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Autore: Red Owl    03/01/2017    1 recensioni
Ci sono tante forme di violenza: alcune non lasciano alcun segno tangibile sulla pelle di una donna, ma non per questo fanno meno male.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L’alba in alta montagna è qualcosa che ti toglie il fiato. È la sola cosa al mondo in grado di buttarmi giù dal letto prima del sorgere del sole: del resto, solo qualcosa di eccezionalmente bello potrebbe convincere una pigrona come me a lasciare il tepore delle coperte stropicciate e ad avventurarsi nell’aria frizzante del primo mattino.

A volte è dura, lo ammetto, ma trovo che vi sia un che di profondamente commovente nella quotidiana vittoria della luce sul buio. Mi piace guardare l’immensa placca che si erge dall’altra parte della valle, proprio di fronte al rifugio: è esposta a est, quindi è tra le prime ad accogliere il sole. Quando barcollo fuori dalla porticina rossa, avvolta in un vecchio maglione che un tempo non avrei indossato nemmeno sotto tortura, la montagna pare fatta di grigio metallo, freddo e lucente come la lama di un coltello. Tuttavia, bastano solo pochi minuti affinché si compia il miracolo: dapprima un puntino luminoso sulla sommità estrema, tanto piccolo da risultare quasi invisibile, poi una discesa lenta, ma costante, un velo di rose e oro che ricopre la roccia, facendola risplendere come il più prezioso dei gioielli.

E dire che la prima volta in cui assistetti a questo spettacolo pensai al sangue, al sangue scarlatto che cola da una ferita inferta da poco. Riesco quasi a sorridere, nel ricordarlo: adesso vedo che è solo luce, è solo sole, è solo l’alba di un nuovo giorno.

Anche qui esistono le giornate di pioggia, naturalmente, e allora mi sento un po’ in balia degli elementi: ma va bene così, sono abituata a non avere il controllo totale sulla mia vita – a volte penso che se qualcuno venisse e mi dicesse “Ecco, adesso dipende tutto da te”, andrei nel panico più completo. Ma alla fine è meglio sentirsi piccole di fronte alla Natura, credo, piuttosto che al cospetto di un altro essere umano: perché la Natura è indiscutibilmente altro, ha diritto di fare paura. La Natura è grande nelle sue manifestazioni di potenza, inarrestabile quando scatena il temporale e terribile quando fa rimbombare il tuono tra le pareti di roccia, riempiendo l’aria di elettricità e di odore di zolfo. La Natura è Madre, Matrigna e Padrona – così mi hanno insegnato a scuola. Un uomo, invece, è soltanto quello, un uomo; e non dovrebbe mai arrogarsi il potere di schiacciare un suo simile, di annullarlo con le parole e con le azioni.

Solo adesso mi rendo pienamente conto di questa verità così semplice, così intuitiva da essere troppo spesso data per scontata. Adesso, che ho abbandonato i miei sogni per la realtà. O forse me ne sto costruendo di nuovi, chissà.

Nei miei sogni di un tempo c’era spazio solo per le cose belle, per le stanze ampie e ariose, per le giornate di sole, per le risate, per i vestiti eleganti, per le serate tra amici. Sì, lo sapevo, che esistevano la malattia, la solitudine, la tristezza, persino la morte: lo sapevo, ma quelle erano cose a cui non pensavo mai. E certo non pensavo mai alla violenza: ascoltavo distrattamente i telegiornali, leggiucchiavo i volantini e i manifesti appesi ai muri della stazione con la stessa attenzione con cui avrei sfogliato una rivista di gossip. Erano cose che succedevano alle altre, quelle. Non a me. A me mai.

Ecco.

In quante abbiamo commesso questo errore? In quante siamo rimaste paralizzate dallo stupore e dall’incredulità, quando l’impensabile è accaduto? In quante abbiamo voltato il capo dall’altra parte, fingendo di non vedere i primi sintomi del male che presto ci avrebbe investite, implacabile?

O forse sono stata solo io l’idiota che non si è accorta di nulla. O, peggio: che ha finto di non accorgersi di nulla.

Che, poi, a volte mi chiedo se sia stata veramente violenza, quella che ho vissuto io. Mia madre sostiene di no; ed è per questo che ha smesso di parlarmi. È per questo che mi ha riempita di occhiate deluse, di silenzi impenetrabili, fino a spingermi ad andarmene da casa. Perché, io, di segni sul corpo non ne ho nemmeno uno.

Marco non mi ha mai picchiata, nemmeno una volta. Mi ha urlato contro, mi ha deriso, mi ha sputato addosso il suo disprezzo, mi ha fatta sentire una nullità, mi ha portato via il lavoro, ma le mani non le ha mai alzate.

Probabilmente perché non gliene ho dato il tempo.

I segnali, dicevo. I segnali li avrei dovuti vedere molto prima di quanto non abbia fatto. Avrei dovuto ascoltare Chiara, che mi diceva che, a lei, il mio nuovo ragazzo non piaceva nemmeno un po’. Se ci ripenso adesso mi viene addosso una rabbia incredibile, perché per colpa di Marco ho perso anche la mia migliore amica. O forse non è stata colpa di Marco, perché quella arrogante sono stata io. Me ne vergogno. Mi vergogno di aver pensato che una ragazza che conoscevo da più di vent’anni parlasse per gelosia, perché io avevo il fidanzato ricco, mentre il suo era solo uno studente squattrinato. Che volesse separarmi da lui per non essere costretta ad assistere al mio successo; per non sfigurare di fianco a me, bella, inserita nella società “bene”, con una carriera di tutto rispetto.

A Chiara non glien’è mai fregato niente di tutte queste cose. Lei studiava agraria, si esaltava per la nascita di un vitello e nel week-end andava a spazzare la stalla di suo zio. Non credo che i suoi sogni fossero migliori dei miei, ma non posso negare che lei sia stata un’amica migliore di me. Non posso nemmeno rimproverarle di essersi allontanata. Forse perché, in fondo, sono stata io quella che ha scelto di salire su un piedistallo troppo alto e troppo fragile.

Soprattutto, però, avrei dovuto ascoltare mio padre. Mamma no, lei è sempre stata troppo simile a me – o, meglio, io sono sempre stata troppo simile a lei. Come me, anche mia madre era abbagliata dal sogno che mi apprestavo a vivere, da quel giovane uomo che inaspettatamente – ma non troppo – si era interessato a me. Era il figlio del capo, lui. Aveva dieci anni in più di me, aveva la testa sulle spalle e, cosa più importante, aveva anche un’azienda. Per la mia mamma quella era già una garanzia. Anche per mio padre era una garanzia: la garanzia che il tipo che avevo portato a casa una sera di ottobre era uno stronzo fatto e finito.

Ha sempre avuto le sue idee, il mio papà. È strano come un tempo mi sentissi lontana da lui anni luce e adesso, mentre aspetto il sorgere del sole, seduta su un sasso freddo di brina e bagnato delle lacrime della notte, la sua visione del mondo diventi ogni giorno un po’ più mia.

Lui diceva che i tipi come Marco non sanno dare il giusto valore alle cose, diceva che prendono, consumano e buttano senza riguardo. Non so se avesse ragione, a dire il vero, ma di certo avrei fatto bene a prendere un po’ più sul serio la sua diffidenza.

Subito, però.

Già quando andava ancora tutto bene, quando ancora la mia storia appena nata mi sembrava una favola, troppo bella per essere vera. E forse lo era veramente. Troppo bella, intendo.

Perché a me ancora piacciono, le cose che Marco faceva per me: in un mondo in cui i miei primi ragazzi mi chiedevano di dividere anche il prezzo di un gelato, mi pareva incredibile che un uomo che frequentavo da una settimana soltanto mi offrisse una cena in un ristorante di lusso, senza chiedermi un centesimo e scostandomi addirittura la sedia, come un vero gentiluomo. La cavalleria non è morta, pensavo.

In azienda lui era più freddo, più distante. Ma anche la sua freddezza era giocosa, complice. Il figlio del capo che se la fa con l’ultima arrivata, l’impiegata bellina, ma un po’ imbranata. Che la guarda, sperando che i colleghi non lo notino, perché sarebbe troppo sconveniente. Che le sorride. Che si innamora di lei. Che le chiede di uscire. E poi anche di sposarlo.

Ma dove succedono, cose del genere? Solo nei libri, pensavo io, e forse in qualche film. E invece no, era tutto vero, tutto reale; e stava accadendo proprio a me.

Dal mio punto di vista privilegiato, quello che solo il senno del poi sa offrire, adesso riesco a vedere che già allora c’era qualcosa che mal si adattava al copione da romanzo rosa che mi pareva di recitare. Uscivamo spesso con i suoi amici, trascorrevamo – trascorrevano – serate interminabili a parlare di affari e di cose serie, ma quando gli proponevo di uscire con i miei, di amici, lui sbuffava e alzava gli occhi al cielo. È normale, pensavo. Ha dieci anni in più di noi, i nostri discorsi devono sembrargli chiacchiere da ragazzini.

Mi tenevo uno o due giorni al mese per uscire da sola, con le mie amiche. Che male c’è?

Ricordo il primo, vero litigio. Non voglio che continui a sfilare, mi aveva detto.

Eh. Sfilare.

Parola grossa, quella. Il mio era solo un passatempo innocuo, piacevole, spesso addirittura fatto a fin di bene. Anni prima mi ero iscritta a una piccola agenzia di modelle, una cosa dilettantistica. Era divertente, avevo anche dei piccoli sconti sugli abiti che mi venivano fatti indossare. Niente di scandaloso. Niente intimo, al massimo qualche costume da bagno. Tanti abiti da sposa.

Ma a Marco non stava bene. Non per me, eh: diceva che rovinava la sua immagine. Voleva che smettessi. Forse è proprio per questo che, all’inizio, mi sono opposta alla sua richiesta: mi costa ammetterlo, ma credo che, se mi avesse posto quel divieto per gelosia, avrei obbedito senza battere ciglio. Credo che, stupidamente, mi sarei sentita preziosa, bellissima.

E invece lui non voleva che i suoi amici pensassero che si fosse fidanzato con una ragazza facile: come potevo essere così stupida da non capire quello che gli altri pensavano di me, quando sculettavo sui tacchi nel bel mezzo di una piazza cittadina? Possibile che non mi rendessi conto che, se volevo diventare sua moglie, dovevo imparare ad avere un po’ più di classe?

Ecco, la mise in questi termini: o smetti di sfilare o ci lasciamo. E io, cretina che sono, smisi di sfilare. Cretina, dico, non tanto per il fatto di avere abbandonato il mio hobby, quanto piuttosto per l’essere stata incapace di vedere ciò che veramente si nascondeva dietro a quello che, all’epoca, mi parve un capriccio, una paranoia un po’ sciocca: per Marco, io ero e sono sempre stata un accessorio. Non avevo una personalità, dei desideri, una volontà: o, se anche li avessi avuti, li avrei dovuti sacrificare per omologarmi a lui.

Quando terminai il periodo di prova nella ditta di suo padre, il mio contratto non venne rinnovato. Inizialmente perché, con la crisi che picchiava duro, non potevano permettersi di assumere un’impiegata in più. Poi, quando comparvero delle facce nuove, il problema divenni io. Non avevo ancora delle competenze abbastanza specifiche, non sapevo fare abbastanza cose. Avevano bisogno di un po’ di tempo, così da trovare un ruolo più idoneo per me. Nel frattempo, che restassi pure a casa: tanto non avrei certo avuto bisogno di lavorare, io. Potevo permettermi di dedicarmi ad altre cose, ci avrebbe pensato Marco a guadagnare a sufficienza per entrambi. E poi, se un giorno fossero arrivati dei bambini, avrei dovuto restare a casa comunque, a occuparmi di loro.

E qui sta la cosa curiosa: c’è stato un periodo in cui pensavo che fosse proprio quella, la vita che volevo. Pensavo che non ci fosse nulla di meglio di avere un marito ricco, che fosse in grado di mantenermi e che mi lasciasse tutto il tempo per dedicarti ai miei hobby e alle mie passioni. Quando però mi ci ritrovai davvero, in quella situazione, capii che la realtà e i sogni non erano proprio la stessa cosa.

Sono sola, adesso, la stagione turistica non è ancora esplosa e il rifugio è deserto, a quest’ora di mattina: eppure nemmeno ora mi sento tanto sola quanto in quei primi dieci mesi di matrimonio. Di quel tempo ricordo soprattutto una cosa: la disillusione. L’incredulità, prima, ma poi la disillusione.

All’inizio pensavo che fosse solo questione di tempo e che la sensazione che mi mordeva lo stomaco quando, la mattina, mio marito andava a lavorare e io rimanevo sola in una casa troppo nuova sarebbe presto scomparsa. Quando capii che non se ne sarebbe andata, ma che, al contrario, avrebbe piantato radici sempre più profonde nel mio animo, pensai che sarebbe stato utile trovare qualcosa da fare.

Scelsi il giardinaggio. Mi piaceva prendermi cura dei fiori, mi allettava l’idea di decorare il giardino seguendo un disegno che era solo ed esclusivamente mio. Quando tornai dalla serra con la macchina carica di piante, però, Marco andò su tutte le furie. Pretese di sapere quanto avevo speso e, quando glielo rivelai, mi diede della cretina, dicendo che, con quei soldi – che erano i suoi soldi, a voler essere precisi – avrei potuto pagare un buon giardiniere. Che, per inciso, avrebbe fatto un lavoro infinitamente migliore di quello che avrei mai potuto fare io.

Sistemai comunque i miei fiori e le mie piantine, ma la cosa non mi diede alcuna gioia. Non sono mai stata brava a fare le cose esclusivamente per me stessa.

Da lì fu tutto in salita – o in discesa, a seconda dei punti di vista. Piano piano, iniziai a rendermi conto quello che ero veramente: una giovane donna di nemmeno trent’anni che non viveva più, ma si limitava a esistere, come un soprammobile di cristallo. Bello e prezioso, sì, ma, in fin dei conti, inutile.

Poco alla volta, gli svaghi che Marco mi offriva persero la loro attrattiva: le escursioni in macchina divennero routine, le gite in barca un’occasione per sfoggiare un bolide costato troppo e usato troppo poco, le cene con gli amici un’occasione mondana da cui io, che di finanza sapevo poco, ero sostanzialmente esclusa.

Iniziarono a mancarmi le mie amiche e, soprattutto, iniziò a mancarmi la mia famiglia; quella famiglia che ormai vedevo solo una volta ogni quindici giorni.

Fu quando mi ritrovai a piangere sul divano di pelle, scoprendolo troppo diverso da quello un po’ liso della casa dei miei genitori, che capii che era giunta l’ora di prendere in mano la situazione. Era giunta l’ora di rendere mie quella casa e quella famiglia.

Iniziai a dire i primi no. No alle vacanze con i suoceri, no al tappeto di un colore che odiavo, no all’annullare l’uscita con mia sorella.

Marco sulle prime parve divertito dalla mia presa di posizione, sorrideva accondiscendente, come si farebbe con un bambino un po’ buffo, che non si rende conto dei propri limiti.

Poi la cosa iniziò a infastidirlo. Passò al contrattacco; e fu un bombardamento a tappeto.

Prima furono i soldi. Era lui che guadagnava, lui che portava a casa il pane e io mi sarei dovuta mostrare riconoscente, invece che avanzare continuamente delle pretese da bambina viziata. Che non facessi la vittima, diceva, perché lui non mi faceva mancare niente: né l’utile né il dilettevole. Io, di fatto, non facevo nulla per portare avanti la baracca: nemmeno i lavori di casa, visto che gli toccava pagare una donna che pulisse al posto mio.

Quando gli feci notare che non avevo preso una laurea per poi passare la vita a lavare i pavimenti, lui ribatté che, a quanto sembrava, la mia laurea era sprecata comunque, dal momento che passavo la giornata con le mani in mano, senza mettere a frutto i soldi che i contribuenti avevano speso per la mia formazione.

Allora mi cercai un lavoro, per mettere a tacere mio marito e la mia insoddisfazione, perché, al di là di tutto, la depressione per una vita sprecata iniziava ad avvolgermi nelle sue spire. Le cose non migliorarono, però. Anzi, peggiorarono, perché io un lavoro non lo trovai mai. E non fu colpa della crisi, della situazione economica disastrosa in cui si trovava il Paese: no, ero io che ero una buona a nulla, ero io che non riuscivo a convincere nessuno ad assumermi. Neppure suo padre, avevo convinto. Per questo mi aveva lasciata a casa.

Mi sputava addosso il suo disprezzo; e allora gli chiesi perché mi avesse sposato. Perché mi pensava diversa, disse. Mi pensava più divertente, più intelligente. E invece ero solo un’arrampicatrice sociale. Volevo i suoi soldi, la sua casa, ma non volevo faticare per averli. E, quel che era peggio, non avevo nemmeno la capacità di guadagnarmi il rispetto della gente che mi stava attorno.

Ero inutile.

I suoi attacchi erano ridicoli, deliranti, insensati. Mi rimbalzavano addosso, venivano respinti dalla corazza di indignazione della quale mi ero rivestita. Ma, rimbalzo dopo rimbalzo, quella corazza iniziò ad ammaccarsi e le sue parole riuscirono a raggiungere la mia pelle. E poi affondarono, giù, fino al cuore.

Ero inutile.

Vista da fuori, ero sempre sorridente. Mostravo i miei vestiti nuovi, i miei capelli perfetti; e intanto mi sentivo come una di quelle mogli-trofeo che ogni tanto si vedono nei film. Quelle che avevo sempre disprezzato. Che poi, diciamocelo, non è che io fossi esattamente bella come loro. Ero carina, sì, ma niente di più. Ero solo vagamente decorativa.

Ero inutile.

Poi un giorno Chiara venne a trovarmi. Ero felice di vederla, ci eravamo perse di vista quasi un anno prima, da troppo tempo i nostri rapporti si erano ridotti a una sporadica telefonata qua e là. Le offrii da bere, un rosso che Marco teneva in cantina per le occasioni speciali.

Lo feci apposta, oh, sì. Era un dispetto infantile, una piccola vendetta, che però mi fece fremere di soddisfazione. Poi lui arrivò. Rivolse a Chiara uno sguardo di disprezzo, il solito, poi vide la bottiglia.

Perché l’hai aperta, mi chiese. Era per un’occasione speciale.

Questa è un’occasione speciale, gli risposi. Festeggio con una mia amica.

Non era tua. Avresti dovuto chiedermelo. Oca.

Mi infuriai. No, davanti a una mia amica no. Non mi avrebbe insultato.

Vieni in cucina.

Vieni in cucina, allora.

Non mi ricordo molto, di quello che accadde in cucina. Ricordo l’improvvisa furia nei suoi occhi, quella che non avevo mai visto prima d’allora. Ricordo la rabbia, il disprezzo. Mi ricordo contro il frigorifero, con il cuore che esplode di odio e di paura. Ricordo la sua voce che urla, il suo viso a un centimetro dal mio, la sua saliva sulla fronte. I suoi pugni sul metallo. Io che retrocedo, che mi appoggio alla credenza, un coltello dimenticato, sangue sulla mia mano.

Poco poco. Quasi impercettibile

Ma rosso.

Il mondo che gira e, inspiegabilmente, un presagio.

E poi la calma.

Non in lui, in me.

Me ne vado, gli dissi.

Sì, vattene. Da me non avrai un centesimo.

E così me ne andai. Semplicemente così, con l’auto di Chiara – anche la “mia” Cinquecento era, in realtà, sua.

Così finì quello che, quando era iniziato, mi era sembrato un sogno. Quando me ne tornai a casa dei miei genitori, non avevo più nulla. Non solo non avevo gli oggetti che avevo lasciato a casa di mio marito: non avevo più niente dentro. Perché, anche se sapevo che le parole di Marco non valevano niente, anche se sapevo che gli ultimi quindici mesi di vita non li avevo persi da sola, qualcosa era cambiato, in me.

Il rapporto con un’amica tenuta lontana per mesi e mesi non si recupera in una notte. Il lavoro perso non lo si riacquista magicamente. La solitudine di un anno non sparisce così, come se nulla fosse. In più, ho perso mia madre, perché lei non ha mai capito quello che ho vissuto. Lei crede che mi sia arresa troppo presto, che non abbia avuto la costanza di superare un periodo difficile e portare avanti un progetto di vita che io stessa mi ero scelta.

Perché, se ci pensate bene, la mia storia è banale: non sono mai stata picchiata, io. Non sono stata accoltellata, sfigurata, violentata. Non sono stata uccisa.

Marco si è solo preso la mia autostima. I miei sogni. Tutti quello che sapevo di me. Marco mi ha tolto il posto che ho sempre chiamato “casa”. Marco mi ha tolto uno scopo. Marco, forse, mi avrebbe annientata in un modo subdolo e sottile, se non fosse stato per mio padre e per un insperato colpo di fortuna.

Perché, grazie al mio papà, venni a sapere che c’era la possibilità di prendere in gestione un piccolo rifugio poco frequentato, su in valle, in un posto di cui conservavo solo qualche ricordo offuscato risalente a quando ero bambina.

Accettai d’impulso, pur di sfuggire alla mia vita in frantumi e alla disapprovazione di mia madre. E, chissà, forse quello fu il primo passo verso il mio riscatto.

Non è stato facile, perché tutto è così diverso, qui. Tutto è così differente dalla vita che sognavo per me. So che non è una soluzione definitiva, questa. Farò una stagione, forse due, poi tornerò giù. Però, a volte rido pensando a quanto sia straordinario che, in così poco tempo, io sia riuscita a crearmi delle aspirazioni tutte nuove. Degli interessi, nuovi.

Non è forse una vittoria, questa?

Altri giorni penso che no, non lo è. Se avessi vinto, non avrei dovuto abbandonare i miei vecchi sogni. Se avessi vinto, avrei avuto la costanza di inseguirli, sempre e comunque.

Ma alla fine penso: quando sono arrivata, il rosso del sole che sorge mi ricordava quello del sangue che, una sera, avevo visto scorrere nel mio futuro. Adesso mi sembra solo la fiamma dell’alba che squarcia il velo dell’ombra e dell’incoscienza.

E questa, sì, è una vittoria.

   
 
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