?
Volle sapere il khan.
- Sì, mio signore. La droga ha ancora effetto: sarà sincero.
Zaron si avvicinò al capo di Dassikiv che cercò di sputargli addosso, ma il muco atterrò sulla sua stessa guancia.
- Cane bastardo, figlio di una puttana, dovresti essere morto, perché non sei morto?
- Dassikiv, amabile come sempre…
Commentò con voce posata Zaron, solo i suoi occhi tradivano l’odio che provava, odio riflesso in quelli dell’uomo prigioniero.
- Dimmi di tua moglie e di tua suocera. Sono state loro ad avvicinarti o sei stato tu a proporre loro di partecipare al complotto?
- È stato il fratello di Ingis, è stato lui ad avvicinarmi, per conto di lei, per propormi il matrimonio con Cefan. Per convincermi che erano serie mi hanno rivelato di aver avvelenato loro la sgualdrina del bastardo reale… Com’erano dispiaciute che non avesse funzionato…
Zaron digrignò i denti con uno scricchiolio lugubre, furioso.
- Parlami di loro.
Gli occhi del prigioniero divennero vacui.
- Quella serpe di Cefan, sputa veleno in continuazione. È frigida, lo sai? È come farsi una tavola con un buco al centro. Spero di ingravidarla presto così da non dovermela più portare a letto… dei, l’ho sposata solo perché aveva sangue reale nelle vene, perché mi permetteva accesso al trono… E quella cagna di sua madre non è tanto meglio: è ossessionata dal bastardo reale, lo vuole vedere morto e squartato e ha berciato all’infinito quando le ho detto che avevo intenzione di risparmiare la sua sgualdrina straniera e le sue figlie bastarde. Lei voleva che fossero tutte sgozzate assieme alle concubine… Bah, che importanza vuoi che abbiano un pugno di puttane? Le sue figlie invece sono troppo preziose per finire sotto la lama, me le sarei prese io, non le avrei di certo date ai miei cugini, la maggiore dovrebbe essere vecchia abbastanza per il mio harem…
Zaron si sentì risalire la bile in gola. Le sue figlie, la sua piccola Kirsis che, nonostante tutto il suo atteggiarsi negli ultimi tempi, era ancora solo una bambina. Con un peso gelido nello stomaco si rese conto che finalmente poteva capire il baratro d’orrore che aveva colto Aborn quando gli aveva portato via Deja.
- … e quella sgualdrina issiana. L’avrei fatta urlare!
Il viso di Dassikiv era contorto di rabbia e si dibatteva, nonostante così facendo peggiorasse le sue ferite.
- È bruttina, così pallida e ossuta*, ma me la sarei fatta piacere comunque, anche solo per avere il gusto di sentirla implorare pietà. Volevo che mi scongiurasse di ucciderla. Quella stupida femmina pensa di essere meglio di chiunque, incoraggiata a pensare dal bastardo reale. Le femmine non dovrebbero pensare… Sono inferiori e se qualcuna crede di essere meglio deve essere rimessa al suo posto. Quella puttana straniera… lo sanno tutti che le va bene qualsiasi uomo: è sempre circondata dalle sue guardie, magari se le fa anche tutte insieme, non mi stupirei se si portasse a letto anche i faliq…
L’uomo continuò le sue farneticazioni, vomitando insinuazioni sempre più rivoltanti nei confronti di Deja e Zaron non ce la fece più ad ascoltare. Era furioso e disgustato e se avesse avuto entrambe le mani libere…
- Voglio che sia lucido per il suo supplizio. Voglio che si goda ogni istante. Per adesso…
Zaron socchiuse gli occhi e scoprì i denti in un ringhio.
- Tagliategli i testicoli, no anzi, tagliategli via tutti i genitali. Metteteli a sfrigolare su un braciere e quando saranno ben cotti assicuratevi che se li mangi. Fate in modo che sopravviva.
Rimase a guardare impassibile mentre il gigante selezionava un coltello sottile e affilato, afferrava con decisione la parte da amputare e si metteva al lavoro, tagliando con precisione e sangue freddo.
Le urla del prigioniero furono acute e strazianti e alla fine svenne quando sotto i suoi occhi ciò che lo rendeva così orgoglioso di essere uomo, il segno manifesto della sua superiorità, veniva messo a cuocere sui carboni ardenti.
Al mattino dopo ci furono le esecuzioni. Le donne e i figli dei congiurati vennero uccisi quietamente: alle donne fu tagliata la gola, ai bambini fu dato del sonnifero prima di aprirgli le vene. Uniche eccezioni furono la nobile Ingis e la nobile Cefan, Zaron le voleva denudate, legate a un palo e fustigate a morte, ma Sali lo convinse a mostrare un briciolo di rispetto per i membri della propria famiglia e così le fece decapitare con dignità, assieme ai nobili che avevano complottato per assassinarlo. Al capo della congiura fu riservato un trattamento particolare: nudo, in modo che tutti potessero vedere cosa gli era stato fatto, era stato legato mani e piedi a quattro cavalli che poi erano stati aizzati in quattro direzioni diverse. Il rumore che fece il suo corpo mentre veniva straziato fece vomitare molti nobili signori e svenire ancor più nobili signore.
Tutti i membri della corte avevano ricevuto ordine di assistere, solo ai bambini al di sotto dei nove anni e alle donne incinte era stato concesso di rimanere a casa. Deja non aveva voluto venire e Zaron ne era sollevato. Lo spettacolo era terribile, ma più terribile era la sua soddisfazione. Non aveva mai goduto prima a presenziare a una condanna a morte e i supplizi barbari che aveva ordinato gli erano sempre sembrati un futile esercizio in sadismo, ma ora… quegli uomini, quelle due donne, avevano voluto uccidere sua moglie assieme a lui. Solo la vigliaccheria e l’impazienza dei sicari le aveva salvato la vita. Se Deja fosse stata sull’aeronave con lui, se fosse stata ferita o se fosse morta… Neanche fare a pezzi lentamente e con le sue mani quei maledetti avrebbe dato sollievo al suo dolore.
Godette in particolare dell’agonia di Dassikiv e mentre il suo sangue bagnava il lastricato del cortile antistante il Palazzo, Zaron provò disgusto verso sé stesso. Quell’uomo, quell’orribile uomo, aveva voluto violare sua moglie, le sue figlie e ai suoi occhi era un crimine peggiore che cercare di uccidere lui. Eppure, come poteva Zaron dire di essere meglio? Aveva conquistato Issa e aveva ricattato Deja per costringerla a sposarlo, l’aveva privata della libertà di rifiutarlo, si era preso con la forza il suo regno e con la forza si era preso lei. Non l’aveva stuprata, non l’aveva toccata, ma non era comunque una forma di violenza, toglierle la possibilità di dirgli no? Avrebbe potuto farle qualsiasi cosa, come quel pezzo di sangue che veniva fatto a pezzi sotto i suoi occhi aveva voluto fare con la sua piccola Kirsis. Doveva le sue scuse ad Aborn, doveva le sue scuse a Deja. Dei, come faceva lei ad amarlo? Dopo quello che le aveva fatto? Dopo il piacere che aveva provato nel veder morire quelle persone, la sua stessa sorella?
 
A Issa le esecuzioni capitali erano rare, si uccideva un condannato solo in caso di un crimine così efferato da essere intollerabile e solo difronte a una comprovata e manifesta colpevolezza. Altrimenti la pena era la prigione a vita o i lavori forzati. Deja si rendeva conto intellettualmente del perché Zaron si stesse comportando con tanta ferocia, della necessità di dare uno spettacolo così sinistro in modo da assicurarsi che nessun altro osasse ripetere lo stesso errore. Tuttavia l’idea di quello che stava accadendo nel cortile del Palazzo, così vicino a lei, del sangue che veniva versato, la nauseava. Aveva litigato con Zaron quando aveva saputo che anche le mogli, le concubine e soprattutto i figli dei congiurati sarebbero stati uccisi: come potevano quegli innocenti avere colpe? Suo marito era stato inamovibile, anche difronte alle sue lacrime, e Deja si era ritirata nell’intimità della sua camera da letto, tappandosi le orecchie perché le pareva di udire anche da lì le urla e i singhiozzi dei morenti. Aveva voluto vendetta per gli insulti di Dassikiv e giustizia per l’attentato alla vita dell’uomo che amava ma non riusciva ad affrontare il lato sanguinario di suo marito. Poteva solo rassegnarsi, perché quella era Rakon e non Issa e non poteva pretendere che Zaron adottasse la sua morale e il suo senso di giustizia per gestire un crimine perpetrato da rakiani contro di lui, poteva solo sperare di non doverlo rivedere mai più così.
Quella sera Zaron aveva voluto cenare da solo e Deja aveva intercettato Oscia all’uscita dall’harem.
- Voglio stare io con lui questa notte.
Le aveva detto. L’altra donna era sembrata allarmata ma aveva dovuto cederle il passo. Deja aveva tirato un sospiro di sollievo: non era sicura che se ci fossero state Tallia o Perla al posto di Oscia sarebbe stata accontentata.
La guardia aveva chiuso la porta degli appartamenti del khan alle sue spalle e Deja aveva aspettato che Zaron sollevasse gli occhi dai pugnali da lancio che stava sistemando in fila sul tavolo a cui era seduto, carezzandoli con una cura che aveva del maniacale. Vedendola si era impietrito.
- Cosa ci fai tu qui?
Aveva sussurrato con voce roca, la mano immobile su una lama lucente. Lei gli si era avvicinata con passo leggero ma deciso, fermandosi solo difronte a lui e lo aveva guardato dall’alto in basso, sollevando un sopracciglio.
- Sinceramente speravo in un’accoglienza più calorosa, marito mio.
Proferì Deja con tono ironico. Lui aveva abbassato lo sguardo sui pugnali, poggiando la mano sul tavolo a palmo aperto.
- Non sono di buona compagnia questa sera. E non pensavo che volessi vedermi, non dopo quello che è successo questa mattina.
Le disse a bassa voce, cercando di mantenere un tono neutro. Deja gli poggiò la mano sul capo, passando le dita sui capelli corti; lui piegò la testa, accompagnando la mano, chiudendo gli occhi con un’espressione di evidente piacere.
- Sono contenta che tu li abbia tagliati. Li preferisco così…
Gli prese il polso destro scostandolo dal tavolo, allargandogli il braccio, e si insinuò sul suo grembo, sedendo di traverso sulle sue gambe.
- Quello che è successo questa mattina è terribile,
Continuò con voce sommessa.
- E mi ha fatto stare male. Ma non è colpa tua: non sei stato tu a costringerli a commettere i loro crimine, si sono condannati da soli. I colpevoli meritavano di morire e chi sono io per giudicare il metodo con cui tu amministri la tua giustizia nel tuo regno?
- Sei mia moglie,
Replicò lui con voce roca, poggiando la propria fronte contro quella più chiara di lei.
- E io… sono solo un barbaro mostro.
La voce di Zaron si spense in un silenzio abbattuto che inquietò Deja.
- Cosa dici? Non sei un mostro Zaron.
- Sì invece!
Incalzò lui, testardo e disperato.
- Non li ho fatti giustiziare per aver tentato di uccidere me, ma per quello che volevano fare a te. A te e alle mia figlie, soprattutto quel…quel…
La voce di Zaron si perse in un sibilo furioso e lui strinse convulsamente a sé sua moglie con il braccio sano.
- Oh, Zaron.
- Ti ho portato via da tuo padre, dalla tua casa, costringendoti a un matrimonio che non avresti mai accettato se fossi stata libera di rifiutare, quando avevi solo dodici anni. In cosa sono diverso da Dassikiv?
Deja era sconvolta dal disgusto che poteva cogliere nelle parole di Zaron, nella rabbia che ora capiva essere rivolta verso sé stesso. Non sapendo come reagire, come fargli capire che non doveva odiarsi, che non c’era nulla di mostruoso in lui, non trovando le parole, lasciò che fossero i fatti a essere le sue argomentazioni più forti. Gli circondò il viso con le mani e lo baciò. Zaron glielo permise, approfondendo il bacio e cingendola per la vita fino a toglierle il fiato. Poi si staccò dalle sue labbra con un sorriso di disprezzo rivolto verso sé stesso.
- Anche adesso… Se solo tu sapessi cosa ho nel petto…
- Dimmelo.
Gli ordinò lei dolcemente.
- Non vuoi saperlo: è troppo.
- Quando la smetterai di proteggermi da te?
Lo interruppe lei.
- Forse sono stanca di aspettare, forse non ho bisogno di protezione, non più. Ti ho già detto che non ho paura di te!
- Sei sicura?
Le chiese lui con voce tremante.
- Sì, certo che sono sicura.
Replicò Deja ostentando una fermezza che in realtà non aveva. Perché mentre diceva quelle parole si rendeva conto di avere paura. Non di suo marito ma della situazione: lui era di un umore cupo, che rasentava la disperazione. Con gioia avrebbe offerto sé stessa per dargli sollievo, anche solo minimo, anche solo temporaneo. Ma non era così che aveva sognato di concedersi finalmente a lui.
- Ho un braccio rotto.
Le ricordò lui.
- Anche se volessi lasciarmi andare ai miei più abbietti desideri non potrei...
- Zaron,
Gemette esasperata Deja.
- Il tuo desiderio non è abbietto. Ti desidero anche io.
Ma lui scosse il capo.
- No Deja, tu mi ami. Non capisci la differenza? Tu mi ami e io ti desidero. Non so se riesco, non so se posso…
Lei lo zittì con un altro bacio.
- Tu mi ami.
Gli disse lei, cercando di infondere convinzione in quelle parole, sperando, pregando di non sbagliarsi troppo.
- Magari non come io amo te, ma mi ami. Lo vedo in tutto quello che fai, in ogni sguardo che mi rivolgi. Nel tuo rispetto, nella tua gentilezza, nella tua passione e nel tuo contegno.
La voce della ragazza si spezzò.
- Anche se non ho il tuo cuore non mi pentirò mai di averti fatto dono del mio. È tuo, io sono tua.
Zaron la guardò negli occhi, il suo sguardo era indecifrabile, ma intenso e appassionato e tenero al contempo. Così tante emozioni che Deja non era in grado di coglierle tutte.
- Vieni allora.
Le disse con voce bassa e piena di passione. Si alzò e la prese per mano, conducendola in camera da letto.
- Per fortuna vesti alla maniera issiana oggi, mia cara…
Le sussurrò all’orecchio, facendosi vicino, facendo aderire i loro corpi.
- Non so se sarei stato in grado di toglierti i gioielli…
Poi si sedette sul letto e la fece sedere sulle sue gambe, ma non di traverso, bensì a cavalcioni, con le ginocchia intorno alla propria vita, la gonna che si tendeva per permetterle la manovra. Con la mano destra sollevò il bordo dell’abito fino al ginocchio, permettendole maggiore comodità e libertà di movimento, sfiorandole con la punta delle dita la caviglia e il polpaccio teso. Le carezzò una guancia con la punta del naso, avvicinandosi al suo orecchio.
- Il vestito rimane dov’è. Ti toccherò solo sopra, d’accordo?
Le sussurrò. Il fiato di Zaron le fece venire la pelle d’oca, così come la scia lasciata dalle sue dita. Annuì, mugolando il suo compiacimento per l’intraprendenza dimostrata da lui, finalmente. Lo percepì sorridere contro la sua guancia.
- Stringimi il collo con entrambe le mani. Stai attenta alla spalla sinistra e non perdere l’equilibrio: con il braccio immobilizzato non riuscirei a prenderti se dovessi scivolare all’indietro.
Lei annuì, impaziente, facendosi avanti, più vicino a lui per aiutare il proprio instabile bilanciamento e si bloccò con il respiro mozzo, ansimando nella bocca famelica di Zaron. Una volta che i loro bacini si toccarono fu impossibile negare che lui la voleva, davvero, fisicamente. Poteva sentire, premuta contro di sé, una parte dell’anatomia di Zaron che si era fatta rigida e che percepiva per la prima volta. Gli strinse le gambe in vita, più che poteva, premendosi contro di lui, frustrata dalla fasciatura che le impediva di far aderire anche i loro petti e i loro cuori.
Lui le poggiò il palmo sulla coscia, dove mai l’aveva toccata, premendo con forza, facendole sentire il calore della mano nonostante gli strati della gonna. Pensava non potesse esserci nulla di meglio e poi lui le mise la mano sul seno, stringendo e cercando di mapparne i contorni attraverso la stoffa. Deja rovesciò indietro la testa e Zaron con un ringhio le si avventò sulla gola, baciando, mordendo con i denti, risucchiando nella bocca la sua pelle e lasciandole una scia di umidi segni rossi dalla spalla all’orecchio.
Avevano continuato a baciarsi e lui a toccarla e a morderla e alla fine Deja si era ritrovata distesa con la schiena contro il letto, lui sopra, tra le sue gambe aperte, la gonna sollevata a lasciarle scoperte le ginocchia. Gli strinse le spalle e lui urlò di dolore. Deja lasciò ricadere le braccia ai lati del viso, mortificata.
- Mi dispiace…
Dissero quasi in coro e poi scoppiarono a ridere. Zaron si lasciò ricadere sul fianco destro, respirando affannosamente.
- Ti ho fatto male alla ferita?
Chiese Deja preoccupata.
- Non me ne sono quasi accorto. Mi dispiace Deja di essermi spinto così oltre, io non volevo…
Lei lo zittì con un bacio a fior di labbra.
- Io invece sono contenta.
Gli confessò. E lo era e Zaron non l’aveva mai trovata così bella: gli occhi parevano brillare di luce propria, le guance erano così infuocate da far quasi scomparire le delicate efelidi che le decoravano e le labbra così rosse e gonfie e umide per i suoi baci da essere irresistibili. La baciò nuovamente, a lungo. Infine a malincuore si mise a sedere.
- Devo andare a cambiarmi.
- Serve aiuto?
Gli chiese Deja, sollecita, aggrottando la fronte e sedendosi sul letto.
- No! Davvero, me la cavo.
Stando ben attento a volgerle sempre la schiena prese un cambio d’abito prima di rifugiarsi in sala da bagno, maledicendo per la millesima volta in pochissimo tempo il braccio immobilizzato e poi subito ringraziandolo perché non sapeva cosa avrebbe fatto se avesse avuto due mani libere che si muovevano sul corpo di sua moglie.
Riuscì a cambiarsi soltanto i pantaloni, a fatica e imprecando, e lasciò campo libero a Deja che gli passò affianco con un sorriso contento. Si distese a letto ad aspettarla e lei gli si stese vicino, stringendogli la mano e sospirando. Si baciarono ancora, al buio, con la dolcezza di chi ha per il momento saziato la fame che prima li divorava. Lei gli sussurrò d’amarlo, prima di addormentarsi.
- Forse anche io ti amo.
Osò mormorare lui, quando fu certo che lei dormisse.


*E’ bruttina, pallida e ossuta: a scuola (quando ancora ci andavo: avete presente quando i vostri genitori sospirano e vi dicono ”ah, magari potessi andare io a scuola come te, invece che andare a lavorare!”? Io no, mille volte un giorno di lavoro che uno di superiori!) abbiamo fatto per letteratura inglese Passaggio in India. Uno dei protagonisti, un indiano, viene accusato da una ragazza inglese di tentato stupro (non è chiaro se sia successo davvero o se lei si sia semplicemente sentita male e nel delirio di un attacco isterico si sia inventata tutto). La reazione offesa dell’uomo è stata: perché dovrei provarci? È brutta: bianca e magra.
  
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: charly