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Autore: Losiliel    02/01/2017    6 recensioni
Írissë è di pessimo umore ed è convinta che il pomeriggio che la attende non farà che peggiorarlo.
Una storia tutta al femminile, dalla quale l'angst è stato bandito.
Genere: Avventura, Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aredhel, Elenwë
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Los Tales'
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UN SINGOLO POMERIGGIO INSIEME

dedicata a Melianar

 

__________

Írissë è Aredhel
gli altri nomi sono elencati nelle note finali
___________

 

 

 

Írissë era di pessimo umore.

Il giorno precedente era accaduto quello che si era augurata non sarebbe mai e poi mai accaduto: Tyelko si era dichiarato. Ancora non poteva crederci. Eppure le sembrava di essere stata abbastanza chiara. Di aver mandato segnali inequivocabili su quali fossero i suoi sentimenti nei confronti del suo più caro amico. Quelli, appunto, di una cara amica. Certo, a giudicare dall’esperienza di Findekáno, i Fëanárioni non erano i migliori interpreti dei segnali inequivocabili, ma davvero non si sarebbe aspettata questa mossa.

L’avvenimento inatteso l’aveva gettata in uno stato d’animo d’ansia e di irritazione, e dalla sera precedente continuava a domandarsi se, con questa bella trovata, Tyelko avesse mandato in fumo anni e anni di sincera amicizia, o se le cose avrebbero potuto tornare ad essere quelle che erano state prima, o se d’ora in poi il loro rapporto sarebbe stato meno stretto, più simile a quello che aveva con Curvo, o con Moryo.

Avrebbe voluto parlarne con Artanis, l’unica persona che riteneva fosse in grado di comprenderla davvero, ma la cugina era in viaggio col fratello, e chissà quando sarebbe tornata. Avrebbe voluto sfogarsi con Findekáno, ma non l’aveva trovato in casa la sera precedente, e neppure quella mattina. Avrebbe voluto distrarsi con qualche amica, ma quando aveva pensato a chi potesse confidare le sue disavventure, si era resa conto che la lista delle sue amicizie era sorprendentemente breve, una volta che si escludevano i cugini e i fratelli.

Tutto ciò non aveva fatto altro che peggiorare il suo umore, e aveva finito per far emergere quella sensazione di insoddisfazione generale che, ogni tanto, così senza motivo, la assaliva. In quei momenti aveva imparato che doveva starsene per conto proprio, perché rischiava di fare o dire cose che dopo avrebbe rimpianto.

Per quel motivo aveva passato la mattina nel frutteto, ad arrampicarsi sugli alberi di ciliegie e a raccoglierne quante più poteva, per portarle poi nelle cucine affinché ne facessero torte e marmellate. E per lo stesso motivo intendeva passare anche il pomeriggio in solitudine, e avrebbe tenuto fede al suo proposito se non fosse arrivato qualcuno a bussare alla sua porta.

– Írissë – la chiamò la madre.

Nel riconoscere una nota di urgenza nel tono di voce di Anairë, lei si ricordò, all’improvviso, dell'impegno che si era presa qualche giorno prima.

Turukáno e la sua fidanzata, che lei non aveva avuto ancora il piacere di conoscere, avrebbero trascorso un po’ di tempo ad Alqualondë presso gli zii e sarebbero partiti l’indomani. Ma, mentre la ragazza sarebbe giunta in città quel pomeriggio, il fratello, impegnato a lavorare col padre, non sarebbe rientrato prima di sera. Írissë aveva quindi promesso alla madre di farle compagnia fino al suo arrivo.

Assolutamente no. Pensò ora, lanciando uno sguardo alla finestra e valutando la possibilità di svignarsela attraverso il giardino.

Già le sarebbe stato difficile comportarsi educatamente con una persona a lei familiare, figuriamoci con un’estranea. Dai racconti del fratello, poi, doveva essere la ragazza per cui era stato inventato il termine "adorabile", che, nel vocabolario di Írissë, era sinonimo di "noioso". E come se non bastasse era pure una Vanya, e una di quelle che abitava sulle pendici di Taniquetil per giunta, gomito a gomito con le Potenze. Probabilmente era una che passava il tempo a cantare le lodi a Eru e alla sua creazione.

– Írissë, ci sei? – Anairë, forse stanca di aspettare, aprì la porta e mise dentro la testa. Guardò la figlia da capo a piedi, partendo dalla chioma bruna, tra i cui ricci erano certamente rimaste impigliate alcune foglie di ciliegio, per proseguire con la blusa graffiata dai rami e i pantaloni di pelle che lei aveva scelto per comodità e non certo per l’eleganza.

– Cara… hai dimenticato il tuo appuntamento? – le chiese, scivolando nella stanza. – Hai promesso di far compagnia a Elenwë.

Írissë continuò a seguire il filo dei suoi pensieri e mugugnò: – Ma mamma, è una Vanya… cosa mai potremmo fare insieme?

– Ti assicuro che non è come la immagini – disse Anairë con fermezza, – io l’ho conosciuta.

Poi la guardò ancora, ma questa volta con l’attenzione tipica di sua madre, che sembrava non limitarsi all’aspetto esteriore, ma cha aveva la capacità di sondare nel profondo.

– Non puoi frequentare sempre e soltanto i tuoi cugini – disse, con calma.

No, a giudicare da ciò che era avvenuto il giorno prima, era evidente che non poteva. Nonostante questo, non riuscì a impedirsi di ribattere: – Perché no? I Fëanárioni sono interessanti!

– I figli di Nerdanel – precisò Anairë, – sono… anticonvenzionali.

Almeno non aveva detto folli, bisognava darle credito. Altri non avrebbero avuto la stessa delicatezza.

– Per questo sono interessanti! – affermò Írissë.

– Te lo concedo – sorrise Anairë. Poi continuò: – Forza! Si tratta di un singolo pomeriggio insieme. Non sarà una tragedia. 

Così faceva sua madre quando voleva ottenere qualcosa, metteva l'interlocutore a suo agio, gli dava ragione, e poi lo colpiva dritta con la sua richiesta, alla quale, chissà come, non si riusciva più a dire di no. Írissë conosceva a memoria la sua tattica, tuttavia ogni volta finiva per cedere. Sospirò: – Quando dovrebbe arrivare?

– Ti sta aspettando in giardino.

Perfetto. Addio via di fuga.

Írissë si arrese. Senza perder tempo a cambiarsi d’abito, né a legarsi la massa di ricci che le ricadeva voluminosa sul viso e sulla schiena, uscì dalla sua stanza a passo di marcia e decise che se il pomeriggio sarebbe stato un incubo per lei, si sarebbe applicata per far sì che anche per la Vanya non sarebbe stato da meno. Come diceva quel detto? Mal comune…

Mentre usciva risoluta dalla porta sul retro e attraversava il giardino del palazzo di suo padre, Írissë ipotizzò cosa avrebbe potuto fare per mettere in imbarazzo la fidanzata di suo fratello. Qualcosa di fisico, sicuramente. Una bella cavalcata fino a Ezellohar e ritorno, o tuffi in quel laghetto che aveva scoperto con Tyelko l’anno precedente. L’ideale sarebbe stato portarla a caccia, ma era il periodo di riproduzione degli animali e la caccia era sospesa.

Stava ancora valutando le diverse possibilità, quando la vide seduta al tavolino sotto un chiosco coperto da un rampicante in fiore, dal quale pendevano grappoli violetti.

La ragazza stava, come c’era da aspettarsi, leggendo un libro. La testa china tra le pagine, biondi boccoli le ricadevano sul viso, in quantità tale da chiedersi come facesse a distinguere le parole. A Írissë per poco non sfuggì un sorriso, era proprio ciò che accadeva anche a lei quando leggeva! Alla scena mancava soltanto la voce di sua madre che insisteva perché si raccogliesse i capelli.

Sul tavolino, accanto a un pettine decorato, senza dubbio destinato a imbrigliare la sua chioma ribelle, c’era un piattino con una fetta di torta alla quale era stata asportata tutta la panna. Poco distante, un forchetta inutilizzata.

La ragazza vestiva un abito sui toni del verde, dalla fantasia floreale, con una gonna ampia, che le arrivava fin quasi alle caviglie.

Equitazione, sentenziò Írissë dentro di sé, con un guizzo malvagio delle labbra.

– Ehi! – la chiamò.

La ragazza sollevò il viso dal libro e le rivolse uno sguardo sorpreso.

– Ehi… – disse, con un tono talmente diverso dal suo, che non sembrò nemmeno la stessa esclamazione. Stupore e meraviglia si mescolavano in quella singola sillaba.

Írissë si trovò a fissare due enormi occhi azzurri, chiari come il mare al mattino, e altrettanto limpidi. Occhi che non nascondevano nulla, e che in quel momento sprigionavano curiosità, e aspettativa. Un viso ovale, dai lineamenti morbidi, le guance piene, tinte di rosa.

Una bambolina, l’etichettò subito Írissë, prima che sentimenti inappropriati, come la tenerezza, potessero prendere il sopravvento.

E intanto che lei era ancora lì a fare le sue considerazioni, l’altra si alzò e, tenendo l’indice tra le pagine come segnalibro, avanzò verso di lei mentre, soprappensiero, si leccava il pollice e l'indice per rimuoverne l’ultimo residuo di panna.

– Tu devi essere Írissë, finalmente ci conosciamo! Turukáno mi ha parlato moltissimo di te!

Írissë perse l’attimo per rispondere, impegnata com’era a far combaciare ciò che aveva davanti con l’immagine che si era creata in testa.

– Io sono Elenwë. Non sai quanto sia felice di avere la possibilità di passare un pomeriggio con te! Cosa facciamo?

– Ehm… – cominciò Írissë, sforzandosi di ricordare qual era il suo piano originario davanti a quell'entusiasmo esagerato, – avevo pensato di fare un giro a cavallo.

Elenwë strinse la presa sul libro che teneva in mano e fece una buffa smorfia con le labbra, come se si stesse trattenendo dal mordersi un labbro.

– Io – balbettò, e arrossì, – temo di non essere molto brava a cavalcare.

Írissë esultò, ma non tanto quanto si era aspettata. Posò lo sguardo sul libro e cercò qualcosa di sarcastico da dire, chiedendosi come fosse finita a provare imbarazzo, quando l’intento era esattamente l’opposto.

– Cosa leggevi? – le venne fuori, – "Storia degli Eldar dalle origini ad oggi"? "Trattato sulla scissione delle due popolazioni"?

Elenwë, se possibile, arrossì ancora di più. 

– In verità, è una storia d’amore ambientata durante la traversata sulle navi trainate dai cigni…

– Cosa?! – sfuggì a Írissë.

Questa Vanya mangiava la torta con le dita, rinunciava a legarsi i capelli, leggeva storie d’amore!

Avrebbe quasi potuto piacerle. Se fosse capitata un altro momento.

– Non è male, racconta di un amore impossibile… – cominciò Elenwë, forse interpretando il suo silenzio come una richiesta di spiegazioni.

– Lascia perdere, per tutti i Valar! – esclamò Írissë. Ne aveva avuto abbastanza di amori impossibili per una vita intera.

Elenwë spalancò gli occhi all’udire nominare le Potenze, e questa volta davvero si morse un angolo del labbro inferiore, ma non fece commenti.

– Andiamo – disse Írissë, ancora una volta non abbastanza compiaciuta di aver messo la Vanya in difficoltà, e si diresse lungo il vialetto che conduceva alle scuderie. L’altra abbandonò libro e torta sul tavolino e la seguì.

 

Írissë scelse per Elenwë una giumenta docile (va bene mettere in imbarazzo la fidanzata del fratello, ma non al punto di rischiare che si facesse male) e per sé prese il suo destriero nero.

Appoggiò le mani tra le sue scapole, si diede una spinta laterale e con un volteggio elegante balzò sul dorso dell’animale. Poi si preparò a guardare cos’avrebbe fatto la ragazza, che indossava una gonna ed era di una testa più bassa di lei.

Elenwë si accostò alla giumenta, le accarezzò il collo e questa, in risposta, chinò il muso fino portarlo all’altezza del suo viso. Fronte contro fronte, la ragazza e l’animale stettero ferme per un attimo, poi quest’ultimo piegò le zampe anteriori e si abbassò per permettere alla fidanzata di suo fratello di montargli in groppa.

Írissë dovette impegnarsi a fondo per evitare che la mascella le cadesse.

Elenwë si sistemò alla bell’e meglio l’ampia gonna attorno alle cosce e le rivolse di nuovo quello sguardo carico di aspettativa.

Non trovando una singola parola da dire, Írissë spronò il cavallo e percorse al passo il viale che conduceva al cancello, oltrepassato il quale, invece di restare sulla strada principale, imboccò un sentiero bordato da un’alta siepe, che scendeva sinuoso le pendici di Túna per dirigersi a ovest.

Quando si voltò per vedere se Elenwë le stava dietro, fu costretta ad ammettere che la Vanya se la stava cavando molto meglio di quanto avesse immaginato. Se non altro non era avvinghiata alla criniera e non puntava spasmodicamente i talloni nei fianchi dell’animale, come aveva visto fare a molti principianti. Tuttavia rimbalzava in modo scomposto sul suo dorso e questo le avrebbe assicurato dolori ovunque per molti giorni successivi.

Proprio per evitare i rimproveri di sua madre, le diede un consiglio: – Devi prevenire i movimenti del cavallo. Cerca di seguire il suo ritmo e anticipalo stringendo le gambe.

Quando si girò a guardare la volta successiva, e vide gli sforzi dell’altra a fare come le veniva detto, con risultati, a dire il vero, più che buoni per essere una cavallerizza alle prime armi, le venne da sorridere e si affrettò a rivolgere lo sguardo davanti a sé.

Erano ormai arrivate in pianura, e avevano già piegato a destra per dirigersi a nord, quando Elenwë la affiancò e la sorprese con una richiesta. 

– Possiamo andare più veloci?

Giusto perché era lei a chiederlo, Írissë spronò il suo destriero al trotto e, ispirata dall'intraprendenza della Vanya, decise la meta del loro girovagare. Le avrebbe mostrato qualcosa che non si sarebbe mai dimenticata: la tana di un felino con i suoi cuccioli. 

Tra scatti e rallentamenti per far recuperare terreno a Elenwë, arrivarono al limitare del bosco. Lasciarono gli animali e vi si addentrarono a piedi. Írissë soppresse la voce interiore che cercava di metterla in guardia senza particolari difficoltà: non sarebbe stato pericoloso, si disse, se avessero fatto le cose con cautela.

Purtroppo, la cautela fu gettata alle ortiche quando Elenwë cominciò a raccontarle la trama della storia che stava leggendo e lei si trovò a seguire le vicende dei due sfortunati protagonisti senza più curarsi di prestare attenzione al sentiero.

Impegnata com’era ad ascoltare, mancò completamente il punto di osservazione sicuro che intendeva raggiungere, e non si accorse che erano arrivate troppo vicine alla tana, finché non sentì un ringhio minaccioso.

Davanti a loro, in un incavo tra le radici di una quercia imponente, foderato di ciò che il sottobosco poteva offrire come materiale per rendere confortevole il terreno (foglie, fuscelli e piccole cortecce), stavano rannicchiati due cuccioli di puma. Il pelo raso color crema, le piccole orecchie tonde, il musetto con appena un accenno di baffi: non potevano avere più di una decina di giorni. Sarebbe stato uno spettacolo di una tenerezza disarmante… se non ci fosse stata la madre a pararsi tra loro e la tana!

Írissë guardò il puma e seppe all’istante che non avrebbe mai rinunciato a difendere i suoi piccoli, e che avrebbe attaccato con una furia inarrestabile. Con tutti i sensi all'erta, sfilò il pugnale dalla custodia che teneva aderente allo stivale destro. Sapeva che, con tutta probabilità, non sarebbe riuscita ad avere la meglio sull’animale. Tanto per cominciare, l’arma con cui eccelleva era l’arco che, da perfetta idiota, non aveva con sé, dato che non si aspettava di dover cacciare. Col pugnale se la cavava, ma era ben lontana dall’abilità di colui che le aveva insegnato ad usarlo, e di certo non abbastanza capace da affrontare una belva in difesa dei cuccioli.

In ogni caso doveva provarci. Doveva dare a Elenwë il tempo di scappare, non c’era alcuna alternativa. Era solo colpa sua se erano finite in quel guaio e, com’era vero Eru, lei non avrebbe permesso che accadesse niente di male alla fidanzata di suo fratello.

Col coltello proteso in avanti, fece per portarsi tra la belva ed Elenwë, ma quest’ultima, del tutto inaspettatamente, avanzò di qualche passo e si mise di fronte all’animale.

Esterrefatta dalla mossa della Vanya, Írissë ci mise un istante a riprendersi, e in quell’istante Elenwë parlò.

O meglio, emise una singola parola. Una singola parola musicale, che risuonò come uno strumento mai sentito, come note che gli Eldar dovevano ancora inventare. Il suono era carico di un significato che lei non riusciva a comprendere, ma che riverberava chiaro in ogni fibra del suo corpo, immobilizzandola.

Non per la paura, tutt’altro. Per l’assenza di paura, là dove avrebbe dovuto esserci.

C’era una belva feroce a pochi passi da loro, c’era Elenwë in grave pericolo che si frapponeva tra lei e l’animale. Eppure Írissë non provava paura.

Si sporse oltre la Vanya per guardare il puma, e ciò che vide la fece quasi gridare dalla sorpresa. L’animale aveva abbandonato la sua posa aggressiva: le orecchie non più basse, ma protese in ascolto, i muscoli rilassati, scomparso il ringhio dal suo muso, teneva gli occhi fiduciosi fissi sulla Vanya.

Allora Elenwë pronunciò un’altra parola in quella lingua al confine col canto, e l’animale si voltò e tornò nell’incavo dell’albero, presso i due cuccioli.

Írissë si liberò dall’incantesimo e afferrò un polso di Elenwë, con un po’ di timore, ma decisa a trascinarla via il più velocemente possibile.

Aspetta.

Il pensiero arrivò talmente chiaro che Írissë sobbalzò: non si era accorta di avere aperto la mente. Quando l’aveva fatto? Al suono della voce, o già prima?

Alzò lo sguardo su Elenwë e si trovò davanti a quegli occhi chiari, spalancati sul mondo come se fossero in grado di comprendere ogni cosa, e di accettarla per come era.

Guarda. Le disse la Vanya, col pensiero.

E Írissë guardò. Mamma puma si era distesa e allattava i suoi piccoli. Uno dei due si nutriva voracemente, l’altro le aveva infilato il muso sotto il mento. Lei gli leccava la testa, proprio tra le orecchie, che il piccolo teneva ripiegate all’indietro. La madre sembrava volesse toglierselo di dosso, così come sembrava che il cucciolo volesse infastidire la madre, ma era facile capire che entrambi godevano di quel contatto e che nessuno dei due avrebbe voluto che terminasse.

Írissë sentì la mano di Elenwë sulla sua e le sue parole sussurrate: – È meglio andare, ora. 

Si domandò quanto tempo fosse rimasta imbambolata come un’idiota a guardare quella scena. Scoprì che non le importava.

Afferrò la mano di Elenwë e si fece condurre via, in silenzio, finché non furono abbastanza lontane da ritenere di essere al sicuro.

Poco a poco stava cominciando a tornare padrona dei suoi pensieri, e a dare un senso a ciò che era accaduto.

– Parli Valarin? – domandò.

– Solo qualche parola. Sai com’è, qualcosa impari, standogli così vicino – rispose Elenwë.

Írissë la guardò, lasciando, per la prima volta, da parte ogni pregiudizio. Non c’era niente di scontato in quella ragazza. Niente di noioso, niente di banale.

Avrebbe voluto dirle quanto si fosse sbagliata sul suo conto, quanto la ammirasse. Avrebbe voluto sapere tutto di lei, di ciò che le piaceva fare o non fare, di cosa si aspettasse dalla vita, e del perché avesse deciso di condividerla con suo fratello.

Invece disse: – Non avevo mai visto niente del genere.

Ed era sincera. Per quanto fosse abituata a vedere Tyelko dialogare con gli animali, non aveva mai visto questi ultimi reagire come se fossero a loro agio in sua presenza. Tyelko incuteva rispetto, non dispensava sicurezza.

– Come hai fatto? – le chiese.

L’altra rispose, incredula: – Non ne ho la minima idea… 

Írissë si accorse che stava tremando.

– Sono… – continuò Elenwë.

– Sei un’incantatrice di belve feroci, lasciatelo dire – la interruppe Írissë.

– Sono spaventata a morte – concluse l’altra, e scoppiò a ridere. Una risata sincera, liberatoria. Alla quale Írissë non poté fare a meno di unirsi, perché avevano scampato un grave pericolo e perché erano sopravvissute, ed erano insieme. E perché la paura si era portata via tutte le altre emozioni, lasciando solo la gioia di essere ancora in vita.

Uscirono dal bosco chiacchierando e sghignazzando. Arrivati alle loro cavalcature, Írissë domandò: – Preferisci che torniamo a piedi?

E scoprì che non le sarebbe importato di rinunciare a una bella corsa a cavallo, se questo avrebbe significato passare ancora un po’ di tempo con Elenwë, ritardare il momento della loro separazione.

Ma l'altra rispose: – Neanche per sogno! Mi piace cavalcare!

E, come per dimostrare che diceva il vero, montò a cavallo e lo spronò a partire.

Írissë spalancò gli occhi strabiliata e si affrettò a raggiungerla. Fu una corsa divertente come mai ne aveva fatte, con Elenwë che cercava di fare del suo meglio per mantenere un’andatura sostenuta, tra un volteggiare di gonne che arrivavano talvolta a coprirle il viso, e lei dietro che quasi faticava a seguirla, tanto le veniva da ridere a quella vista.

Arrivarono alle scuderie del palazzo di Nolofinwë accaldate ed eccitate, per la corsa, per il pericolo scampato, per il bel pomeriggio inaspettato che avevano trascorso insieme.

Írissë saltò giù dal cavallo al volo, e aiutò a scendere Elenwë, che le scivolò tra le braccia.

– Sarebbe meglio che nessuno venisse a sapere ciò che è successo – propose, con le mani ancora appoggiate sui fianchi della ragazza. Elenwë scosse la testa, una cascata di boccoli biondi che finirono anche addosso a lei, da tanto che erano vicine.

– Non potrei essere più d’accordo.

Írissë sorrise, e per un attimo assaporò la sensazione di avere una nuova amica. Scoprì che era una bella sensazione, una alla quale non avrebbe voluto rinunciare mai.

E la cosa più bella era che non avrebbe dovuto rinunciarci: Elenwë avrebbe sposato suo fratello e loro sarebbero diventate come sorelle.

Si accorse di aver lasciato che il suo pensiero arrivasse all’amica, perché sentì stringersi le mani di Elenwë, che erano ancora appoggiate sulle sue spalle, e vide i suoi occhi celesti brillare di felicità.

Sorelle.

Írissë non avrebbe saputo dire a chi delle due appartenesse quel pensiero.

Non ebbe il tempo di indagare, perché il loro dialogo muto fu interrotto da un grido gioioso: – Ehi, voi due!

– Turukáno! – esclamò raggiante Elenwë e, in un turbinio di stoffe e di riccioli ribelli, si precipitò tra le braccia del suo fidanzato, che sopraggiungeva dalla direzione della casa.

Írissë provò una punta di gelosia nel vedere i due stringersi in un abbraccio, ma durò solo un istante. Elenwë prese per mano Turukáno e lo trascinò fino da lei, sommergendolo di parole su quanto si era divertita. Allora lei si lasciò condurre in casa, stretta tra suo fratello e la sua fidanzata, e nemmeno per un istante il suo pensiero tornò agli amori impossibili.

 

La mattina dopo, Elenwë partì con Turukáno per la costa.

Sulla soglia di casa strinse Írissë in un abbraccio stritolante e le sussurrò all’orecchio: – Quando tornerò, dovrai insegnarmi a cavalcare per davvero.

Írissë le rispose con assoluta sincerità: – Non vedo l’ora, incantatrice.

E cominciò a contare i giorni che la separavano dal ritorno della sua nuova amica. 






 

__________

Note

01
Buon compleanno Mel!
È stata scritta in corsa contro il tempo, ma col cuore. Perdonami eventuali errori di grammatica e di concetto.

02.
Nomi
Turukáno = Turgon
Findekáno = Fingon
Nolofinwë = Fingolfin
Nolofinwion = figlio di Nolofinwë
Fëanárioni = figli di Fëanáro, cioè di Fëanor
Tyelko = Celegorm (da Tyelkormo)
Curvo = Curufin (da Curufinwë)
Moryo = Caranthir (da Morifinwë)

 

  
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