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Autore: Milla Chan    03/01/2017    4 recensioni
Akaashi capisce che c’è qualcosa di strano non appena mettono piede in università: nessuno saluta Kenma, e lui tiene gli occhi fissi sulle piastrelle su cui cammina, le sopracciglia contratte. Gli si legge in faccia che vuole uscire il prima possibile da lì, che fatica a camminare e lo fa in modo macchinoso, irrequieto. Il suo viso sembra stanco ed è abbastanza sicuro che non abbia dormito abbastanza.
Più o meno sa che tipo di persona è Kenma: lo ha incontrato al liceo, hanno giocato parecchie partite insieme, c’è stata quella vena di sana competizione a far scattare tra loro qualche scintilla.
Lo conosce, certo, ma non davvero, non abbastanza bene da rimanere in contatto o mandarsi mail, o considerarlo un vero e proprio amico.
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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From winter sun to summer snow

Kenma deve prendere un respiro profondo tutti i giorni, appena scende dal letto. Ogni mattino si dice che è il giorno giusto, quello buono, ma appena apre la finestra e sente il rumore della strada si blocca, la mente gli si affolla di tanti pensieri fastidiosi e finisce sempre col fare la stessa cosa: richiudere la finestra e tornare a letto, lontano da quei problemi e da se stesso, nel torpore del sonno.
Kenma è andato in università tre volte. Tre giorni, la prima settimana, ad aprile.
In quei tre giorni c’era stato un numero spropositato di persone che hanno tentato di approcciarsi a lui, di parlargli, dopo esserglisi sedute vicino. Ma Kenma si è chiuso a guscio, subito. Non voleva. Gli si attorcigliava lo stomaco. Non conosceva nessuno e avrebbe voluto che restasse così, ma gli altri non lo assecondavano, insistevano e l’idea di dover per forza fare amicizia con loro lo terrorizzava e lo terrorizza ancora.
Il quarto giorno era stato troppo: troppi rumori, troppe persone, troppe voci, troppe immagini. Gli sembrava di sentire tutto, anche il ticchettio delle lancette di ogni orologio al polso di ogni ragazzo. Aveva lasciato che il riso che aveva sollevato a mezz’aria ricadesse nel bento che stava mangiando e aveva appoggiato le bacchette sul tavolo. Lo stomaco gli si era chiuso perché anche solo l’attrito che le sue dita producevano contro il legno delle bacchette lo infastidiva.
Aveva preso lo zaino nel bel mezzo della pausa pranzo ed era strisciato via col cuore in gola e tutti i sensi troppo attenti ad ogni minimo stimolo proveniente dall’ambiente che lo circondava, i muscoli così tesi da essere doloranti.
Dopo quel giorno, vivere senza nessuno a prendersi cura di lui non l’ha aiutato a fare le decisioni migliori.

Non appena Kenma aveva finito il liceo, Kuroo gli aveva proposto di andare a vivere insieme a lui. Le loro università, tuttavia, sono davvero troppo, troppo distanti e Kenma, anche se aveva soppesato a lungo l’offerta, aveva infine detto di no.
Se ci ripensa ora, Kenma si pente tantissimo della sua scelta. Si dà dello stupido per aver osato pensare che il se stesso del futuro sarebbe stato diverso, che avrebbe davvero potuto sopportare l’assenza costante di Kuroo, la vita da solo.
L’ultimo anno di liceo era stato abbastanza terribile, senza Kuroo, ma perlomeno c’erano Taketora, e Lev, e tutti gli altri. Perlomeno viveva ancora a casa sua, col suo gatto, e i suoi genitori gli preparavano la cena, gli pulivano la casa, e Kuroo andava a trovarli non appena poteva.
Ora è diverso. Per la prima volta sono vite distinte, quelle di Kenma e Kuroo. Non ha nessuno che lo aspetti a casa. Non ha il suo gatto da coccolare, nessuno a coccolarlo.
Kenma si era sentito sprofondare in un buco nero man mano che si era reso conto che l’università impegnava Kuroo tanto quanto impegnava lui -o almeno, quanto avrebbe dovuto impegnarlo. I loro giorni liberi non sarebbero mai combaciati, ci sarebbe sempre stato qualcosa da fare e il contratto d’affitto per l’appartamento che aveva preso era annuale, quindi ormai era davvero troppo tardi per spostarsi da Kuroo, e troppo vergognoso e riprovevole tornare dai suoi genitori con la coda tra le gambe, soprattutto dopo che avevano costruito tante aspettative su di lui. Kuroo gli scrive sempre, appena può ma, semplicemente, non è la stessa cosa. Non lo è, e lui si sente solo e non lo credeva possibile.
 
La casa che ha preso in affitto è piccola e silenziosa, internet prende male e di cucinare proprio non ne ha voglia. Il ventolino è suo amico nei giorni afosi di quell’estate, almeno.
Anche se la città era sempre Tokyo, a Kenma sembra di essere dall’altra parte del mondo.
Ma ormai è agosto. Sono iniziate le vacanze estive e il bisogno di vedere Kuroo è diventato terrore, e se prima avrebbe pagato pur di vederlo, adesso preferirebbe congelare l’orologio e il calendario e sotterrarsi piuttosto che farsi vedere dopo tanti mesi in cui non ha fatto altro che vegetare e mentirgli.
 
Kuroo capisce presto che c’è qualcosa che non va: tutte le giustificazioni che Kenma trova per non incontrarsi con lui sono delle scuse. Non capisce il perché: hanno del tempo libero, finalmente; hanno due settimane da dedicare a loro stessi. Possono passare del tempo assieme dopo tanti mesi in cui si sono scritti e basta, perciò non riesce a trovare una logica in quel comportamento. Una settimana si brucia così, nei rimandi continui di un appuntamento che non arriva mai.
Kuroo inizia ad irritarsi.
Le risposte di Kenma sono criptiche e sibilline, ma Kuroo riesce ad estorcergli qualcosa. Qualcosa di non molto chiaro, ma che forse avrebbe preferito non sentire, o fingere di aver capito male.
Kenma non mette il naso fuori di casa da mesi.
Kuroo è incredulo quando lo scopre. Ma ora è libero, libero dall’università, e non ci pensa due volte ad affrontare quell’ora e mezza di viaggio che lo separa dall’appartamento di Kenma.
 
Kenma sente suonare il campanello e sobbalza, voltando la testa verso il videocitofono. Sbianca e si guarda attorno, e il cuore inizia a battergli forte mentre si alza e cammina su e giù per quei pochi metri quadrati, senza sapere cosa fare.
Non vuole farsi vedere in quello stato, con quelle occhiaie e quel pallore; e i polsi ossuti non avrebbero fatto altro che agitarlo ancora di più, e la casa è semplicemente un disastro.
Non gli apre ma Kuroo non demorde e il campanello continua a suonare.
Kenma guarda per qualche secondo il cellulare che si illumina per la chiamata in arrivo dal ragazzo in piedi sul marciapiede, qualche piano più in basso.
Kenma odia parlare al telefono. Ma glielo deve, forse. Glielo deve, quindi risponde, anche se ha già la gola chiusa.
La voce sorprendentemente pacata e apprensiva di Kuroo gli fa venire da piangere.
 
Kuroo gliel’aveva sempre detto, nel corso dell’anno precedente, glielo aveva ripetuto tante volte, ancora prima che iniziasse l’università: avrebbe dovuto sforzarsi di aprirsi, di trovare nuovi amici. Si era preoccupato fin da subito, Kuroo, perché sapeva com’era fatto Kenma e l’idea di non poterlo tenere sott’occhio lo agitava.
Scoprire che le sue paure si sono concretizzate lo fa sentire come se gli avessero aperto un buco nel cuore.

Kenma sente chiaramente il malcontento mascherato nella sua voce. Sente la frustrazione, lo sconforto, e si sente in colpa, tanto che vorrebbe che il pavimento si aprisse e lo inghiottisse per farlo sparire e per risparmiargli quella sensazione.
“Non so cosa dirti.” conclude Kuroo, all’altro capo del telefono, dopo che in realtà gli ha già detto troppo.
Kenma si nasconde il volto con una mano e stringe i denti per non singhiozzare, perché il senso di colpa si è acuito e gli trafigge il petto.
Sta facendo preoccupare Kuroo, gli sta procurando preoccupazioni che non avrebbe dovuto avere; sta perdendo tempo per lui, per cercare una soluzione e risolvere qualcosa a cui Kenma non voleva neanche pensare.
Kuroo avrebbe solamente dovuto continuare la sua vita, la sua università, non pensare a lui, continuare a studiare, perché lui è bravo e gli riesce bene: Kenma vuole dirglielo ma la voce non esce.
Si morde le labbra e chiude la chiamata, toglie il chiavistello, si fionda giù per le scale; salta l’ultimo gradino, si sente fluttuare nel vuoto cosmico quando tende istintivamente le braccia verso di lui.
Singhiozza mentre affonda la faccia nel suo petto ed è irreale, è sommerso dall’imbarazzo ma si lascia abbracciare.
Kuroo quasi lo stritola. Non vuole lasciarlo andare per niente al mondo.
 
I giorni successivi passano un po’ in silenzio, ma c’è Kuroo al suo fianco. Mette a posto casa sua, lo porta a fare la spesa, fa qualche lavatrice e lo butta sotto la doccia per tre ore. Lo coccola, gli riempie la fronte e le mani di baci rassicurati e anche se è agosto e fa caldo, dormire in due in quel letto non è poi così scomodo.
Non tira fuori la questione subito. Vuole solo tranquillizzarlo.
 
“Ti prego Kenma, prova ad andare ancora una volta.” dice, quasi sulla soglia della porta, perché l’indomani le lezioni sarebbero ricominciate e lui deve andarsene.
Una sanguinosa guerra è in corso nella testa di Kenma.
“Se non vuoi farlo per te, fallo… per me?” tenta Kuroo, sconfortato e incerto, perché non è sicuro che quelle siano le parole giuste da usare per convincerlo, ma non gli viene davvero in mente altro. Forse spera di convincerlo perché conosce Kenma meglio di chiunque altro e, magari, può sembrare la voce della sua coscienza.
Si è sempre preso cura di lui, vuole solo il suo bene ed è il suo migliore amico fin da quando erano bambini.
In realtà c’è molta confusione nelle loro teste, negli ultimi anni, perché nessuno dei due sa esattamente come catalogare quella loro relazione.
Qualcuno azzarderebbe a dire che il loro è un rapporto fraterno, ma questo non giustificherebbe i baci silenziosi e lenti dati a notte fonda, quando sembrava essere un’ottima idea. Sono rimasti sempre celati a tutti, e forse un po’ anche a loro stessi perché non sono mai riusciti a parlarne davvero.
Quei baci erano rimasti lì, vacanti, come spettri fluttuanti nell’oscurità. Sono iniziati con l’inizio del liceo e non sono mai smessi.
Forse si appartengono e basta. Forse sono tutto o forse sono niente, forse è giusto così, oppure no, ma non importa perché di certo testimoniano l’affetto che provano l’uno per l’altro e che è in assoluto uno dei fondamenti delle loro vite.
 
Kenma annuisce, totalmente assorto. Ecco, ora si sente come se stesse facendo un torto all’umanità intera.
Il sì che pronuncia subito dopo è flebile e tremante. Il bacio di Kuroo contro la sua tempia è dolce e lunghissimo, come il suo abbraccio, come se fosse un addio.
Chiude la porta e Kenma va ad abbandonarsi con un sospiro contro la sedia, la schiena curva e il capo chino.
Le lacrime e fermano la loro caduta sulle sue ginocchia e si allargano sulla stoffa fino a diventare piccole macchie bagnate. Si sfrega la faccia con un po’ troppa forza e gli angoli degli occhi ora gli bruciano. È doppiamente stupido.
Forse così fa più male, pensa Kenma. Forse era vero che era meglio non vederlo.
 
Lo scossone che gli ha dato Kuroo e la paura di deluderlo sono talmente forti che il giorno dopo, anche se con un nodo alla gola e la sensazione che il minimo movimento lo avrebbe fatto vomitare, scende davvero in strada per andare alla fermata. Forse è anche un po’ merito della casa pulita, che sembra quasi nuova, e gli dà una sensazione abbastanza piacevole, così come i vestiti freschi.
Anche il cielo sembra volerlo aiutare, perché è limpido e chiaro, ma Kenma non è propriamente di buon umore. Il bus ci sta mettendo troppo e l’attesa fa aumentare l’ansia.
Kenma guarda l’orologio: se il bus non arriva nei prossimi trenta secondi, torna in casa. È deciso. Gli sembra fattibile e sta per voltasi e scappare verso il portone del condominio, ma il rumore di un motore lo fa fermare e il sollievo che si era affacciato nel suo cuore crolla come una torre in rovina.
Lo stomaco gli si ribalta. Il bus è davvero arrivato in quel mezzo minuto e Kenma pensa che sia un pessimo scherzo del destino. Non ha il coraggio di scappare e tradire la parola data, perché è come avere Kuroo davanti agli occhi: la sua faccia rattristita, le sue mani che cercano di tranquillizzarlo accarezzandogli i capelli -oh, gli mancava, gli mancava tanto quel gesto.
Stringe i denti e sale sul mezzo, troppo pieno per i suoi gusti; infatti non vede un posto a sedere e deve stare in piedi.
Spaesato, resiste qualche fermata prima di sentire l’impellente bisogno di attaccarsi al telefono. Fruga nella tasca, il bus riparte improvvisamente e Kenma non fa in tempo ad aggrapparsi al sostegno.
Sgrana gli occhi e si sbilancia indietro, convinto che la magra colazione che ha fatto gli si ripresenterà sicuramente da un momento all’altro. Sbatte contro la schiena di qualcuno e si volta per chiedere scusa, spalanca la bocca, ma la sua faccia lo ammutolisce.
“Kozume?”
La voce di Akaashi gli arriva alle orecchie in tutta la sua tranquillità, vellutata ma anche piacevolmente sorpresa.
Lo guarda dritto negli occhi blu e pensa a come rispondere senza soccombere all’istinto di scappare via.
“Scusa.” si limita a dire, riferito all’urto di poco prima. Akaashi non ne sembra infastidito, anzi, ha un’espressione molto diversa da quella a cui è abituato.
“Non pensavo che ti avrei trovato qui. Vai all’università?”
Kenma annuisce e cerca di non pensare a cosa evochi quella parola nella sua mente.
Il bus rallenta e Akaashi raddrizza la testa per lanciare un’occhiata fuori dal finestrino. “Oh, scusa, devo scendere qui.”
“… Anche io.”
 
Akaashi lo guarda un attimo confuso, poi realizza, perché non ci sono altre spiegazioni.
Vanno alla stessa università e non lo sapeva? Eppure è settembre. L’università è iniziata da mesi e si chiede come abbia fatto a non averlo mai visto, e l’elevato numero degli studenti della loro classe non può essere una scusa.
 
Akaashi capisce che c’è qualcosa di strano non appena mettono piede in università: nessuno saluta Kenma, e lui tiene gli occhi fissi sulle piastrelle su cui cammina, le sopracciglia contratte. Gli si legge in faccia che vuole uscire il prima possibile da lì, che fatica a camminare e lo fa in modo macchinoso, irrequieto. Il suo viso sembra stanco ed è abbastanza sicuro che non abbia dormito abbastanza.
Più o meno sa che tipo di persona è Kenma: lo ha incontrato al liceo, hanno giocato parecchie partite insieme, c’è stata quella vena di sana competizione a far scattare tra loro qualche scintilla.
Lo conosce, certo, ma non davvero, non abbastanza bene da rimanere in contatto o mandarsi mail, o considerarlo un vero e proprio amico.
Sa invece che Kuroo e Bokuto sono buoni, ottimi amici e gli sembra davvero molto, molto strano che non avessero parlato dell’università in cui sarebbero andati i loro rispettivi palleggiatori o, se l’avevano fatto, che nessuno dei due avesse urlato con entusiasmo nel sapere che andavano nella stessa università.
È particolarmente curioso, ora, averlo così vicino in un contesto tanto diverso dal campo da pallavolo.
 
Anche Kenma è confuso e leggermente arrabbiato con Kuroo, perché lui sicuramente lo sapeva, di Akaashi. Bokuto non può non averglielo detto almeno un milione di volte, no? No, se l’avesse saputo gliel’avrebbe sicuramente riferito.
Nel frattempo, però, Kenma si sente anche abbastanza felice di poterlo seguire, perché non ha idea di quale sia l’aula in cui deve andare e, in aggiunta a ciò, il suo senso dell’orientamento è pessimo.
Inizia a sudare quando nota che Akaashi ha intenzione di sedersi vicino a lui -oppure è lui a doversi sedere vicino ad Akaashi, a questo punto?
Lo guarda con la coda dell’occhio, ma quando Akaashi se ne accorge e ricambia lo sguardo, lui torna ad abbassare la testa ed è contento che i suoi capelli coprano la visuale.
Il ricordo del caos del corridoio affollato che ha sperimentato poco prima lo disturba ancora, e gli sembra di dover ancora fare tante, troppe cose.
Si sforza di pensare positivo e pensa di essere abbastanza fortunato per il fatto che nessuno abbia ancora provato a parlargli. Nessuno a parte Akaashi, che ora si è definitivamente accomodato accanto a lui, ma è un ragazzo silenzioso e non gli trasmette troppa ansia, fortunatamente. Forse il fatto di conoscerlo, anche solo un minimo, contribuisce ad attenuare la sensazione di totale smarrimento.
Un po’ è dispiaciuto di non averlo incontrato subito, in quei primi giorni ad aprile, ma effettivamente sono davvero in molti a seguire quel corso e probabilmente Akaashi si era confuso tra la ressa e vederlo era stato impossibile.
 
La lezione inizia e lo stomaco gli fa male come se qualcuno gli stesse bucando le pareti interne. Non prende neanche un appunto, si limita solo a scarabocchiare qualcosa di insensato, di tanto in tanto, con la matita spuntata. Akaashi lo guarda incuriosito e impensierito, ma non dice nulla e Kenma gliene è grato.
Ma il silenzio dura solo fino alla fine di quelle tre ore.
“Ti senti bene?” chiede infatti Akaashi mentre si alza perché devono cambiare aula, cedendo alla preoccupazione.
“Sì.”
Kenma sale le scale perché anche Akaashi le sta salendo e sta mezzo passo dietro di lui.
Akaashi decide di glissare su quella risposta che suona tanto vuota e, di conseguenza, falsa.
“È strano, non ti ho mai visto qui.”
Kenma alza la testa e, oltre a rendersi conto di quanto è alto, capisce anche che non sembra uno che si accontenta di risposte mediocri. Quindi, piuttosto di dargliene un’altra, rimane in silenzio, anche se è imbarazzante.
 
“Non mangi?”
Ed eccola, altre due ore dopo: l’ora di pranzo, tanto attesa e temuta.
Kenma chiude gli occhi e prende un respiro profondo. La mensa è gremita e rumorosa, esattamente come se la ricordava. Scuote piano la testa e un leggero panico inizia a scorrergli lungo i muscoli, irrigidendoli.
Akaashi guarda il proprio cibo e poi di nuovo Kenma. Non ha parlato molto in quelle ore. Pensava fosse solo perché voleva seguire le lezioni, ma più passava il tempo più era chiaro che non era un atteggiamento molto normale.
“Non hai dietro niente?”
Kenma scuote ancora la testa, ma in realtà mente, perché ha qualcosa di preconfezionato sul fondo della tracolla. Non ha davvero intenzione di tirarlo fuori, però.
“Non puoi stare a digiuno…” gli fa notare Akaashi, spingendo piano il suo bento verso di lui. “Se c’è qualcosa che ti piace prendilo pure.”
Kenma allontana lo guardo e sente una fastidiosissima ondata di calore investirlo. Vorrebbe ringraziarlo per il gesto, ma anche spiegargli che ha la gola ridotta ad uno spillo e non riuscirebbe ad ingoiare neanche un granello di zucchero. È paralizzato e fa fatica anche solo a deglutire.
“No.” riesce a mormorare con uno sforzo immane, strozzato, e gli dispiace vedere che Akaashi storce la bocca un po’ dispiaciuto e torna a mangiare. Non voleva suonare scortese e ha paura di star rovinando tutto, e la voce di Kuroo sembra rimbombargli nella testa, dicendogli che non deve restare solo, che deve fare amicizia.
Non ce la fa. Sta in silenzio tutto il tempo e lo guarda mangiare.
Kenma si tende ogni volta che qualcuno che passa di lì per caso si ferma a parlare con Akaashi. Cerca di capire come faccia lui a rimanere così calmo e naturale anche quando gli si siedono accanto e gli sfiorano il gomito con il loro. Vuole carpirne i segreti.
Rimane comunque lì, immobile e silenzioso come un fantasma.
Rimane lì perché, in qualche modo, sente che Akaashi non è infastidito dalla sua presenza; neanche quando chi gli si siede vicino lancia a Kenma uno sguardo un po’ inquieto e interrogativo.

 
applepi>> Perché non mi hai detto che Akaashi Keiji fa la mia stessa università?
 
nuk-ur-o>> ? ? ? ? ? non fa la tua stessa università
 
applepi>> Sì Kuro. Sono stato con lui oggi.
 
nuk-ur-o>> ! ! ! !
 
nuk-ur-o >> bokuto mi aveva scritto un’altra uni. in effetti non l’avevo mai sentita nominare, magari è solo scemo e si è sbagliato? se è così lo picchio.
 
nuk-ur-o >> comunque
 
nuk-ur-o >> CE L’HAI FATTA ! sono così felice ! ! ! com’è andata?
 
applepi>> Mweh.
 
nuk-ur-o >> un mweh è meglio di tre puntini di sospensione o di nessuna risposta, quindi direi che è un buon inizio, eheh (^ e ω e ^ )
 
nuk-ur-o >> torno in aula, se hai voglia di raccontare o hai bisogno di aiuto o vuoi anche solo scrivermi sono sempre qui
 
nuk-ur-o>> dacci dentro~ ;3

 
Kenma blocca il telefono e sospira. È metà pomeriggio e la giornata in università è finita; ha ripreso il bus con Akaashi e l’ha salutato. Ora è a casa e può ricaricarsi, steso sul divano, rischiando però di addormentarsi.
Sente tutta la tensione sciogliersi, come se dei nodi alle braccia e alle gambe si slegassero. Lo stomaco brontola ferocemente e il rumore viene amplificato dal silenzio di quel monolocale.
Forse è arrivato il momento di mangiare il suo pranzo, anche se ormai è troppo tardi per poterlo chiamare così, ma ancora troppo presto per poterlo chiamare cena.
Come ha detto Kuroo, è un buon inizio.
Se non avesse incontrato Akaashi dubita che avrebbe anche solo pensato di tornare in università, l’indomani. Eppure è un’ipotesi che tiene in considerazione, anche se non ne è ancora sicuro, perché non lo alletta per niente l’idea di passare un’altra giornata all’insegna dell’ansia perenne e di una sensazione allo stomaco che è come provare fame e nausea contemporaneamente.
 
Infatti, il giorno dopo, quando sul bus non vede Akaashi, inizia immediatamente a fargli male la pancia. Si aggrappa al sostegno e fissa intensamente fuori dal finestrino con gli organi interni che si contorcono crudeli. Vorrebbe scendere alla fermata successiva e scappare a casa, anche a piedi, non importa, ma non lo fa solo perché c’è un acquazzone in corso e non ha un ombrello e la volontà di rimanere asciutto prevale.
Ed è una fortuna che non lo faccia, perché dopo aver cercato un tabellone con l’orario e aver trovato l’aula giusta, lo vede.
È là in fondo, tra le teste che si muovono per trovare un posto a sedere. È come un faro, una sicurezza. La sua unica e tangibile sicurezza.
Assottiglia lo sguardo per assicurarsi che sia davvero lui, poi torna a camminare a passo spedito per raggiungerlo.
“Oh…” Akaashi si gira e se lo trova davanti, e lo coglie un po’ alla sprovvista.
“Ciao.” aggiunge con un piccolo sorriso cortese. “Vuoi sederti qui?”
Kenma si umetta le labbra e annuisce.
Akaashi lo guarda interessato, ma l’espressione assume un’ombra un po’ triste. Si chiede se abbia degli amici, lì dentro, ma la risposta è molto probabilmente negativa se è venuto a cercarlo con tanta urgenza.
Si chiede perché, anche se forse non è difficilissimo intuirlo visti i suoi comportamenti, ma Akaashi pensa che per non trovare davvero nessuno con cui passare qualche ora ci si debba veramente sforzare.
 
Bokuto gli ha scritto, la sera prima. Gli ha chiesto di nuovo, con enfasi, in quale università andasse e Akaashi, per l’ennesima volta, gliel’aveva scritto. Bokuto gli aveva poi chiesto di scrivergli chiaramente come si leggeva e di mandargli un messaggio vocale, e la risposta era stata disperata.
Leggeva i kanji in modo sbagliato. Li confondeva con altri, li mischiava e così aveva detto a tutti i suoi amici che Akaashi studiava in una qualche misteriosa e sconosciuta università di Tokyo.
Akaashi si era messo le mani tra i capelli. Non ci credeva. Non credeva davvero di avere un fidanzato così scemo e non credeva di aver sempre e solo scritto il nome della sua università, senza mai dirlo ad alta voce. No, era impossibile. Probabilmente l’aveva detto più e più volte ma Bokuto se ne era dimenticato. Era possibile? No, non lo era affatto. Era inconcepibile.
 
“Non c’eri sul bus.” gli fa notare Kenma, senza disturbarsi ad alzare la testa dal suo astuccio mentre cerca una penna.
Akaashi smette un attimo di scrivere per rispondergli e Kenma sente il bisogno di voltarsi verso di lui come se fosse attratto da una calamita. Lo fa e deve concentrarsi sulle sue parole, perché rischia di perdersi tra i suoi pensieri, che si chiedono di che colore siano quegli occhi eleganti.
“Sono dovuto venire qui un’ora prima per mettermi d’accordo con dei ragazzi per un progetto.”
“Ah…” Kenma sente un leggero disagio, perché teme di essere suonato egoista, come se il mondo dovesse adattarsi ai suoi orari. Non ha tenuto in considerazione che un’altra persona potrebbe avere altre cose da fare, ma non l’ha fatto con cattiveria e spera che Akaashi non se la sia presa. In realtà il suo cervello sta decisamente esagerando la situazione, ma Kenma non può saperlo.
“Domani però ci sono.”
Kenma si riscuote subito e raddrizza un poco la schiena. “Anche io.”
Akaashi non può sapere quanto siano importanti quelle parole. Kenma lo dice come se fosse una promessa e per lui è come aver preso un impegno importante, un appuntamento a cui non può mancare, che non dovrà dipendere dalla sua ansia, perché non sarà lei a decidere cosa fargli fare. Lo farà e basta.
Anche quel giorno Kenma non mangia e l’ipotesi formulata da Akaashi, quella che fosse una semplice mancanza di appetito, inizia a vacillare. Gli offre ancora il suo cibo, ma la scena è identica a quella del giorno precedente.
 
Il giorno dopo Kenma è sul bus e ha un’aria vagamente orgogliosa, ma la giornata si svolge proprio come le altre.
Il giorno dopo ancora, invece, Kenma non c’è e Akaashi è un po’ deluso quando non lo vede salire.
 
Il weekend è umido e la pioggia e le nuvole si alternano come se avessero dei rigidi turni di lavoro da rispettare, ma Akaashi non ci dà troppo peso: la presenza familiare di Bokuto che lo trascina in giro per Tokyo al sabato sera gli fa compagnia. Forse dovrebbe dedicare un po’ più di tempo allo studio, ma stare in compagnia del suo ragazzo -il ragazzo più ingenuo, simpatico, dolce e fastidioso del mondo- in realtà è piacevole, ad Akaashi scalda il cuore e va bene così.
Bokuto non fa l’università. Studiare non è proprio cosa per lui, dopo il liceo ne ha avuto abbastanza, anche se con grande disappunto dei suoi genitori. Aveva trovato un lavoretto in un negozio di abbigliamento; niente di che, ma comunque qualcosa.
 
Lunedì Kenma non c’è, di nuovo.
Il martedì però appare e Akaashi è, per qualche motivo, sollevato.
Gli si avvicina -i posti a sedere sul bus sono sempre e perennemente occupati, sembrano troni irraggiungibili-, ma si accorge che sta piangendo in silenzio e rimane spiazzato.
“Che succede?” chiede preoccupato, e Kenma sobbalza perché non l’aveva visto avvicinarsi.
Scuote la testa e si sfrega frettolosamente gli occhi per asciugarli.
Akaashi gli appoggia una mano sulla schiena e Kenma sente una sensazione limpida, come se fosse stato toccato dalla luce. L’ultima persona che l’ha toccato è stato Kuroo e forse è per quello che gli fa mancare il respiro.
Sposta gli occhi sui suoi e li trova che lo scrutano a fondo. Non può sfuggirgli.
“Kenma, stai bene?” gli chiede ancora, più fermo, prendendosi la libertà di chiamarlo col suo nome, forse per sembrare più diretto, e Kenma torna a singhiozzare come se quella parola avesse innescato qualcosa di terribile dentro di lui.
Si copre la faccia perché si vergogna a morte e sente gli sguardi di tutti addosso, quando in realtà solo un paio di persone si sono voltate a guardare cosa stesse succedendo.
Akaashi gli passa lentamente la mano sulle spalle per calmarlo e quando scendono si affretta a trascinarlo su una panchina e farlo sedere. Non sono esattamente in anticipo, ma le lezioni possono aspettare.
Gli si siede accanto e Kenma è indeciso se guardarlo o no, quindi opta per una via di mezzo e si limita a fissare i pantaloni di Akaashi. Non piange più ma, come aveva già notato giorni prima, Akaashi non ha l’aria di uno che accetta risposte vuote, e il suo silenzio tombale è sicuramente classificabile come risposta vuota.
“Cosa succede? Non stai bene, Kozume, non pensare che non si noti.”
Kenma si prende qualche secondo per organizzare i pensieri ed essere il più chiaro possibile nell’esporli.
“Chiamami Kenma.” è la prima cosa che dice, ripensando alla sensazione che gli ha dato prima sul bus.
Akaashi gli fa capire con un gesto del capo che va bene, lo farà, e resta ad osservarlo attento, a mani congiunte.
Sono altri attimi di silenzio prima che qualcuno torni a parlare.
Kenma sembra congelato, ma si sblocca inclinando la testa da un lato e guardando il più lontano possibile da lui, le labbra che tremano perché la voce è incastrata nelle sue corde vocali, e gli sembra di avere un tappo in gola.
“Ho paura.” sibila staccandosi la pelle attorno alle unghie e sentendo caldo alle orecchie.
“Di cosa?” chiede subito Akaashi, pacato.
Kenma sente il cuore martellargli nel petto.
Di tutto, ha paura praticamente di tutto e non sa da dove iniziare a spiegarlo, ma il modo in cui l’ha detto Akaashi lo fa sentire come non ci fosse assolutamente nulla di cui aver paura, che sono tutti timori infondati, i suoi. E forse non sbaglia, ma non è così facile convincersene.
“Venire in università ti disturba così tanto?” continua il ragazzo seduto accanto a lui.
Gliel’aveva accennato Bokuto, a cui a sua volta l’aveva detto Kuroo, ovviamente.
Kenma lo intuisce e vuole lamentarsi pesantemente col suo migliore amico per essere andato in giro a dire una cosa del genere, ma poi capisce che forse non era poi questo gran segreto.
Annuisce.
“Per questo non c’eri, i giorni scorsi?”
Annuisce di nuovo.
“E perché? Scappare non risolve le cose.”
A questo Kenma non può rispondere. Se qualsiasi altra persona gli avesse detto una cosa del genere, Kenma se la sarebbe probabilmente data a gambe, ma Akaashi non è eccessivamente brusco nel dirlo e, anzi, gli dà modo di riflettere.
Akaashi non vuole farlo sentire a disagio più di quanto già non sia, perciò non infierisce. Prende un respiro profondo e si alza.
“Andiamo?”
La testa di Kenma inizia a macchinare cose strane, qualcosa sullo star facendo preoccupare inutilmente anche Akaashi, ma le scaccia via più in fretta che può per non rovinarsi anche quella giornata e lo segue con poche esitazioni.
 
Ancora non mangia.
Akaashi corruccia le sopracciglia e pensa a una soluzione concreta, perché gli dispiace vederlo in quello stato.
È così anche per i tre giorni successivi, ma ci sono anche delle novità, per di più piacevoli: parlano. Lo fanno sempre più spesso e Akaashi è soddisfatto di quel miglioramento, che rispetto alla settimana precedente è decisamente sostanziale.
Kenma sembra essersi aperto un po’ di più, commenta, fa domande, sembra essere un po’ più vigile durante le lezioni, e gli ricorda un piccolo meccanismo che riprende a muoversi in modo lento e un po’ stridente dopo un periodo di immobilità, facendo svolazzare la polvere attorno.
 
Kuroo è entusiasta, Kenma lo capisce dai suoi messaggi.
Anche se qualche volta le crisi si ripresentano, il suo primo pensiero non è quello di rannicchiarsi in casa e non uscire. È la prima reazione, certo, quella immediata, ma non l’unica: sa che sta provando a contrastarla, che non rinuncia al primo tentativo, che finalmente non si abbandona all’inerzia. A volte funziona e ne è fiero. Anche Kuroo lo è.
Kuroo è la persona più felice del mondo da quando sa che Akaashi è con lui, e passa assieme a lui le ore in università. Kenma ha qualcuno, qualcuno che, anche se poco, lo conosceva già, e sembra davvero essere il tipo di persona ideale per avere a che fare con lui.
Spesso scrive a Kenma che vorrebbe tornare indietro nel tempo e scoprire prima che era lì, Akaashi.
Per Kenma è lo stesso, e non sa neanche spiegare quanto.
 
Il martedì successivo Akaashi ha una sorpresa per lui.
All’ora di pranzo non si dirige verso la mensa e Kenma è disorientato.
“Dove vai?” chiede infatti, indicando con un braccio la dannata stanza da cui esce un forte brusio e rumori di piatti spostati, come a dire che è quella la direzione giusta, anche se la meno amabile.
Akaashi si gira a guardarlo e ha una vago compiacimento dipinto in volto. Lo invita a seguirlo con un gesto della mano e Kenma si fida di lui.
Entrano in un’aula deserta e Kenma si guarda attorno alla ricerca di un ipotetico qualcosa che in realtà non c’è.
Akaashi cammina tra i lunghi tavoli: la loro superficie prosegue ad angolo retto verso il basso, fino a terra.
“Sediamoci qui.” dice indicando un punto sul pavimento. La sua voce è serena e calma e a Kenma quell’intonazione piace in modo particolare, perché sembra avere il potere magico di rilassarlo.
Akaashi sposta due sedie e si siede per terra, sotto un tavolo, appoggiando la schiena al piano di legno finto perpendicolare alle piastrelle.
Kenma lo guarda stranito e vagamente divertito, perché Akaashi deve stare un po’ chino e non sembra molto comodo, però pochi secondi dopo si accomoda affianco a lui. Al contrario di Akaashi, ci sta perfettamente.
Akaashi tira fuori dalla tracolla due bento e gliene porge uno con un sorriso. Kenma è sinceramente stupito.
“Qui è abbastanza tranquillo per mangiare?” chiede mentre Kenma prende tra le mani la scatola, incredulo, gli occhi grandi. “Non fa bene saltare il pranzo.”
“Non dovevi.” mormora Kenma in imbarazzo, subito dopo aver stretto forte le labbra.
Abbassa la testa e i capelli gli ricadono ai lati della faccia. Apre il bento e i colori e i profumi lo colpiscono, facendogli brillare gli occhi.
Lì non c’è baccano. Non c’è nessuno a guardarlo, nessuno a mettergli fretta, nessuno a parlare. Sono sotto un tavolo, la testa e la schiena coperte e protette, lontani dalla porta.
È pace, e i muscoli si distendono contro la superficie dura alle sue spalle. Il suo stomaco gorgoglia e Akaashi ride.
È una risata leggera e bellissima e Kenma volta piano la testa per guardarlo. Non aveva ancora visto i suoi lineamenti piegarsi in quel modo e lo trova ipnotico. È come aver trovato un diamante tra la plastica
“Lo sapevo che avevi fame.” commenta Akaashi porgendogli le bacchette. “Spero sia buono. Buon appetito.”
Kenma freme e la luce sul suo viso, per Akaashi, vale più di qualsiasi risposta che avrebbe potuto ricevere.


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Angolo autrice
Buonasera! Ho passato novembre e dicembre a scrivere questa storia un po' particolare e finalmente mi sono decisa a pubblicarla.
I nostri bimbi sono cresciuti, vanno all'università e tutto quanto cambia, ma tutto quanto davvero, e che lo si voglia o no bisogna aver a che fare con questi cambiamenti.
Avrà solamente tre capitoli, tutti di questa lunghezza, e conto di aggiornare una volta a settimana -quindi non preoccupatevi, tra circa due settimane vi sarete già sbarazzati di me. O perlomeno di questa storia. Di me e della mia Tokyo Ghoul AU non ve ne sbarazzerete mai.

Informazione di servizio: il titolo della storia e i titoli dei capitoli sono frasi tratte dalla canzone Froot di Marina and the Diamonds.
Spero che vi piaccia o che  vi crei anche solo un qualche interesse. Fatemi sapere, ecco!~
A presto <3


 
   
 
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