Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Julian_Carax    02/01/2017    0 recensioni
Il sovrano di Venupia è un tiranno, costringe il suo popolo alla miseria e alla fame. Fa, dei suoi eserciti e dei maghi al suo servizio, insuperabile scudo, che la rabbia degli oppressi non riesce nemmeno a scalfire. L'ultima ribellione, posta in atto solo pochi anni prima, ha ottenuto di far traballare lo scranno del sovrano, senza tuttavia riuscire ad estrometterlo dal potere; gli eroi della rivolta sono stati domati nel sangue, i sopravvissuti sfuggono la luce del sole. Una sola speranza sopravvive, e porta il nome di una ragazzina, attorno alla quale, nella sua inconsapevolezza, si scontrano gli opposti desideri delle due fazioni: il sovrano brama la sua eliminazione; le milizie ribelli hanno giurato di proteggerla, in attesa di poterne fare, un giorno, bandiera di un nuovo moto di liberazione.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
1) L'uomo incappucciato

Correva l’anno 2560 del Nuovo Calendario; l’anno quattordicesimo secondo il conteggio ribelle, bandito dalle istituzioni regie. Il rigore delle fredde stagioni acquietava la collera degli oppressi, il flemmatico gelo soffocava il coraggio dei dissidenti; solidificavano le superfici dei Grandi Laghi Settentrionali, mentre insistenti tormente ammantavano di bianco le fronde delle querce secolari, le cupe nubi riversavano morbidi fiocchi sui fili d’erba gelati: una nuova glaciazione era alle porte; tutto era immobile, statico, e pareva immutabile. I venti di rivolta si erano affievoliti ormai da tempo.
Una ragazzina di quattordici anni mirava il proprio riflesso sulla solida superficie del lago. Aveva grandi occhi verdi e lunghi capelli scuri organizzati in trecce ordinate che le ricadevano sulle spalle. Le dita, doloranti sotto il ruvido e logoro panno, erano prossime a perdere la loro sensibilità. Una lacrima scivolò sulla sua guancia, e cadde. Si infranse sulla spessa patina di ghiaccio, confondendosi fra le pieghe deformanti di quell’elemento. Una folata le frustò la pelle provata, le labbra screpolate, richiamando un intenso rossore sulle guance. Strinse le braccia al petto, tremante.
Era una questione di ore, e Mulla l’avrebbe abbandonata, per sempre. Ben presto la solitudine l’avrebbe ghermita con le sue dita incolori, spegnendo l’ultimo bagliore di speranza che sopravviveva nel suo cuore. L’anziana donna dal viso rugoso l’aveva sempre trattata con severità, con durezza, sin da quando avesse memoria di ricordare, sfruttando a più riprese il diritto che ogni precettore può vantare nei confronti del suo allievo: la rimproverava spesso e con asprezza. Ma in fondo le voleva bene. Era solita ripetere che la massima ambizione di ogni essere vivente sia quella alla libertà, e che soltanto attraverso la conoscenza la si possa raggiungere.
Era una delle tre sole persone che la ragazzina avesse mai incontrato nella sua vita. Le altre due erano Julius, il marito di Mulla, venuto a mancare cinque anni prima, di cui conservava flebili ricordi annebbiati dallo scorrere del tempo, e Kyko, la donna giunta una sola volta, alla casa sotto la collina, in groppa al suo cavallo sbuffante; le era stato affidato il compito di prelevare il corpo senza vita dell’anziano. L’aveva incontrata sulla soglia, e Kyko l’aveva guardata fissamente, prima di rimettersi in viaggio, senza rivolgerle nemmeno una parola. Di fronte al pianto di Mulla, aveva però promesso che avrebbe riservato a Julius una cerimonia funebre degna dell’uomo che era stato.
“Non posso restare qui da sola”, aveva piagnucolato allora Mulla.
“Devi!”.
“Senza la compagnia di Julius sarà tutto più difficile”.
“Non posso farci nulla”.
“Tornerai presto?”.
“Dipende da te, da quanto intendi vivere”.
“Quando questo accadrà, cosa ne sarà della ragazzina?”.
“Non sono io a decidere”, aveva tagliato corto, prima di aggiungere: “Il tuo compito ti ricopre d’onore, non dimenticarlo”.
Allora la ragazzina non sapeva ancora scrivere, e aveva appena imparato a leggere. Mulla e Julius le avevano fatto recitare innumerevoli volte noiosissimi brani tratti dal Libro Sacro, e quei passi aveva finito per impararli a memoria. Alcune parole, quelle più complesse, le davano ancora qualche problema, ma nel complesso riusciva a procedere a suo agio fra le righe. La lettura era tutto sommato scorrevole quando le era stato messo sotto gli occhi un grosso tomo dalla spalla consunta, che sulla copertina recava un titolo a grandi lettere d’oro su sfondo porpora: La storia di Hurame e della sua ribellione.
Da quel giorno erano passati cinque lunghi anni, e tante cose, da allora, erano cambiate; a cominciare da Mulla stessa. Lontana dalle braccia del marito, e dal conforto che lui sapeva infonderle, la sua precettrice era ruzzolata lungo l’impegnativa pendenza del viale della vecchiaia. La sua forza era evaporata come rugiada al sole, il suo carattere ruvido si era ammorbidito, e molto spesso, quando lei pensava di non essere osservata, la ragazzina la sorprendeva a scrutare il vuoto, gli occhi spenti, la mente smarrita nei felici meandri del passato. Non c’è sorte peggiore di quella riservata a coloro che impiegano il presente a rimpiangere il passato.
Nascevano le albe, si susseguivano i tramonti, e Mulla diventava sempre più fragile.
“Stai bene, nonna?”.
Lei annuiva, un sorriso forzato sulle labbra diventate violacee, e come per incanto le rughe abbandonavano la distesa della sua fronte; ma solo per un attimo. Poi, una mattina, la vecchia non si era alzata dal letto. La febbre era salita durante la notte, e le gambe tremavano a tal punto da renderle impossibile la posizione eretta; da quel momento non aveva più camminato. Questo accadeva tre mesi prima.
La ragazzina aveva preso in mano la situazione. Le era stato insegnato a pescare e a distinguere le piante commestibili fra gli innumerevoli esemplari che crescevano nel sottobosco poco lontano. Sapeva anche riconoscere le erbe medicinali, e a lungo, indirizzata dalla stessa Mulla, impiegò le proprie energie nel tentativo di rimetterla in sesto.
Un mese e mezzo di tentativi infruttuosi la convinsero che la situazione non sarebbe mai migliorata, e si ritrovò a lottare perché non peggiorasse troppo in fretta. Fu a quel punto che Mulla smise di parlare.
La ragazzina non scambiava parole con nessuno da due settimane.
Questo non le dava alcun fastidio, aveva imparato a non temere il silenzio. Soltanto qualche volta, quando si faceva vincere dall’angoscia, sentiva il bisogno di suoni familiari; allora, per non lasciarsi sopraffare dalla disperazione, pensava a voce alta. E al contempo mirava il proprio riflesso sulla superficie del lago, interrogandosi sul proprio futuro. Di lì a poco sarebbe rimasta completamente sola, e quella prospettiva la terrorizzava.
 
Sciolse le trecce con estrema calma, osservando il profilo del suo viso inondato dalla lunga massa di capelli. Raccolse la spazzola ai suoi piedi, e prese a pettinarli, districandone i nodi, uno per volta. Piegava la testa di lato, socchiudendo gli occhi di fronte al bagliore del sole che si apprestava a scomparire ad Occidente. Studiò l’orizzonte, nascosto dietro le fumose sponde della riva opposta del lago, un insieme di contorni sfumati dalla nebbia e dalla distanza; in basso, la superficie liscia del lago, in alto, nuvoloni spruzzati di rosa, arancione e ocra.
Riabbassò lo sguardo sulla superficie liscia, e la sua mano si arrestò di colpo. Una sensazione che non aveva mai provato le contorse la bocca dello stomaco, accelerando il battito del suo cuore e facendo delle sue gambe fragili rami sottili. Avrebbe urlato, se non le si fosse mozzato il respiro; avrebbe iniziato a correre, se solo non avesse smarrito il controllo del proprio corpo. Dietro di lei vi era un uomo, la osservava attraverso la superficie a specchio. L’espressione imperscrutabile non lasciava trasparire le sue intenzioni; restava semplicemente in attesa. Grigie ondulazioni deformavano il contorno del capo.
La ragazzina si voltò, lentamente, mentre le ginocchia cedevano sotto il peso dell’angoscia.
L’uomo era alto, la sovrastava di almeno tutta la testa, e la sua figura era imponente, quantunque non fosse assai robusto. Vestiva una lunga tunica grigia, dalle maniche larghe, una corda bianca la teneva ben stretta in vita; culminava in un largo cappuccio, anch’esso grigio, che parzialmente celava i lineamenti del suo volto, mentre un mantello del medesimo colore gli ricadeva sulle spalle. Teneva le mani strette sull’impugnatura di un lungo bastone, al quale affidava tutto il proprio peso. Disse: “Sei Lia?”.
La ragazzina annuì, incapace di accompagnare con qualche parola quel semplice gesto.
Lui abbassò finalmente il cappuccio, svelando i lunghi favoriti bianchi; i vitrei occhi azzurri sondarono la sua anima, tentarono di carpire i suoi segreti, pur senza tradire avidità.
“Chi sei tu?”, si decise a domandare.
“Questo non ha importanza”.
“Cosa vuoi da me?”.
L’uomo indicò in direzione della casa. “Lei sta morendo”.
Lia conosceva bene quella verità, e tuttavia sentirla ripetuta da una voce che non fosse la sua le procurò un misto di vertigine e di sconforto che mai aveva testato prima. “Devi portarla via?”.
“Non è questo il mio compito. Verranno a prenderla, non prima però che scocchi la sua ora”.
“Perché sei qui, dunque?”.
“Per te”.
“Per me?”, mormorò, sinceramente sorpresa, e al contempo speranzosa di guadagnare tempo. Analizzava con sorprendente lucidità le possibili alternative di fuga: la lastra di ghiaccio che aveva alle spalle non era una via praticabile; quanto al bosco, invece, la rigogliosa vegetazione avrebbe potuto nasconderla. Se solo fosse riuscita a raggiungerla…
“Abbiamo fretta, Lia. Non provare nemmeno a fuggire, otterresti soltanto di perdere del tempo. E il tempo è assai prezioso, oggi più che mai. Dovrai partire con me, questo è quanto. Vai a raccogliere le tue poche cose, ti aspetterò qui”.
“Come fai a conoscere il mio nome?”.
L’uomo la scrutò, aggrottando la fronte. Poi sorrise, per la prima volta. Ripeté: “Vai a prendere la tua roba. Fa’ in fretta”.
“Non abbandonerò Mulla al suo destino, finché avrà respiro resterò al suo fianco”.
“La malattia procede rapida, inarrestabile”.
“Di cosa muore?”.
“Di nostalgia, cara Lia”.
 
Si guardò attorno, al centro della sua stanza. Non possedeva molto, anzi, non possedeva nulla. Afferrò una sacca, la riempì con un paio di vesti di ricambio, infilò una mano sotto il cuscino bucherellato dalle tarme, alla ricerca di qualcosa; indossò il medaglione che recava inciso il suo nome a caratteri dorati. Era pronta a partire.
Non aveva la più pallida idea di chi fosse l’uomo con il bastone venuto a prenderla, e non aveva il coraggio di opporsi al suo ordine; perché di questo si trattava, nonostante esso fosse stato formulato con gentilezza. In fondo, aveva alternative? Non si era mai allontanata troppo dalla piccola casa, spingendosi al massimo fino a qualche decina di passi all’interno del bosco. Del mondo al di là del lago, e oltre la cresta della collina, conosceva ben poco. Quando Mulla non ci fosse più stata, cosa ne sarebbe stato di lei? Questa considerazione l’aveva decisa ad assecondare quietamente il volere del visitatore, senza eccesive rimostranze. Una sola cosa le premeva: non si sarebbe allontanata prima che Mulla avesse smesso di soffrire.
Si affacciò sull’uscio della stanza dell’anziana donna. Nascosta sotto un cumulo di coperte, respirava affannosamente, gli occhi chiusi. Lia le si avvicinò, ma solo dopo che si fu inginocchiata ai piedi del letto Mulla sollevò le palpebre. I suoi profondi occhi stanchi le comunicarono ciò che non aveva la forza di confidare a parole. Sta per morire.
Le accarezzò la fronte, lo fece con dolcezza. Allora la donna intravide la sacca da viaggio.
“Sono venuti e prendermi”, le spiegò.
Mulla sorrise, e il suo volto si rasserenò.
“Grazie”, sussurrò Lia fra le lacrime, appoggiando la guancia a quella di lei. “Grazie di tutto, nonna”.
Una lacrima silenziosa solcò il volto della donna.
“È giunta l’ora di andare”. L’uomo si manteneva sull’uscio, deciso a non contaminare la purezza di quell’ultimo saluto.
Quando Lia si fu tirata indietro, e fu uscita dalla stanza, lui si chinò sulla vecchia, le sorrise ordinandole una ciocca dietro il lobo dell’orecchio, le mormorò: “Tu e Julius avete protetto la fiamma della speranza, grazie a voi continua a bruciare. Che Dio vi benedica per l’eternità”.
Si rialzò. La donna non respirava più, il suo volto era stato trasfigurato dalla morte in una maschera serena. Le abbassò le palpebre, con gesto delicato, rispettoso. Uscì dalla stanza.
 
Lia attendeva sul prato, si mordeva le labbra per respingere indietro le lacrime.
L’uomo indicò il medaglione. “É meglio se lo affidi a me. Te lo restituirò quando saremo a destinazione”.
“Per quale motivo?”, domandò lei, sospettosa.
“Vi è inciso il tuo nome”. Un attimo dopo aggiunse: “E qualora dovessimo essere fermati lungo la strada l’ultima cosa che vorrei è che loro ne venissero a conoscenza”.
“Loro chi?”.
“Non ha importanza. Seguimi. Il sole è prossimo a tramontare, è ora di andare”.
Lia rimase immobile, ripeté: “Verranno a prenderla?”.
“Non tarderanno”. Detto questo, l’uomo si arrampicò lungo il dolce pendio, vincendo la pendenza con il supporto del bastone. Lia gli teneva dietro, e una volta in cima si voltò ad osservare la casa, un’ultima volta, mentre il profilo della cresta principiava già a nasconderla. Tirò un sospiro.
Tre uomini li stavano aspettando. Cavalieri! Nelle sue letture aveva spesso letto qualcosa circa quegli straordinari guerrieri. Vestivano armature nere, e due di loro erano smontati da cavallo. Stringevano in una mano le redini dei loro destrieri, nell’altra gli elmi dalle fattezze di strani animali. Osservarono Lia a lungo, e uno di loro, un giovane ragazzo dai lunghi capelli biondi, pose un ginocchio a terra e piegò il capo.
Subito il bastone dell’uomo incappucciato picchiò il terreno con violenza. “Cosa fai, stupido ragazzo!? Non ora, non qui! È pericoloso, qualcuno potrebbe vederti”.
Il cavaliere colto in fallo si ricompose. Deglutì in silenzio, costernato.
L’uomo con il bastone si rivolse a Lia. “Hai mai usato i guanti?”.
“Solo quando fa particolarmente freddo”.
“Non hai ricevuto alcuna nozione a riguardo, a quanto pare. Ti dovrà essere insegnato tutto dal principio. Sai cavalcare?”.
La ragazzina scosse la testa.
“Comunque sia, dovrai condividere la sella con me”. Afferrò le redini di un Frisone nero, il cavallo sbuffò dalle narici, irrequieto. “Mettiti comoda, sarà un lungo viaggio”.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Julian_Carax