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Autore: Damnatio_memoriae    05/01/2017    0 recensioni
Alcune persone sono legate da fili invisibili che le tengono unite oltre il tempo e lo spazio, nonostante gli ostacoli e tutte le incomprensioni, lontano dal concetto di giusto o sbagliato. Elisabeth e Margaret sono semplicemente fatte per stare insieme, perché si sono create così, si sono trovate così e si sono amate così. E nessuno può pensare di sottrarsi ad un amore simile.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Into the Sea
 
I

Il richiamo del mare

1623, Lansbury
 
Non era un fatto insolito che le navi mercantili attraccarsero al molo del piccolo villaggio di Lansbury in pieno inverno, tanto più che nelle contee settentrionali dell’Inghilterra di Sua Maestà Giacomo I l’inverno imperversava per buona parte dell’anno. Tuttavia gli abitanti di Lansbury – o almeno i pochi che erano rimasti – sapevano che solo uno era il galeone che riforniva i loro commercianti e sostentava i loro commerci e quel vascello aveva un nome, che ora era sulla bocca di tutti. La O’Flaherty era finalmente tornata a casa.
Margaret apprese la notizia per ultima, solo quando il galeone si era ormai ormeggiato e le famiglie avevano occupato il porto per poter riabbracciare i propri cari. Si tirò su le gonne per non sporcare ulteriormente il vestito e senza curarsi di evitare le pozzanghere corse verso il molo, urtando i passanti, colpendo carrette, rischiando di scivolare nel fango. L’aria fredda le sferzava il viso accaldato, ma anche con il respiro corto e il cuore in subbuglio Margaret non rallentò. Si catapultò giù per la strada principale e poi lungo la banchina, dove i barili erano stati disposti accuratamente in fila per la conta della merce. Prima che la pioggia iniziasse a cadere dalla spessa coltre di nubi che aveva coperto il cielo quel mattino, la ragazza spalancò la porta dell’unica locanda di Lansbury, già piena di marinai assetati e affamati. Alcuni di loro affondavano i denti nel cibo scadente, altri ingurgitavano rum da bottiglie lerce e impolverate; qualcuno si era messo in un tavolino isolato per giocarsi ai dadi i soldi appena guadagnati dall’attraversata, molti si erano seduti attorno ad un tavolo di legno traballante per ricevere il loro compenso. Fra tutti troneggiava il capitano della O’Flaherty, Wileilm il Rosso, un manigoldo ricattatore, erede di nulla se non della propria nomea, che con la sua nave inseguiva e affondava tutti i convogli dello Stretto per rivenderne le merci.  Lansbury del suo rifornimento poteva senza dubbio dirsi grata, ma lo sarebbe stata di meno una volta messa sotto accusa dai giudici della Corona.
Margaret si guardò attorno rapidamente, ma nella sala principale non trovò chi stava cercando così disperatamente. A lunghe falcate si diresse al bancone, dove l’oste era intento a pulire i boccali. L’uomo la squadrò da capo a piedi, ma sul suo volto si sarebbe potuta leggere solo indifferenza. Piegò la testa da un lato per indicarle le scale che conducevano al piano superiore.
«Seconda a destra» la informò, tenendo sott’occhio gli uomini nella sala.
«Vi ringrazio» sussurrò Margaret, scostandosi i capelli dalla fronte. Frugò nelle tasche del suo vestito e ne estrasse quattro monete, ma l’uomo la fermò.
«Non serve» disse «La camera è già stata pagata».
«Fino a quando?» domandò la ragazza, corrucciandosi.
L’oste rispose spazientito «Fino a quando non leveranno l’ancora».
Margaret non aggiunse altro e dopo aver ritirato le monete che aveva messo sul bancone salì le scale due a due e quasi non inciampò sull’ultimo gradino. Svoltò nello stretto corridoio e senza bisogno di ricordarsi l’indicazione dell’oste, a colpo sicuro aprì la porta quel tanto che bastava per sgusciare all’interno della stanza. Girò due volte la chiave nella serratura, forzando la toppa arrugginita che faceva resistenza.
«Non lo sai che è buona educazione bussare?» domandò una voce alle sue spalle con tono indispettito.
Margaret tirò un profondo respiro e dopo essersi voltata alzò lo sguardo, incontrando gli occhi blu della donna seduta di fronte a lei. La mascella squadrata era serrata, l’espressione era severa, tutto il suo corpo tradiva spossatezza e nulla in lei sembrava lasciar intendere sorpresa. Armeggiò con il nodo della cintola e con poca grazia lasciò cadere la sciabola a terra; si distese, sollevando le gambe e sbattendo i piedi – fasciati da stivali logori e imbrattati di fango – sulla tavola rotonda alla quale si era seduta. Se i lineamenti non fossero stati così fini, la statura così modesta e la vita così sottile, molti avrebbero dubitato di aver davanti una ragazza.
Il viso di Margaret si adombrò. Sollevò una mano e con le nocche battè il legno della porta. «Toc-toc» scandì.
«Non è divertente» ribattè l’altra con voce stanca.
«Non voleva esserlo».
Sulla stanza scese il silenzio.
«Ti prenderai un malanno» disse infine a Margaret, guardandola intensamente, i vestiti bagnati che gocciolavano sulle assi logore del pavimento. Si stupiva di trovarla sempre un po’ cambiata, o forse era il tempo passato per mare a far dimenticare i volti delle persone care. Si domandò distrattamente quanto tempo le sarebbe occorso per scordare del tutto i suoi lineamenti.
La donna, non avendo avuto risposta alcuna, se non un’occhiata torva, si passò le mani sulla testa, lasciando cadere il cappello a terra. Con gesti rapidi si legò sulla nuca i capelli neri. «Pensavo non saresti venuta» ammise, senza avere il coraggio di guardarla.
«Pensavi male».
«Forse speravo non l’avresti fatto» sussurrò.
A quelle parole le mani di Margaret si chiusero in due pugni e un nodo le serrò la gola. Sentì la rabbia montarle da dentro e il rancore inghiottire tutti i suoi propositi di perdono e comprensione.
«Dopo tutto questo tempo» sibilò «È questa l’unica cosa che riesci a dirmi?».
«Cos’altro ti aspetti che dica?».
Strinse i denti. «Te ne sei andata».
«Sapevi che sarei partita di nuovo, non te ne ho mai fatto mistero».
«Non hai trovato neanche il coraggio di salutarmi» la accusò «Mi sono svegliata in un letto vuoto perché tu eri già sgusciata via come il peggiore dei ladri».
«Non sarebbe cambiato nulla».
«Sarebbe cambiato per me!» scoppiò, battendosi la mano sul petto «Sono passati otto mesi, Elisabeth! Otto lunghi e logoranti mesi, senza avere tue notizie, senza sapere dove fossi diretta, senza sapere se fossi ancora viva» sull’ultima parola la voce le venne meno «E se così non fosse stato, cosa pensi che mi sarebbe rimasto di te? Il pensiero di non essere riuscita nemmeno a dirti addio».
«Ecco!» la indicò «Era esattamente quello sguardo che volevo evitare».
«Sei stata una vigliacca e un’egoista» affermò duramente «Come riesci ad essere così vile?».
«E tu come fai ad essere così ingenua?» replicò Elisabeth, scaldandosi, e il collo e le guance, anche se bruciate dal sole, si colorarono di rosso.
«Preferisco essere ingenua piuttosto che diventare come te».
La donna aggrottò la fronte. «E questa sarà la tua rovina».
«Sei tu la mia rovina».
«E allora perché diavolo sei venuta?» le rinfacciò, alzandosi di scatto.
«Io non lo so» proruppe dopo un attimo di esitazione.
«Non volevo che venissi qui, non ti ho chiesto io di farlo».
Margaret fece per replicare, ma quelle parole la spiazzarono. Incurvò le spalle come a volersi proteggere dal più brutale dei colpi. «No, infatti, sei troppo codarda anche per questo. Eppure volevi che ti trovassi, come sempre, altrimenti non saresti venuta proprio qui, in questa stanza».
«Le altre erano occupate» sbuffò.
«Vorrei davvero che tu sapessi mentire meglio di così: renderesti tutto molto più semplice».
Elisabeth abbassò lo sguardo «Non possiamo andare avanti così Margaret. Non possiamo. È insostenibile questa situazione».
«Sono anni che ti sento ripetere sempre le stesse parole, eppure niente è cambiato».
«Proprio non riesci a capire, vero? Neghi qualsiasi evidenza. Guarda quello che stiamo diventando! Non facciamo altro che discutere! Sono mesi, ormai, che ho smesso di contare i giorni di viaggio e non abbiamo passato nemmeno un’ora insieme che già rimpiango di non essere per mare».
«La cosa non mi stupisce di certo» ribattè aspramente «Sei sempre stata più brava a fuggire che a restare».
«Sei davvero più sciocca di quanto non credessi possibile». Lasciò cadere il discorso, dandole le spalle e affacciandosi alla piccola finestra della camera. Sul vetro sporco e appannato le gocce di pioggia si rincorrevano senza mai riuscire a raggiungersi. Come loro due, del resto.
«Hai ragione» la assecondò Margaret in un sussurro «Sono così sciocca, così dannatamente stupida, da aspettarti ancora, ogni volta, come se fosse la prima, e a temere sempre che sia l’ultima. E dopo tutto il tempo buttato nel desiderare il tuo ritorno, questa è l’unica cosa che sai fare: darmi le spalle».
L’altra scosse la testa. «Tu proprio non riesci a comprendere».
Margaret allargò le braccia. «Cos’altro c’è da comprendere?».
«Io non posso cambiare la mia vita per te».
«Non ti ho mai chiesto di farlo».
«No, infatti, tu lo hai preteso».
«Questo è ingiusto. Lo sai che non è vero ed è ancora più tragico vedere quanto tu mi conosca poco» girò su se stessa, allungando una mano per girare la chiave nella toppa e andarsene.
«Vuoi dirmi che sbaglio?» la incalzò l’altra, voltandosi. «Non è forse vero che continui a chiedermi di restare? Che fai di tutto per impedirmi di ripartire, come se io potessi scegliere?».
«Lo faccio per salvarti la vita!».
«Anche io! Pensi che Wileilm mi risparmierebbe se non riuscissi a saldare i debiti di mio padre?».
«I corsari del Re solcano le acque a centinaia. Vi troveranno Elisabeth, non potrete continuare a nascondervi in eterno. Presto non ci sarà più un solo porto sguarnito».
«Preferisco che la gola mi venga tagliata da un cane inglese, piuttosto che da un bastardo irlandese. Almeno sarebbe una morte onorevole».
«Tu mi stai chiedendo di accoglierti quando torni e di lasciarti andare a morire ogni volta che riparti. Tu non lo sai quello che mi stai facendo, non te ne rendi conto. Che cosa faresti al mio posto?».
Elisabeth serrò la mascella e la bocca si trasformò in una sottile linea severa. «Io non posso stare lontana dal mare» spiegò semplicemente, abbassando lo sguardo.
«Ma riesci a stare lontana da me».
«No, non è così. È proprio questo il problema. Tu mi hai divisa ed io te l’ho lasciato fare e ora non possiamo tornare indietro, né andare avanti».
Margaret si prese le mani nelle mani, stropicciandosi le dita, indecisa se rimanere in quella stanza oppure lasciarla. «Ormai è difficile riuscire a crederti» bisbigliò infine, aprendo la porta, ricordando tutte le notti passate a desiderare il suo ritorno. Nulla di tutto quello che aveva immaginato sarebbe accaduto.
Elisabeth mosse qualche passo nella sua direzione e le suole dei suoi stivali imbrattati di fango lasciarono la loro impronta sul pavimento. «Io tengo a te» le disse scandendo bene ogni parola e lo ripetè quando l’altra titubò «Io tengo a te».
Margaret si strinse nelle spalle, la mano ancora stretta intorno alla maniglia. Nonostante la sua voglia di correre il più lontano possibile da lei, le sue gambe non sembravano avere nessuna intenzione di muoversi.
Elisabeth si impegnò in un profondo sospiro e Margaret riuscì a percepirne il soffio caldo sul collo. Lasciò la presa quando la mano dell’altra si posò sulla sua, il palmo ruvido e graffiato per le giornate passate sulla nave.
«Non riesco a dirti addio, Meg. Provo ogni volta ad allontanarmi da te, ma riesci a rendermelo tremendamente difficile».
«Allora perché ci provi ancora? Perché continui a respingermi? Non ho più nulla da dirti, non ho più niente da dimostrarti. Ti ho dato tutto, anche quello che non potevo permettermi di perdere. E ancora non sembra bastarti…Cos’altro vuoi da me?».
«Voglio che tu sia felice».
«Io non voglio essere felice senza di te!» sbottò.
Elisabeth scosse la testa prima a destra, poi a sinistra. Alzò una mano, appoggiandola contro il legno della porta e la spinse, chiudendola con un colpo sordo. «Non avremmo dovuto spingerci così oltre. Non c’è possibilità di tornare indietro, adesso».
«Perché, se potessi farlo mi cancelleresti davvero così facilmente dalla tua vita?».
«Sarebbe la cosa più giusta da fare, per entrambe. Dimenticarti per sempre».
Il cuore di Margaret saltò un battito. Aprì la bocca per mentire, per dirle di essere d’accordo, che in fondo non le sarebbe costata troppa fatica dimenticarsi di una come lei, che anzi aveva già smesso di amarla, ma dalla sua gola non uscì nemmeno un suono.
«Ma…» continuò Elisabeth «Io non sono mai stata brava a fare la cosa giusta e tu sei troppo testarda per pensare di permettermelo proprio ora. Anche se questo non cambierà le cose. Guardami» ordinò in un tono che non ammetteva repliche, ma l’altra non si voltò.
«Non voglio guardarti».
«Perché?».
«Perché no».
«Non è una risposta e lo sai» disse duramente, costringendola a girarsi, stringendole le mani intorno alle braccia. Le cercò gli occhi, ma Margaret continuò ad eludere il suo sguardo.
«Meg» la chiamò.
La ragazza si strinse le braccia intorno al petto. «Perché non riuscirei più ad andare via» spiegò in un soffio.
«Allora resta».
Lei sussultò a quelle parole, ma si sforzò di rimanere inamovibile. «Per quanto? Due, forse tre giorni prima di lasciarmi senza guardarti indietro?».
«Non è una mia scelta».
«Possiamo trovare un’altra soluzione».
«Non c’è un’altra soluzione».
«Non l’hai neanche cercata! Posso darti una mano».
«Non è un problema tuo».
«Sono solo soldi, Elisabeth».
«Non voglio i tuoi soldi, so badare a me stessa».
«Permettimi di aiutarti!».
«Ho detto di no».
«Riesci a non essere così dannatamente orgogliosa?!».
«Maledizione Margaret, smettila!» sbottò, urlandole contro – proprio lei che aveva sempre detestato alzare la voce -, colpendo con un pugno la porta che aveva davanti. Margaret ammutolì all’istante, indietreggiando istintivamente, e subito Elisabeth si pentì di non essere riuscita a controllarsi. Odiava quando si comportava come suo padre. Si passò una mano sul viso, massaggiandosi la fronte con le dita e facendo un profondo respiro.
«Perché vuoi farmi vivere nella paura di perderti?» le domandò infine la piccola e, quando la voce le venne meno, gli occhi le si riempirono di lacrime.
Elisabeth abbassò lo sguardo, colpevole. «Tu non mi perderai mai» ribattè poi, ma visto che l’altra non sembrava crederle continuò incerta, spostando il peso da un piede all’altro «Sai…quando cala la notte e la nave taglia le onde, alzo gli occhi al cielo ed è come se riuscissi a vederti. Io ti porto sempre con me, anche quando le giornate sono lunghe e sento di essere troppo lontana da casa. Io ti tengo qui» le prese una mano e se la portò sul petto e sopra al cuore sentì le dita fredde di Margaret «come il mare tiene me. E sì, molte, troppe volte penso che sarebbe stato meglio non averti mai incontrata, ma ogni nave ha bisogno di un porto e tu sei…tu sei il mio riparo. Anche se io non riesco ad essere il tuo. E mi posso scusare per la mia inaffidabilità e per essere andata via prima che tu ti potessi svegliare, ma non puoi chiedermi di restare, perché non so ancora per quante volte riuscirò a dirti di “no” se tu continuerai a insistere. Perché anche a me manchi quando sei lontana, anche a me! E non vedo l’ora di abbracciarti quando torno, di stringerti e ricordarmi il tuo profumo, anche se ora sei qui, davanti a me, e non riusciamo a fare altro che litigare. E…» storse il naso e indietreggiò di un passo. La mano gelida di Margaret le scivolò di dosso ed Elisabeth, senza quell’ancora, sentì ancora più freddo. Dopo essersi schiarita la gola con un colpo di tosse aggiunse «Penso di essere diventata troppo sentimentale. È quello che succede quando passi tutto il tuo tempo senza poggiare i piedi per terra».
Margaret tirò sul col naso e le labbra le tremarono. Si lanciò verso Elisabeth, gettandole le braccia al collo e abbracciandola così forte da poterle togliere il respiro, ma l’altra non se ne preoccupò, ricambiando la sua stretta con più intensità, tenendole una mano sulla schiena e l’altra sulla testa. Margaret si aggrappò con ogni energia che possedeva alle spalle della ragazza, piangendo tutte le lacrime che non aveva versato in quegli ultimi otto mesi, consumando il suo dolore su quel corpo che tanto amava, e tutto il dispiacere per averla persa non valse la gioia di averla ritrovata.
«Mi sei mancata così tanto» singhiozzò ed Elisabeth la sentì tremare fra le sue braccia al punto da domandarsi come facesse una creatura così piccola a scuotersi per tutti quei sussulti senza mai spezzarsi.
«Sei proprio una bambina» la prese in giro, accarezzandole i capelli chiari. «Non piangere. Non sei poi così bella quando piangi».
«Non è vero!».
«Hai ragione, non lo è. Non lo è affatto» le prese le braccia e dolcemente si staccò da lei. Quando le posò le mani sulle guance, Margaret girò appena il viso per poterne baciare il palmo e si sollevò sulle punte dei piedi. Avvicinò le labbra alle sue, schiudendole appena, percependone il calore, ma Elisabeth si ritirò.
«Non vuoi?» le chiese Meg, corrucciandosi, e sulla sua fronte si formò una piccola ruga.
«Non andrà a finire bene».
«Dopo tutto questo tempo passato senza di te…» iniziò la ragazza, stringendole tra le mani i lembi della camicia candida «Ha davvero importanza?».
Elisabeth fece per rispondere, ma Margaret la prevenne, tirandola a se e baciandole la bocca con urgenza, quasi irruentemente, riscoprendola piccola e vorace, lontana da qualsivoglia resistenza. Le circondò la vita e sotto il suo tocco la sentì fremere e arrendersi. La mora le cercò le labbra ancora e ancora, perdendosi nel loro tepore e nelle sensazioni che la facevano sentire così viva. Le cercò la lingua, saggiandone il sapore, ricordandosi la prima volta in cui l’aveva scoperta, così inesperta e curiosa.
Meg lasciò correre le dita sul suo collo e sul suo petto, insinuandosi sotto il cotone, ed Elisabeth si lasciò sfuggire un suono gutturale, quasi un ringhio, che la portò a premere con più prepotenza il corpo contro il suo, bloccandola contro la porta.
«Lo prendo come un “no”?» domandò Margaret in un bisbiglio, la bocca piegata in un mezzo sorriso.
«Oh, stai zitta!» le ordinò l’altra, prendendola di peso e sdraiandosi sopra di lei sul letto di paglia.
La liberò freneticamente dagli indumenti, senza sfilarglieli per la smania che la pervadeva e nonostante il desiderio di sentire la sua pelle contro la propria. Le alzò le gonne bagnate e le abbassò il corpetto ancora umido, mordendole il collo, la clavicola, il seno, afferrandole le cosce.
Margaret le slacciò il gilet, le sfilò il camiciotto logoro e quando sfiorò le pezze di tela che le costringevano il petto, Elisabeth si bloccò e lei fece altrettanto. Si sollevò a sedere e la donna si posizionò sui suoi fianchi. Si guardarono per un lungo istante prima che Margaret si decidesse a cercare il nodo e a disfarlo, mentre l’altra le sfiorava la fronte con il naso, insinuandole le mani fra i capelli lunghi. Le sfilò piano le bende, scoprendo i seni millimetro dopo millimetro ed ebbe l’impressione che Elisabeth tornasse finalmente a respirare a pieni polmoni. Un sussultò la scosse quando Meg seguì le cicatrici che le marchiavano la pelle con la lingua e allora la strinse a sé più forte, sentendo la pelle fredda contro la sua, i cuori vicini, l’odore dei loro corpi che si mescolavano.
«Prendimi!» le soffiò Elisabeth sulla tempia, muovendo il bacino contro il suo in un invito esplicito.
Margaret insinuò la mano dentro i suoi pantaloni, toccandola a fondo, e sulle sue dita la mora si mosse, inarcando la schiena, reclinando la testa.
«Più forte, più forte…» la implorò con il fiato corto quando Margaret fece scivolare la mano su di lei ed era così pronta che ogni gesto la faceva gemere.
Elisabeth si aggrappò alle sue spalle quando il piacere la pervase, infiammandola, e venendo chiamò il suo nome, perché sulle labbra non poteva avere nessun altro se non lei.
«E tu…» iniziò Margaret, sorridendo maliziosa e leccandosi le dita «…tu come vorresti allontanarti da me, esattamente?».
Una lacrima invisibile solcò la guancia di Elisabeth, sfuggendole dagli occhi blu. Il mare l’avrebbe reclamata presto.
 
≈ ≈ ≈

Quella notte la pioggia cadde più forte, trasformandosi in grandine che spaccava i vetri, scalfiva i tetti e disturbava il sonno degli abitanti di Lansbury.
Elisabeth rimboccò le coperte del loro letto, coprendo Margaret fin sopra le spalle e abbracciandola quando la vide rabbrividire per il freddo. Contro il suo seno e il suo addome, la schiena della ragazza sembrava liscia e morbida.
Poggiò la fronte sulle sue scapole, ascoltando il suono del suo respiro, regolare come quello di un bambino, molto lontano dal russare dei marinai che le aveva perforato le orecchie per tutta l’attraversata.
Le donne. Le donne erano una cosa diversa. Aveva quasi dimenticato quale fosse la sensazione di averne una fra le braccia o fra le gambe e aveva quasi dimenticato il suono della voce di Margaret, la sua pelle, il suo colore, la sua sfacciataggine, anche. Per quanto riguardava la sua testardaggine, quella no, quella era impossibile da dimenticare. Ma le era mancata anche quella.
«Sei la mia piccola stella…» le sussurrò piano all’orecchio, prima di chiudere anche lei gli occhi «E nessun marinaio si è mai perso seguendo le stelle».
Il sonno che aveva tanto desiderato, però, non sopraggiunse e un dolore sordo le offuscò la mente, la paura le attanagliò le viscere e fu come se un pesante sacco le si avvolgesse intorno al cuore. Iniziò a sudare freddo. Si mise a sedere, facendo attenzione a non svegliare la ragazza che le sonnecchiava di fianco, e si prese la testa tra le mani. Una serie di immagini confuse si susseguì nella sua testa: divise blu, moschetti puntati, una platea di sconosciuti, una corda, il palco che si apriva sotto i suoi piedi.
«Come faccio…» sussurrò dando una voce alle sue paure, la bocca coperta da entrambe le mani «Come faccio a lasciarla?».
Quando le prime luci del mattino erano ancora lontane e sulla stanza era ancora buio e silenzio, Margaret si riscosse. Socchiuse gli occhi, calda sotto le coperte che mantenevano quel tepore che le piaceva tanto, poi subito un’idea le balenò nella mente, scuotendola, e allungò una mano oltre la sua parte di letto. Tirò un sospiro di sollievo quando le sue dita incontrarono il corpo di Elisabeth e il cuore di Margaret cessò di martellarle la cassa toracica.
«Non vado da nessuna parte» le lesse nel pensiero la donna, tranquillizzandola con la sua voce calda e roca, un tono che Margaret sarebbe stata in grado di riconoscere tra milioni. Loro no, non erano fatte per essere divise. E avrebbero dovuto smetterla di farsi così male nel cercare di dimostrare il contrario.
Meg si puntellò su un gomito e osservò il profilo di Elisabeth che, gli occhi sgranati, guardava il soffitto, le braccia dietro la testa. Le depose un bacio sullo zigomo e si accoccolò accanto a lei, la guancia fredda posata sul suo seno, il braccio a circondarle lo stomaco. Sospirò e l’altra si tese come la corda di un liuto.
«Che cosa c’è?».
«Nulla» rispose con rassegnazione, ma non fu sufficiente a convincerla.
Margaret allungò una mano e con il palmo aperto le accarezzò la fronte. Il sole e l’aria le avevano indurito la pelle, ma lei avrebbe saputo riconoscere i suoi lineamenti ad occhi chiusi. Le sopracciglia erano incurvate, aggrottate, le tempie tirate, le guance rigide, la mascella serrata.
«Cosa ti turba tanto?» titubò e il silenzio che seguì la sua domanda le insinuò il dubbio sotto pelle. «…stai andando via?» gracchiò.
«No» Elisabeth le prese la mano e se la premette contro le labbra, baciandone le nocche e il polso. Le strinse le dita, le incrociò alle sue, le accarezzò, ci giocò. «Ma presto dovrò farlo».
«Quanto presto?».
«Ascoltami, Margaret» si fece seria.
«Quanto presto?» domandò ancora, più decisa, ma con tono piatto.
Rimase imperscrutabile. «Domani».
Trattenne il fiato. «No…».
«Mi dispiace. Non sai quanto mi dispiace».
«Ti prego, no».
«Margaret, non abbiamo tempo. Io…» deglutì a fatica «Io voglio che tu faccia una cosa, per me».
La ragazza rimase a fissare il vuoto in silenzio, ma Elisabeth sapeva che la stava ascoltando. «Thomas» disse solamente e Margaret si riscosse.
«Cosa c’entra Thomas adesso?» si scaldò.
«Stammi a sentire. Lo conosco da quando era un ragazzino. E’ gentile e di buona famiglia, è un ottimo partito e…».
«No» la interruppe Margaret con veemenza «Non lo stai per dire davvero». Fece per allontanarsi da lei. Elisabeth le afferrò il polso e la tenne stretta a sé. Non aveva davvero più tempo.
«Margaret».
«No! Non ci posso credere!».
«Non ti aspetterà in eterno».
«Aspetterà fino a quando l’inferno non gelerà!».
«Allora fai in modo che ghiacci molto, molto velocemente».
«Non puoi fare sul serio».
«Non sono mai stata più seria». Le prese il mento fra l’indice e il pollice, girandole il viso per costringerla a guardarla.
«Non sposerò Thomas» ringhiò a denti stretti.
«E io non voglio che tu aspetti in eterno una nave che potrebbe anche non tornare».
Margaret si liberò il braccio e quasi non si avventò su di lei. «Smettila Elisabeth!».
«Lo sai che ho ragione».
«Basta, non voglio ascoltarti».
«Fermati. Dovrai darmi retta invece».
Le lacrime di Margaret le scivolarono lungo le guance e giù per il mento, cadendo sulle spalle della mora. «Perché vuoi rovinare anche il poco tempo che possiamo passare assieme?».
«Perché voglio che tu sia pronta».
«…a cosa?» boccheggiò.
«A tutto».
Meg si asciugò gli occhi con un gesto veloce del braccio. Decisa, le prese il viso tra le mani, la punta del naso che sfiorava la sua. «Tu tornerai da me. Sempre».
«Margaret…».
«Mi hai sentita?! Tu tornerai da me, tu devi tornare, devi!» ordinò con voce rotta.
Fu come se Elisabeth si fosse svuotata, privata di tutto il suo coraggio, tutta la sua schiettezza, tutta la sua durezza e l’unico sentimento che pesava nel suo cuore, trascinandolo a fondo, impendendogli di salvarsi, era il dolore. Fece per stringerla a se, cullarla sul suo petto, abbracciarla fino a inglobarla, a racchiuderla nel suo sterno per non doverla lasciare indietro, ma Margaret si mostrò più risoluta di lei e la tenne lontana.
«No, me lo devi promettere! Devi rimanere in vita a qualsiasi costo, promettilo! Vendi l’anima al diavolo se serve!».
Le corde vocali di Elisabeth sembravano essersi spente.
«Promettimelo, maledizione!» la incalzò piangendo.
«Lo farò. Se tu sposerai Thomas».
«Non scenderò a patti con te».
«Allora non tornerò».
Margaret alzò i pugni, colpendola ripetutamente sulle braccia, sul petto, sulle spalle. Elisabeth le bloccò le mani a mezz’aria.
«Non puoi farlo!» la accusò la ragazza, provando a liberarsi.
«L’ho già fatto. Io ti prometto che farò tutto il possibile per tornare da te, se tu mi prometti che sposerai quel…» si trattenne dall’utilizzare qualche aggettivo non troppo carino «pescatore».
«Io non posso farlo!».
«E invece lo farai. Se mi ami, lo farai».
«E’ proprio perché ti amo che non posso farlo!».
Elisabeth non sentì ragioni. «Aspetterai due anni, se sarà necessario. E se non mi vedrai tornare, manterrai il tuo impegno».
«Tu non avrai mantenuto il tuo».
«Almeno ci avrò provato, come ci dovrai provare anche tu. Dammi la tua parola, Margaret».
L’altra scosse la testa, abbassando lo sguardo e soffocando il pianto.
La chiamò di nuovo, spronandola.
La ragazza si accasciò infine contro il suo seno, bagnandolo di lacrime, sconquassandole il cuore, la volontà, lo spirito, tutto il suo essere. I singhiozzi risuonarono fra le pareti come una macabra melodia che Elisabeth sperò di non dover ascoltare mai più. Le accarezzò i capelli, le baciò la fronte, ma non fu soddisfatta fino a quando Margaret non disse le parole che aveva bisogno di sentire: «Lo prometto, lo prometto», ripetute come un mantra, una volta, due volte, tre volte, quattro volte, cinque volte, sovrastato dai sussulti e dai gemiti.
«Ti amo» le confessò all’orecchio Elisabeth, quando tutto cadde nel silenzio. Il solo segno che le permetteva di capire se Margaret fosse ancora sveglia era il suo tremore.
«Io di più…».
«No» rispose in una smorfia «Non credo».
Meg la reclamò, toccandole il corpo come se dovesse essere l’ultima volta e la loro consapevolezza rese tutto più sofferto, più necessario, più malinconico. Elisabeth le baciò la fronte, il naso, le labbra, il mento, il sesso, le bisbigliò all’orecchio quanto tremendamente e disperatamente l’avesse cercata, voluta, sentita, sognata, amata dal primo momento in cui l’aveva vista al molo, le gambe a mollo nell’acqua, e anche dopo, quando l’aveva spinta in una viuzza senza uscita per darle il suo primo bacio e prima di confessarle che Wileilm il Rosso l’aveva ricettata nella sua banda di manigoldi nemmeno troppo svegli; Margaret le aveva gettato le braccia al collo facendola quasi cadere. Quella volta non le aveva chiesto di restare, ma le aveva detto: «Vengo con te». Elisabeth, inutile dirlo, non avrebbe mai potuto permetterglielo.
Fino a quando il canto del gallo non annunciò l’arrivo del nuovo giorno, rimasero l’una stretta nelle braccia dell’altra.
 
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Elisabeth baciò la sua Margaret sulla guancia prima di abbandonare quella camera per sempre. Non la svegliò, perché il loro addio era già stato sancito e non l’avrebbe obbligata a guardarla mentre la portavano via. Chiuse piano la porta, estraendo la chiave dalla toppa, e dopo aver sceso i gradini di quella bettola, lasciò sul bancone quattro monete di rame. L’oste alzò un sopracciglio e iniziò dicendole che lo aveva già pagato, ma la donna gli intimò silenzio, alzando la mano. «Voglio che la mia camera sia chiusa a chiave e sorvegliata. Nessuno deve uscire fino a quando non saremo salpati, sono stata sufficientemente chiara?».
L’uomo annuì con un unico cenno del capo, netto e conciso.
«Sarò meglio, perché ho già pagato qualcun altro per controllarti».
Il Capitano della O’Flaherty radunò i suoi uomini e sulle facce di ognuno era incisa a lettere infuocate la sconfitta. Riservò uno sguardo particolare all’unica femmina della ciurma, lanciandole un’occhiata d’assenso. «Ora siamo tutti sulla stessa barca» disse con il suo marcato accento irlandese ed Elisabeth annuì.
«Lo siamo» concordò.
«Andiamocene con dignità. Nessuno dovrà ricordarsi di noi, nella nostra casa, come un branco di codardi reietti e impauriti. Non sprecate il mio ultimo desiderio. Le ultime volontà di un uomo sono la cosa più importante che possiede».
Uscirono acclamati. Gonfiarono le vele dell’imponente galera, la caricarono di viveri, prelevarono le casse dai commercianti e stabilirono un piano di navigazione. Salparono, levando l’ancora, senza fretta, e le mogli e i figli di quegli sfortunati contrabbandieri li salutarono agitando mani e fazzoletti.
Elisabeth guardò la stanza che aveva abbandonato e alla finestra sporca le sembrò di vedere la sua stella, o forse furono solo il dolore, il rimorso e l’amore a farglielo credere. Poco importava. Nel dubbio, prima di rimuovere il ponte, si portò due dita alle labbra e fece volare il suo bacio.
I contorni del porto di Lansbury divennero piccoli, sempre più piccoli, e dallo scafo, dalle scialuppe, dalla cabina di comando, le guardie del commodoro emersero con i moschetti caricati, accerchiandoli, e nessuno della ciurma oppose resistenza. Il secondo ufficiale della Corona dette l’ordine di legarli all’albero maestro poi, rivolgendosi a Wileilm il Rosso, disse: «Non ho potuto concedervi più di una notte».
L’irlandese tossì il tabacco dell’ultima pipa che si era fumato. «Hai fatto tutto quello che mi sarei aspettato da un vecchio compagno: hai rispettato il patto».
«Temevo saresti fuggito» ammise compostamente.
«Gli irlandesi sanno ammettere la sconfitta meglio degli inglesi, ma peggio degli scozzesi».
«Non saresti comunque potuto andare lontano. Vi avevamo accerchiati».
Il Capitano ghignò. «Lo so bene. Te l’ho insegnato io, piccolo moccioso. Come ti ho insegnato a portar rispetto per i condannati a morte e hai imparato bene anche questa lezione. Ciò fa di me un buon maestro» guardò il suo equipaggio «No. Siamo pronti».
Elisabeth salì a fatica i gradini di legno del patibolo. I suoi pensieri non erano per la folla, che urlava e chiedeva morte e giustizia, come se le due cose si equivalessero, né per chi faceva le veci della Corona e neanche per il boia. I suoi compagni penzolavano davanti a lei e la guardavano con i loro occhi vitrei e privi di vita. Accusati di pirateria e condannati a morire, come Wileilm il Rosso, primo fra tutti.
Elisabeth, anche se la paura le aveva ravvolto ogni muscolo, ogni nervo, ogni organo, riusciva solo a pensare che non avrebbe più affrancato la nave al vecchio pontile di Lansbury, che non avrebbe più percorso l’intero porto per cercare Margaret e, una volta scorta, non sarebbe più corsa nella sua direzione per abbracciarla e vedere il suo viso.
Le misero il cappio intorno al collo e la folla esultò.  
Il suo ultimo saluto, prima che le travi le mancassero da sotto i piedi, lo rivolse alla sua stella e il suo ultimo battito, prima che il cuore cedesse, fu per la promessa che non sarebbe mai stata in grado di mantenere.
Ma forse l’anima la vendette davvero al diavolo, oppure un angelo ascoltò le sue preghiere silenziose – nonostante tutte le bestemmie che aveva urlato per mare -, perché in un modo o nell’altro Elisabeth riuscì a tener fede alla parola data e a tornare dalla sola persona che non avrebbe smesso mai di aspettarla.
   
 
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