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Autore: Cherry_Leto    04/01/2017    0 recensioni
Francesca è un artista che ha bisogno di una spinta per trovare se stessa e la propria arte. Decide, così, di andarsene da Trieste per seguire un corso d'arte a Firenze. Ed è lì che incontra Ettore, che le farà scoprire un mondo tutto nuovo, diverso da quello che aveva visto fino al momento dell'incontro. Riuscirà a trovare l'ispirazione e ad abbattere tutte quelle barriere che la circondavano ?
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Quando, la mattina dopo il mio arrivo a Firenze mi svegliai, trovai un raggio di sole ad illuminarmi il volto. Sembrava preannunciasse una buona novità e così mi alzai di buonumore, pronta ad iniziare un nuovo capitolo della mia vita.
Decisi di visitare la città, vedere dal vivo quello che avevo appreso durante le lezioni di storia dell’arte, ma volevo anche viverla, la città, lasciare che mi assorbisse, che mi facesse innamorare. Volevo sentirmi come una fiorentina del Cinquecento, volevo inspirare a pieni polmoni l’odore che emanava questo posto magico.
Fu come ballare un valzer con la storia. Mi sentivo bene, come non mi sentivo da tempo. Decisi di andare al mercato cittadino. Solitamente non amo stare in posti affollati, ma lì tutto sembrava perfetto. Il vociare delle persone i mille colori della frutta e della verdura, l’odore delle spezie.
Acquistai del pesce e delle verdure e corsi a casa. Non m capitava da tempo di voler cucinare qualcosa, anche se lo trovavo rilassante. Ed è sempre più buono mangiare preparato con le proprie mani. Verso le due del pomeriggio decisi di uscire nuovamente.
Erano poche le persone che passeggiavano, tutti stavano ancora pranzando o riposando, e così ebbi il modo di godermi un’altra delle mille sfaccettature di Firenze. Alzando lo sguardo, oltre all’azzurro del cielo, posavo lo sguardo sul rosso di gerani o sul verde delle edere che crescevano sui davanzali delle finestre, vedevo i colori sgargianti dei panni stesi e i colori opachi alternati a quelli color pastello delle cose. Se chiudevo gli occhi sentivo odore di caffè; odore del vecchio unito al nuovo.
Tutto, di questa giornata mi sembrava genuino. Vagai per le vie per un po’ fino a quando non mi stancai. Allora mi sedetti su una panchina e presi un libro che m’aveva regalato mia madre molti anni prima, forse prima che iniziassi a frequentare il liceo artistico. M’immersi nella lettura, tant’è che non mi accorsi del tempo che passava, delle persone che avevano invaso le vie.
“Ah, Botticelli. Scontato.”
Sollevai lo sguardo e incrociai due occhi vispi, di un verde particolare, quasi del colore di un bosco prima dell’inizio dell’autunno.
“Non ti piace?” Chiesi soltanto, spostando lo sguardo in modo da osservarlo meglio. Avevi i capelli castani e scompigliati, un viso pulito, molto comune, un sorriso contagioso.
“No, per carità, ma non è molto… particolare, come scelta intendo. Puntate sempre sui classici.”
Feci una smorfia. “Non è l’unico artista che mi piace.” Si sedette accanto a me. “E allora chi? E bada bene, Raffaello e compagnia bella non contano.””
Ci pensai un attimo prima di rispondere: “Magritte!”
Lui corrucciò la fronte. “Bah, mi aspettavo Picasso. Accettabile. Però devi sforzarti di più, se vuoi impressionarmi.” Fu il mio turno di mostrarmi confusa.
“E perché dovrei volerlo?” chiesi.
“Solo allora potrò mostrarti la vera arte quella che tutti vedono, ma non capiscono.” Rispose lui infine, dopo averci riflettuto un po’. “Ti è caduto questo. Senza offesa, ma mi sembra una copia di un quadro già visto e rivisto. Devi metterci te stessa. Il compito dell’arte è quello di comunicare qualcosa.” Continuò, prima di lasciar cadere lo schizzo sulla panchina. Fece un cenno col capo dopodiché svanì tra la folla senza darmi il tempo di ribattere.
A distanza di una settimana mi trovavo ancora davanti ad una tela bianca. Avevo fatto schizzi su schizzi per poi puntualmente gettarli via. Non riuscivo a metterci quel tocco personale di cui avevo bisogno e così passavo le giornate ad esasperarmi, circondato da fogli stropicciati. Forse qualche artista li avrebbe trovati interessanti. Potevo dire fosse una scultura che rappresentava la confusione che ho nella mia testa, dove i colori rappresentavano i pensieri felici, mentre quelli scuri erano il simbolo del dolore, dei pensieri più profondi, i dubbi che m’attanagliavano il cuore. No, dovevo trovare l’ispirazione. Potevo ingannare gli altri, forse, ma non potevo ingannare me stessa. Sospirai e presi un pennello che però rimase sollevato a mezz’aria e mi lasciai guidare dai sensi. Sentivo colore sulla mia pelle e una leggera brezza mattutina solleticava le mie braccia. Un intenso aroma di caffè aveva invaso la stanza. Il rumore dello sbatacchiare delle pentole e il coro di mille voci mi tenevano compagnia. Le mie dita erano ruvide e asciutte a causa del colore asciugatosi su di esse. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo, quand’ero ancora a Trieste e mia madre preparava la colazione per tutti; papà solitamente leggeva il quotidiano in salotto, mio fratello strimpellava la chitarra in camera sua e io dipingevo nella soffitta, illuminata da una finestrella che entrava da una finestrella sul soffitto. E fu proprio quella scena che intrappolai sulla tela.
Una stanza in penombra, piena di scatoloni, uno spiraglio di luce che pareva sollevare la polvere, creando una sorta di danza. Nel fondo, un’esile figura accasciata a terra. Colori opachi davano un senso di inquietudini al mio quadro, ma quella luce, così bianca, dava un senso di quiete. Non ne ero pienamente soddisfatta, ma rappresentava ciò che provavo in quel momento: la nostalgia di casa, così come la libertà di essere scappata da quella gabbia che mi aveva reso così chiusa e così cieca. M’alzai da terra e incurante delle mani sporche di colore afferrai la tela e corsi fuori alla ricerca di quel ragazzo misterioso.
Non sapevo se l’avrei rivisto, per quel che ne sapevo poteva essere un turista che si era perso tra i vicoli della città, però il mio sesto senso mi diceva che lo avrei rivisto. E per fortuna il mio sesto senso non sbagliò.
**
“Hey tu!” urlai, alzandomi di scatto dagli scalini sui quali ero seduta ormai da ore. Lui, però, continuò a camminare, anzi mi parve che avesse accelerato il passo. Per un attimo pensai di aver confuso un ragazzo qualsiasi per quel tale, ma continuai a correre finché non lo raggiunsi. Lo afferrai per una spalla quasi disperatamente, come se fosse la mia ancora di salvezza. E in certo senso lo era, la mia salvezza, il mio spiraglio di luce. Stava sorridendo, gli occhi mi stavano scrutando, quasi stessero cercando di leggermi l’anima. “Ti ho portato una tela. Vorrei la vedessi” dissi guardandolo negli occhi che però mi sembravano una barriera invalicabile. Avevo il fiato corto, sentivo le guance andarmi a fuoco. E se mi avesse derisa? Se nemmeno quella tela gli fosse piaciuta, e anzi, gli sarebbe parsa anonima, senz’anima?
“Va bene, però dirò quello che penso, non aspettarti commenti ipocriti su quanto siano belli i tuoi dipinti, se in realtà sono banali.”
Annuii, non era forse per quello che gli avevo portato il dipinto, perché volevo che mi dicesse cosa gli trasmetteva? Gli porsi la tela tentennando, divisa in due: temevo il suo giudizio, ma era indispensabile in quel momento per quel blocco che mi aveva colto alla sprovvista. Prese la tela, la osservò per minuti che a me parvero ore. Quando alzò lo sguardo, non riuscii a capire cosa stesse pensando. “È questo quello che provi?” chiese lui, senza specificare a cosa si riferisse. Avrei voluto dirgli di sì, volevo spiegargli che per me Firenze era una via di fuga, che… volevo scoprire le mie doti. Avrei voluto dirgli questo e molto altro, però non riuscii ad aprir bocca. Quando ci sono i sentimenti di mezzo, parlare risulta difficile per me. Sento subito le lacrime agli occhi e un tuffo al cuore. Questo è anche uno dei motivi per i quali iniziai a disegnare: riesco ad esprimermi e a sfogarmi. Posso prendere posizione -a voce non direi mai quello che penso né quali ideali appoggio.
“Far arrivare un messaggio tramite l’arte sembra facile, ma non lo è. Tu, ce l’hai fatta. Però lo hai sussurrato, non lo hai urlato al mondo.” Disse ancora, intuendo il mio disagio. “Seguimi.” E lo feci. Non sapevo chi fosse, però sapevo di doverlo fare. Avevo bisogno di lui.
“Qual è il tuo nome?” chiesi dopo essermi schiarita la voce.
“Ettore, tutti, però, mi conoscono come El rey” rispose con un ghigno stampato in faccia.
“Io sono Francesca.” Dissi allora, vedendo che non chiedeva nulla. “Dove stiamo andando?” Si fermò, dopo essersi guardato intorno girò a sinistra.
Fece un cenno col capo, come a dirmi che non era il momento giusto per discuterne. Seguimmo una serpentina e una volta raggiunto un arco ci fermammo nuovamente.
“Non è un posto aperto al pubblico, questo. Non è neanche un posto esclusivo. È un luogo speciale per me e per molti altri artisti. Ti ho portata qui perché voglio farti uscire dal guscio. Hai molto potenziale, ma devi capire che l’arte è qualcosa che non ha limiti. Anche se non… approverai quello che ti mostrerò, ti prego di non farlo sapere in giro. È molto importante per me e per tanti altri, come ti ho già detto. È la nostra casa, il nostro modo di parlare.”
Non capii perché mi stesse dicendo tutto questo.
Allo stesso tempo mi stava spaventando e non sapevo se proseguire o tornare a casa, sognando quadri che non avrei mai realizzato. Però lui mi stava offrendo una via d’uscita, mi chiedeva solamente di non distruggere il suo mondo. D’altronde era comprensibile.
Decisi di fidarmi, così come lui aveva fatto portandomi nel suo rifugio. “Te lo prometto!” Lo dissi a voce alta, come se così fosse più reale, più solenne.
Allora il suo volto s’illuminò di un bel sorriso. Annuì e allora riprese a camminare, senza proferir parola.
Arrivammo ad un portone imponente, fatto di metallo e alto quasi due metri. Suonò il citofono e quando il portone s’aprì ci ritrovammo in un cortile. C’erano molti fiori, panni stesi giocattoli abbandonati sul pavimento.
C’erano anche delle donne che stavano mondando verdure sui gradini davanti alle loro case. Ettore le salutò e continuò a camminare. Solo allora mi resi conto della musica che si sentiva in sottofondo. Avevo appena riconosciuto le ultime note di Knocking on heavens door dei Guns n’ roses, che la musica era cambiata e una canzone reggae s’era diffusa. Sentii delle risate, qualcuno batteva le mani.
Dove stavamo andando? Cos’avrei visto, una volta svoltato l’angolo? Un forte odore di vernice m’invase le narici.
Svoltammo l’angolo, ritrovandoci così in uno spiazzo. “Eccoci arrivati.” 
  
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