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Autore: Andrew Foulieur    06/01/2017    0 recensioni
La storia parla di un ragazzo che si ritrova essere un eroe e da ciò gli viene assegnata una missione, ma non può morire fino a che non riuscirà a terminarla. Sarà in grado di raggiungere il suo obiettivo?
Genere: Azione, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 2

La notte più lunga

Decidemmo di partire immediatamente lasciandoci i sconfinati boschi del Canada centrale. Furono la mia casa fino a quel momento, ma sentivo sulle spalle il peso di qualcosa di più grande di me. E che avrei voluto risolvere, così da spiegare il motivo degli allenamenti così incessanti. Così Kaze sentenziò la nostra doverosa partenza: un semplice “dobbiamo andare”.
Scendemmo dalle montagne dell’Ovest del Canada… verso l’Oceano Pacifico. Ci mettemmo quasi una quindicina di giorni, tanto che mangiammo giusto per non “morire di fame” perché i nostri corpi… soprattutto il mio… erano predisposti anche al non dover dormire per giorni interi, perché sapevamo che la missione era più importante. E non una parola da parte sua, dopo aver scalato intere montagne, attraversato fiumi e lande desolate o incontrato indiani inseguiti da cowboy senza scrupoli: tutto senza mai fermare il passo. Non c’era concessa pausa.
Sino al decimo giorno: qualcosa la disse.

«Siamo diretti a Vancouver e da qui ci vorranno altri due o tre giorni massimo. Ho un amico che ci potrebbe accompagnare in Giappone. Si ritrova a fare questa tratta – dal Giappone al Canada – per motivi a me strani, ma che mi ha permesso di trovarti… anche se gli sgherri “dell’uomo che ha fregato la morte” m’hanno trovato lo stesso. Ha agganci in tutto il mondo conosciuto e credo che l’abbiamo già conosciuto tutto. Nemmeno nei poli potremmo nasconderci da lui. Ho avuto modo di conoscere la sua crudeltà, nel mio paese, quando fece massacrare cinquanta persone a un funerale. Con il morto. Non so come ci sia riuscito, ma è come se avesse semplicemente chiesto al morto di alzarsi ed evidentemente aveva dei risentimenti verso tutti i presenti: sono riuscito a salvare la pelle del mio protetto per il rotto della cuffia!» – Era pieno di risentimento, tanto che con la mano sinistra tratteneva forte il manico della spada e con l’altra stringeva il pugno… per trattenere la rabbia. Era da tanto che non parlava, forse per questo che riuscì a confessarmi una parte della nostra… forse era mia soltanto… missione e non riuscivo ancora a immaginare cosa mi sarebbe aspettato in futuro, ma lui lo sapeva cosa mi sarebbe aspettato e me lo stava deliberatamente nascondendo: senza una chiara spiegazione… o voleva proteggermi.

Tante domande per nessuna risposta.
Cercammo delle informazioni sul nostro uomo, ma nessuno sembrava saperne niente… anche su eventi straordinari accaduti nella zona, soprattutto perché Kaze era riuscito sia a ritrovare il dono della parola e sia perché avremmo dovuto poter bloccare esseri tipo L’Orso. Non avrei più dovuto rischiare d’abbatterli perché non hanno saputo utilizzare al meglio l’occasione di poter vivere. La vita è un lusso che nessuno dovrebbe sprecare: soprattutto io che non avrei più permettermi il lusso di poter morire. Le informazioni raccolte ci diedero la motivazione per muoverci: da alcuni poveri viandanti che avevamo conosciuto per la strada verso Vancouver, apprendettimo che nella suddetta città v’erano strani fenomeni di sparizione… gente che spariva senza un apparente motivo. La sera, soprattutto. La particolarità era che erano tutti maschi adulti: anche viandanti che s’incontravano il giorno prima, il giorno dopo erano belli che spariti. Nessuna prova e nessuna traccia. Chiedemmo anche dell’uomo orso – L’Orso, dunque – e ci venne detto, da indiani Cherokee incontrati e fuggenti dalla furia dell’americano bianco, della leggenda di un grande sciamano divenuto tutt’uno con la natura divenendo lui stesso un’animale. Non ci dissero come avesse fatto, perché era oscuro anche a loro, ma erano sicuri che il nome dello sciamano fosse Grande Orso delle Montagne. Facemmo due conti e capimmo che era lui quello che avevo quasi ucciso: se non fossi stato io abbastanza debole e lui abbastanza resistente ai miei colpi, sarebbe già morto e arrivai alla conclusione che il nostro orso ha incontrato già il nostro avversario.
Ricordo come se fosse ieri tutti i chilometri fatti per arrivarci, a Vancouver. Temetti di non arrivarci più e che avremmo mollato nel farlo, ma non fu così: forse la mia volontà era da considerarsi più forte di quanto m’aspettassi… soprattutto per combattere una battaglia – o guerra – contro un essere che avevo soltanto sentito nominare, ma che ha combinato molti più guai di quelli di un elefante in una cristalleria. Anche se dovrei capire chi va a mettercelo, un elefante in una cristalleria. Avevo già visto quei territori, in spedizioni di caccia per conto degli altri indiani Cherokee migrati in Canada, ma non l’avevo mai attraversati per scopi personali. Erano soprattutto montagne altissime tutte da scalare, scoscese e piene d’insidie: da sconsigliare a persone non esperte. L’unico vantaggio era che avevo modo di cacciare molte alci e montoni per poter mangiare… anche se avevo capito che non mi sarebbe nemmeno servito più il mangiare per sopravvivere e sarebbe stato il cruccio soltanto di Kaze. In ogni qual modo, ci ritrovammo nella città di Vancouver dopo circa tredici giorni di veloce cammino. E tutto mi sembrava chiaro. C’avvicinammo dalle montagne, in modo che nessuno ci potesse vedere arrivare. La città sembrava tutt’altro che deserta, infatti in circa vent’anni i coloni avevano già eretto una delle città destinate a essere uno dei caposaldi della nazione. Tutte le case erano fatte in legno, quindi “facili” da costruire. Villette a schiera, tutte uguali e giusto qualcuna più alta per cercare di personalizzare il tutto. Scegliemmo di scendere in città di notte. E ovviamente avremmo dovuto dirigerci verso il porto senza essere visti da nessuno. Seguii Kaze perché era chi tra noi due aveva più esperienza in queste cose, nonostante fossi leggermente più pratico della città di lui. Gli dissi che avremmo dovuto agire velocemente per il bene comune, ma rimanemmo vicini e facemmo attenzione a qualsiasi minimo particolare. Vicoli non troppo stretti, appena più larghi dello spazio di due carrozze, ma nonostante la luna fosse alta nel cielo, incominciammo a correre verso il porto.

«Chiunque potrebbe essere una sua spia: ha lo strano talento di poterti convincere di qualsiasi cosa e la cosa che meno ci serve al momento è attirare l’attenzione. Il porto è dall’altra parte della città, per cui non dovrebbe essere per noi un problema attraversare l’intera città senza farsi notare. O i tetti, o dovremmo cercare di diventare invisibili» – Accennò sottovoce Kaze.

Risposi soltanto con un cenno del capo, dicendo che avevo capito: tanto l’avrei seguito… anche sui tetti. E infatti, incominciammo a fare la nostra attraversata sui tetti… partendo da un semplice salto sulla prima casa. Erano alte sulla decina di metri, per cui non sarebbe stato un problema salirvi e correre. E saltare da una casa e l’altra. Ma non ci pensai e feci il primo salto. Riuscii perfettamente, tanto da darmi la fiducia necessaria per compiere l’attraversata. Decisi di riprovarci con la dovuta determinazione, in quel momento di tensione: se mai fossi caduto, m’avrebbero notato e qualcuno m’avrebbe fatto domande assurde… e non me lo sarei potuto permettere. Corsi senza sosta verso la libertà ed evitando i camini delle case: d’impiccio per evitare di sfondare il tetto… ci sarebbe stato troppo peso e non avrebbe retto, ma avrei dovuto fare di tutto per evitarli e scalare anche i tetti più obliqui. Per farla breve: riuscimmo ad arrivare al porto senza troppi problemi, dove lo stesso Kaze apparì più meticoloso del solito. Eravamo entrambi sulla banchina e circolavano, vicino a noi, altre persone. Chiesi a Kaze se fosse il caso di mescolarci con loro, ma rispose che era meglio di no e si diresse verso il fine di una di queste. Si prese una lanterna portabile a gas, con tanto di manico, per farci luce nella notte stellata… tanto che un cane, al vederci, scappò via impaurito: forse avrà avuto paura di quello che porto dentro; non ci pensai molto, ma continuavo lo stesso a ripetermi che avrei dovuto fare la cosa giusta… non avrei voluto convivere, per la mia intera vita – se mai ce ne fosse stata una fine – con il senso di colpa per non poter rimediare ai miei errori. Stavamo osservando il mare, così scuro e illuminato soltanto dalla luna piena, che con la sua luce sembrava quasi assisterci nel nostro viaggio. Le onde si rifrangevano sui pali che reggevano la banchina e il vento soffiava delicatamente sulla nostra pelle e alcune scatole erano poggiate vicino a noi, quasi a denotare che la prossima imbarcazione sarebbe stata quella che c’avrebbe permesso di partire senza che nessuno ci possa riconoscere.
Passò circa una decina di minuti dal nostro arrivo, nel mentre delle lucciole passarono per il nostro stesso luogo e se ne andarono subito, al sentire il rumore della nave in arrivo. Era maestosa, la più grossa che vidi fino in quel momento, e Kaze imbraccò la spada e guardò la prua per vedere chi si sarebbe affacciato da lì.

«Oooh, salve a tutti i presenti. Uhm, siete soltanto in due… quindi vi do entrambi il benvenuto sulla Prometheus, la nave che vi porterà ovunque voi vogliate. È il vostro capitano che vi parla: Julius Barnes e v’invito a salire… che siamo in partenza» – Il capitano c’invitò a salire sulla nave e due dei suoi “addetti ai lavori” calarono il ponte, per farci salire, con estrema velocità e precisione, tanto che in poco più di cinque minuti eravamo già sulla nave e iniziato tutte le procedure per iniziare la partenza per il Giapppone.

Incominciai a osservare la nave, che prima di tutto tengo a precisare che è una delle prime ad andare a carbone e quindi era tanto maestosa quanto rumorosa. Tutta in metallo, tanto che era paragonabile a un transatlantico… lunga trecento metri, più o meno, e larga sui quarantadue metri, – mi sembra – e mi diedi subito alla ricerca degli altri passeggeri… non ne vidi sul pontile della nave, per cui pensai che stessero tutti nei loro alloggi, data anche l’ora tarda. Nel frattempo, Kaze si diresse subito nelle stanze del capitano per proferirgli qualcosa – o almeno credo – e decisi di stargli vicino… giusto per essere sicuro che non avrebbe cercato di fregarmi di nuovo: non mi piacque il tentativo di cercare di nascondermi l’entità della missione e di viscerarmela poco alla volta… mica sono uno scriba, che gli bisogna dettare una lettera alla volta. Insomma, ci recammo dentro la nave e Kaze stava sempre trattenendo la spada, come se avesse paura che un chicchesia avesse la mera intenzione d’attaccarlo in un luogo stretto e poco incline alla fuga.
Tutto questo, mentre la nave aveva già incominciato a prendere il largo.
Intanto Kaze incominciò a dare dei segnali d’impazienza, mentre cercai anche io di trovare la stanza del capitano, che era quella per fare tutte le carte per l’imbargo. Tutte le camerate erano in metallo, come sopra e su di ogni porta v’era un oblò, con il vetro blu scuro ed era fatto per non far vedere all’interno della stanza, anche se a rigor di logica, dovrebbe esserci qualche cartello per indicare la direzione per stanza più “importante” di tutta la nave… cosa che trovammo quando avevamo già fatto tutto il primo piano della nave ed era proprio di fronte a noi. Poche decine di passi, nel mentre i miei sensi erano in fibrillazione perché il tutto stava diventando ancora più misterioso… oltre alla preoccupazione palesata dallo stesso samurai leggermente più avanti di me. Per farla breve: dalla stanza del capitano della nave ci separavano soli pochi passi ormai, quando Kaze s’avvicinò alla porta e bussò con le nocche per tre volte. Poi aspettò qualche secondo, quando s’accorse che era già aperta e mi fece segno di stare attento: lo seguii… sia il consiglio e sia nell’entrare nella stanza del capitano Barnes.

«Entrate, entrate… vi stavo aspettando» – Disse il capitano, con tono cordiale e sorridente. La sua voce era sempre cavernosa, anche se mostrando felicità, potrebbe quasi assomigliare a un anziano signore delle montagne, ma eravamo in alto mare e da lui avremmo potuto imparare molto.
Appena entrammo nella stanza, il capitano s’alzò dalla poltrona, stante dietro la scrivania posta a qualche metro dalla porta e al centro della stanza, e porse la mano a Kaze, che invece s’inchinò verso di lui unendo anche le mani – la sinistra a palmo aperto e la destra, invece, a pugno chiuso – e anche Kaze aveva una strana espressione: aveva il timore di qualcosa e non l’avevo mai visto così turbato da qualcosa… e mi spaventava il non sapere.
«Capitano Barnes, dovremmo fare i documenti per il viaggio: dovremmo recarci entrambi nel mio paese perché forse ho trovato la soluzione ai nostri problemi… il ragazzo alle mie spalle è uno dei candidati per poter costituire un baluardo di speranza, anche se flebile e segreto, contro chi si fa chiamare “colui che ha fregato la morte” e quindi vorrei solo buttarmi alle spalle tutta questa storia, come tu ben sai» – Questa volta, a parlare era Kaze, cui tono divenne alquanto ottimista, soprattutto nell’introdurmi a Barnes, che divenne stranamente sorpreso della notizia e questo non è che mi fece impazzire dalla gioia, ma ero curioso di vedere come sarebbero andate le cose.
«E dimmi, com’è successo… intendo: come l’hai trovato? E gli hai spiegato tutto… intendo cosa sta realmente succedendo?» – Il capitano era ovvio, da come parlava, che aveva lui stesso dato allo stesso Kaze alcune delle informazioni di cui disponeva e si alzò dalla sedia, per poggiare i palmi delle mani sulla scrivania e fissare Kaze negli occhi, ma non era uno sguardo severo… solo che, per me, stava soltanto assicurarsi che il samurai mi avesse detto tutto o semplicemente voleva darsi un tono per spiegarmi lui “come andasse realmente il mondo”. Il capitano era alto sul metro e ottanta e abbastanza grosso da essere considerato quanto un armadio… capelli e occhi neri, come la pece e una pancia data dalla costituzione abbastanza grossa e dal probabile consumo eccessivo di birra, ma che non avrebbe messo a repentaglio la sua capacità di giudizio.
«Come ho detto prima, io sono il capitano di questa nave: Julius Barnes; quello che non sai è che ho avuto l’onore di conoscere un altro come te, ragazzo. Come te, intendo con l’antica abilità di poter fregare la morte. Lo chiamano “Il viandante”, per la sua capacità di riuscire a viaggiare senza cibo e acqua… per mesi interi e senza alcuna conseguenza. Oltre a questo, ho avuto modo di verificare di persona quelli che sono gli effetti dello stare a contatto con “l’uomo che ha fregato la morte” e ho paura di credere che si è rassegnati a vivere in un mondo pieno di esseri che potrebbero conquistare il mondo… soltanto se lo volessero: tra cui “l’uomo che ha fregato la morte” e molti altri, cui ho avuto la sfortuna di portare incautamente a bordo. Non sembrano nemmeno più loro quando hanno il volto della morte addoso, tanto che si farebbe meglio a toglierli di mezzo, ma non sta a dirmelo se la fortuna starà dalla nostra o meno. Giusto Kaze?» – Il capitano, aspettando la spiegazione di Kaze, decise d’inserire altri dettagli per cercare di spiegarmi come stessero realemente le cose, anche se lo stesso samurai acconsentì con un cenno alle parole del capitano e gli rispose raccontandogli tutto quello che era… e come… successo nei quattro anni di convivenza forzata da chissà quale destino e sembrò non fare nessuna piega, ma gli incominciai a raccontare quello che avevo scoperto d’essere e soprattutto come… pensò soltanto a qualcosa, ma poi prese un libro su cui annotò qualcosa e ci diede subito le chiavi della stanza. Era stanza 237, se non ricordo male.

Lo ringraziammo e ce ne andammo per almeno rilassarci un attimo e goderci il viaggio senza dover rendere conto a nessuno. Sentivo le one del mare, ma che non mi davano alcun problema, ma nel cercare la stanza, percepii un’energia strana nella stessa nave… più tipi d’energia strani, se devo essere sincero e avvertii Kaze, almeno per allertarlo e mi spiegò che la nave era solita trasportare alcune delle persone più potenti del mondo: tutti si fidavano di Barnes… come se tutti si fidavano di lui e che non volevano avere problemi con lui. Sensazione che riscontrai anche io, ma che non presi in valutazione – e considerare – quando mi trovai al suo cospetto; nel cercare la stanza perdemmo circa una decina di minuti dato che i numeri partivano erano in ordine ascendente dall’ufficio del capitano e quindi riprendettimo la strada che conduceva alle scale e scendere a due piani più sotto di quello ove ci stavamo trovando in quel momento: ogni piano aveva cento stanze… cinquanta per lato… e quindi noi stavamo al terzo piano inferiore, come locazione. Tutto in metallo, come l’intera nave, tanto che ne si notava l’eccesso uso… del metallo… che mi chiesi come facesse a non essere divorato dalla ruggine e poi capii, da solite ovvietà, che sarà stato adoperato qualche metallo che ne è immune e tutto questo ragionamento quasi inutile si radicò fino all’arrivo nella stanza. In essa, il samurai decise d’andare a dormire e di mangiare l’indomani, ma io non riuscivo a dormire e decisi di vagare da solo per la nave.
Incominciai ad andare in giro, vedendo che era come il corridoio di un comune albergo… di quelli che si possono trovare sulla terra ferma… e decisi di trovare qualche indicazione per trovare solo qualcosa da fare per ammazzare il tempo, ma l’unico cartello… o persona-cartello… che trovai fu un marinaio della nave che mi consigliò d’andare verso il bar della nave e nel chiedere, capii che non sapevo dove si trovasse e fu gentile nel condurmici. Era uno stanzone… una sala da ricevimenti abbastanza grande da poter intrattenere anche sul migliaio di persone… cui v’erano un centinaio di tavoli e una lanterna a olio su ogni tavolo, ma la cosa che più m’incuriosii fu la desolazione legata a quel bar: v’era una persona soltanto e anche desiderosa di tanto silenzio.
Mi recai comunque al bar: oltre ad avere bisogno di schiarirmi le idee, sentii l’innaturale bisogno di bere qualcosa… tanto Kaze era nel mondo dei sogni, o io così credevo.
Appena arrivato a uno degli sgabelli, mi ci sedetti e il barista mi chiese cosa volessi ordinare e gli chiesi qualcosa che mi tenesse sveglio e che mi schiarisse le idee. Fece lui, ma già… l’ovvietà regna in questo mondo… che m’avrebbe servito qualcosa d’alcolico. Nel frattempo, non mi riuscii mai a spiegare il motivo, nell’attesa incominciai a fischiettare, ma il mio cervello era come entrato in una specie di trance e uscii una melodia indiana che la mia madre adottiva usava per indurmi il sonno dopo giorni d’insonnia perpetuata quasi volontariamente… quasi non ci pensavo più a loro che mi sembrava quasi d’averli dimenticati, ma arrivò subito l’ordinazione da parte del barista e la bevvi tutta d’un fiato e riposai il bicchiere sul bancone.
«Allora avevo ragione… emani odore di morte, ragazzo!» – L’altro ospite del bar proferì parola con me, o almeno mi sembrò di capire.
«Eh già… o sei dalla parte del tizio che ha fregato la morte, oppure sei l’eccezione che conferma che ho sbagliato di nuovo il mio compito e adesso dovrò farti capire tante cose; l’unica cosa, in tutto questo guaio, positiva è che sembri già addestrato per combattere. Mi presenterò soltanto perché sento che di te posso fidarmi, anche se sono sicuro che non saprai chi sono: tutti mi chiamano Guy Fawkes, anche se il mio vero nome è John Blank e posso fare tante cose» – Disse sempre il figuro appena presentatosi perché percepente in me quello che tutti dicono essere “un’aria di morte”, ma non avevo la percezione della mia stessa aura… anche se sentivo quella del mio interlocutore essere cupa, quasi di morte… forse non aveva mai ucciso nessuno, ma qualcosa neanche lui andava con La Morte e per stroncare il mio sguardo pensieroso, mise la mano dentro la tasca ed estrasse dalla sua tasca il bicchiere che avevo appena poggiato sul tavolo e mi prese un colpo quando non lo vidi sul tavolo e strinsi il pugno per cercare di non apparire stupido, ma solo troppo stupito per ammetterlo.
Prese a parlare una lingua che non conoscevo, almeno all’epoca, ma che stranamente capivo come se l’avessi sempre… come una specie di riconoscimento: credo che attualmente sia molto simile all’arabo.
«Calma indiano… ragazzo indiano, non voglio litigare, ma soltanto conoscenza. E tu potresti fare proprio al caso mio, ma…» – Ero nervoso, ma neanche troppo, ma volevo comunque dimostrargli che ero anche io parte di “qualcosa di speciale” e chiesi al barista un accendino e me lo diede, ma nell’accendere il fiammifero, misi la mano intera sulla fiamma e la mia mano prese fuoco… fino a che lo stesso Fawkes non smise di blaterare che non cercava la lite. La sua sorpresa fu strana, o così mi sembrava, tanto che notai il suo guardare strabiliato la mia mano bruciare senza che io mi facessi nemmeno una piega: la mia mano sarebbe rimasta senza un graffio al termine della dimostrazione.
«Sorprendente: un processo di immunizzazione dalle fiamme in corso… è così strano che quasi non credevo di potervi assistere. Ma se possiedi abilità del genere, è strano che Parnassus non abbia già mandato qualcuno a cercarti» – Disse sempre il mio interlocutore, sempre in arabo così da farsi comprendere senza sforzo soltanto da me e nel frattempo il barista sparì, ma lo stesso Fawkes fece per buttarsi su di me e appena riuscì a toccarmi, mi disse di mantenere il respiro.
Anche se avrei appreso molto presto l’identità del fantomatico “Parnassus”.

Il buio, per qualche secondo.

Poi tutto divenne più chiaro: ci ritrovammo entrambi sul pontile della barca e con noi v’erano altri dieci figuri vestiti tutti come Fawkes: tuniche nere partenti dal capo e finenti a terra, pantaloni di tessuto leggero e scarpe di stoffa. Gli altri dieci, i probabili sottoposti del mio interlocutore, erano in assetto da combattimento: spade ricurve a mezzaluna e baffi intimidatori. Si posizionarono tutti in modo da non permettermi la fuga, oltre a separarmi dal loro capo, ma senza ingaggiare alcun tipo di battaglia. Mi scrutavano, per cercare di capire cosa potessi o volessi fare, ma anche io stavo facendo lo stesso con loro; però mi sorprese la passività di Fawkes in tutto questa specie di cerimonia laica per qualche tipo di iniziazione in qualche setta segreta… infatti tutt’e dieci incominciarono a venire verso di me sotto l’effetto di una strana frenesia di morte. Dovevo ringraziare che la notte celava il nostro combattimento agli altri turisti e la prua era abbastanza grande da poter contenere chiunque avesse voluto assistere a quello che sarebbe successo.

«Non è nulla di personale, indiano: voglio soltanto essere sicuro di potermi fidare di te; anche se, in tutta questa storia, saresti solo il pedone che è stato recuperato dal re bianco» – Da quel momento, riprese a parlarmi in inglese, anche se non gli sarebbe servito parlare per dare gli ordini agli altri. E non ero sicuro cosa volesse da me, tanto che strinsi i pugni per dimostrargli che non avrei temuto nemmeno La Morte.
Il primo dei suoi guerrieri m’arrivò alle spalle usando la mia ombra come una specie di passaggio, e da quel trucchetto di magia, capii come aveva fatto a prendermi il bicchiere da sopra il bancone; sentii il vento rasentarmi la schiena e una lama d’argento sfiorarmi il collo, ma riuscii a evitare lo sgozzamento in diretta per evidente fortuna dei miei movimenti e nel muovermi, piegai il braccio destro a gomito e sferrai una gomitata a “montante” verso il mio primo avversario, che una volta preso in pieno volto, cadde a terra sputando sangue dalla bocca. Un solo rumore, quasi metallico e sordo, si sentì per l’urto tra il mio gomito e la sua mascella. Guardai fisso negli occhi del capo di questa specie di congrega di assassini… perché questo sembravano, nonostante dovrei riconoscergli almeno una preparazione eccellente e se fossi stato meno esperto e resistente, sarei da considerare soltanto un morto che parla; allora un altro dei suoi intervenne a sincerarsi delle condizioni del loro collega e un terzo, mentre io ero intento a osservare la scena, cercò d’accoltellarmi alla schiena e nel cercare d’infilare la lama nella carne, la lama si spezzò in due e appena lo vidi, mi voltai e con la nocca della mano sinistra, lo colpii sempre in pieno volto e anche questo finì a terra… sputante sangue dalla bocca.

«Mi stai sorprendendo sempre di più, ragazzo. Due dei miei uomini spezzati da un solo pugno: o vi è un cacciatore nato… oppure vi sono due prede e altre otto che finiranno allo stesso modo, se i miei calcoli sono esatti. Anche se non riesco a spiegarmi come fai anche ad avere un corpo che non può essere trafitto: potresti essermi persino utile, anche se vorrei testare le tue abilità… prendila come una prevenzione da parte d’entrambi. Se soddisferai le mie aspettative, ti renderò finalmente partecipe di tutto quello che sta succedendo qui e perché il samurai ti ha portato proprio da Barnes. Ti piace l’idea?» – Il mago con cui stavo interloquendo sembrava complimentarsi sia con me e sia con il suo stesso ego… credo perché era stato così intelligente da trovarmi prima che il lato oscuro dell’avere dei poteri quasi divini possa corrompermi… e i suoi abili servitori si scagliarono verso di me semplicemente scomparendo dalla mia vista. Erano spariti… o s’erano resi soltanto invisibili ai miei sensi… oppure volevano farmi scontrare direttamente contro Fawkes; aspettai di capire, anche se risposi semplicemente mostrando i denti di sotto avanzando leggermente le ossa delle mandibole inferiori – un segnale usato dagli animali per la comunicazione del territorio – e fu lo stesso Fawkes a scomparire, portandosi dietro di me sfruttando l’ombra riflessa di uno dei suoi servitori.
«Fermo un secondo: già ho visto usare un’abilità del genere… non oggi, s’intende. Esattamente che c’entri con “l’uomo che ha fregato la morte”?» – Dissi, quasi a dentri stretti e stringendo i pugni. Mi tolsi anche la maglia, perché mi dava soltanto impiccio nei movimenti: soprattutto perché il mio avversario aveva l’aria d’essere uno ostico da buttare giù e lui si fermò. Sorridente.
«Hai posto la domanda che nessuno mi ha mai fatto: cosa c’entro io con “l’uomo che ha fregato la morte”… che ironia. Sono una delle poche persone che ti può dare una mano senza avere qualcosa in cambio ed entrambi vogliamo ritardare la morte delle persone, in questo mondo di ritardati senza speranza! Dove hai visto già usare i miei stessi trucchi? Se te lo posso chiedere» – Mi rispose il mio itnerlocutore, quasi proclamatosi “il mio salvatore” e con toni da delirio d’onnipotenza, ma credo che mi volesse davvero aiutare nello stanare quel figlio di puttana che già m’aveva portato già via molte delle poche persone a cui tenevo e avevo intenzione di fargliela pagare, ma cercavo soltanto di mettere insieme i pezzi di questo fotttuto puzzle e lo stesso Fawkes sparì di nuovo, ma senza le solite ombre: direttamente.

Non si vide per qualche minuto.
Solo i corpi degli stronzi vestiti di nero erano giacenti al suolo. Mi guardavo attorno e la situazione era che continuava a esserci nessuno: anche gli altri erano scomparsi. I due erano morti, ma nessuno li aveva ancora recuperati… mi sembrava strano e chiusi gli occhi per concentrarmi meglio e usare le vibrazioni come strumento per percepire qualsiasi cosa attorno a me; oltre al rumore delle onde, nient’altro: solo un rumore, quasi ancestrale, che qualcuno chiamava “il rumore dell’universo”. Non troppo radicato nel mio “povero” cervello e aspettai che Fawkes si facesse rivedere.
Forse avevo scoperto qualcosa e non voleva darmi le informazioni che mi servivano per avere un quadro generale, però un tarlo me l’aveva messo: il cacciatore d’indiani e L’orso sono stati portati via da utilizzatori delle ombre… quindi da uno di loro… o da lui stesso. Era sicuramente collegato sia con i miei due precedenti avversari e sia con lo stesso “uomo che ha fregato La Morte”: questo l’ha sia confessato lui e sia c’ero arrivato anche io… oltre a dirmelo anche Kaze, in via trasversa. E da aggiungere che ne avevo abbastanza perché non avevo abbastanza informazioni su quello che avrei dovuto fare… oltre al dover fermare chiunque dovesse compiere un crimine: quindi, anche Kaze e chiunque stessero pensando che sia un vero idiota e volermi facilitare la comprensione del mio compito?

La risposta non si fece attendere: Fawkes tornò, ma da solo… non sapevo se era lì solo per voler recuperare i corpi stremati dei due assassini – me ne accorsi soltanto quando riuscii a concentrarmi davvero – e comparve dietro di me, con le braccia conserte e con il sorriso stampato sul volto. La situazione era sempre la stessa, nessun cambiamento da pochi secondi a quella parte.

«Ho chiesto in giro: è stato uno della nostra setta… L’Ombra. Ma siamo divisi in due gruppi e io sono il capo nel gruppo di uno dei due: siamo quelli che proteggono il mondo da chi non può essere fermato e usa il suo “essere” per eseguire dei crimini. Siamo dei cultori della morte, per capirci. E in tutto questo, tu saresti un altro di questi esseri che stiamo monitorando da quando hai incontrato il samurai quattro anni fa e anche la parte legata più “all’uomo che ha fregato la morte” ti sorveglia da allora. Avranno già fatto dei test su di te, mandando qualcuno o portando la morte a qualcuno a cui eri legato… giusto?» – Praticamente si confessò e da questo suo parlare capii che era sincero e ci credeva veramente in chi era e in quello che faceva: l’istinto mi diceva che potevo fidarmi di lui e che avrebbe potuto spiegarmi quello che sia il capitano e che sia il samurai non volevano… o che non hanno voluto dirmi; gli risposi che avevano ucciso i miei genitori adottivi e che avevo visto una strana donna in abito nero che era comparsa subito dopo la loro morte.
«Questo modifica di molto le cose: hai incontrato quella che io chiamo “la dama nera”… e ne sei uscito vivo. Allora se Parnassus ha voluto influenzarti, ti crede una minaccia. Ha già fregato una volta la “dama nera” o La Morte, ma scoprendo che c’è un altro come lui, porterebbe il tutto a un altro livello per entrambi. Com’è?» – Fawkes… o Blank… m’aveva semplicemente reso quello che cercavo facendo soltanto la domanda giusta a chi di dovere. Mi chiedo come lui sappia della morte, ma non avrei voluto avere “tutte” le risposte immediatamente, ma puntai a descrivergliela, ma omisi sia il motivo per cui l’avevo incontrata e sia quello che successe dopo. Volevo cercare di scoprire pian piano cosa stava succedendo lì, ma fosse così tanto informato sul resto della questione, avrebbe lui parlato senza che avessi dovuto fargli chissà quante domande.
«Come sempre… bellissima… e nessuno è riuscito mai a vederla più di una volta nella propria vita. Anche io l’ho vista e per questo mi sono deciso nel voler aiutare La Morte nell’equilibrare le sorti dell’universo. E mi chiedo: tu da che parte stai?» – Mi sarebbe bastato lasciato parlare, ma quello che volevo sempre più sapere era lui cosa c’entrasse con La Morte… non era un semplice cultista della morte, ma stava dando sempre più il sospetto che fosse invischiato in questa storia quanto me e non lo voleva ammettere. Respirai un secondo, ma sentivo stranamente che avrei dovuto mangiare qualcosa… anche se non era necessario che mangiassi – le mie abilità mi tenevano stranamente in vita… o semplicemente sentivo leggermente fiacco – e mi toccai la pancia. Vedevo la sorpresa nel suo volto, come se fosse sempre più incuriosito verso un ragazzo che non aveva ancora una comprensione sul suo potenziale.
«Sto dalla parte di chi non mi crea problemi!» – Parlai con voce affaticata, ma non sapevo cosa mi stesse succedendo… sarà stato il non ingerire cibo da quando siamo partiti e il vivere usando gli elementi a mio vantaggio non era stato abbastanza: capii di saperlo fare quando Kaze lo notò in uno dei nostri allenamenti, durante il periodo passato sulle montagne canadesi… precisamente nella regione dell’Alberta, ma sostanzialmente volevo mangiare.
«Curioso… hai subito un calo d’energia: cioè, anche tu ne soffri la mancanza e funzioni come tutti quanti noi e come anche Parnassus stesso. Tutte queste scoperte mi stanno rendendo felice d’aver pagato persino questo viaggio, ma non sei ancora pronto per sapere io realmente chi sia: c’è una parte di me che ti sto tenendo volutamente nascosta per evitarti dei traumi esistenziali. E dire che sei stato proprio tu a farmi capire chi sono, ma è un’altra storia!» – Disse, con atteggiamento folle e del tutto sconsiderato, Blank… a cui stavo incominciando a considerare che l’identità di Guy Fawkes come una semplice maschera e identità di facciata per qualcosa d’ancora più oscuro: faceva finta di usare le ombre.

Usava il teletrasporto, lo stronzo.
Come fece in quel preciso momento, che scomparve e mi lasciò da solo… solo inizialmente, perché ricomparve anche per prendere gli altri due corpi morti dei suoi servi guerrieri.
Mi sorrise, beffardo della mia ignoranza… non m’interessava fermarlo, ma avrei dovuto fermare la volontà dei due miei “conoscenti” di lasciarmi quasi da parte; non mi consideravano pronto per fare quello per cui m’avevano assoldato loro stessi… prima Kaze e poi anche il capitano Barnes. Anche se la cosa più strana che nessuno dell’equipaggio avesse avuto l’ordine d’intervenire per evitare che ci fosse il combattimento, anche se erano le undici di sera… più o meno… e in tutto questo, la colpa di tutto era soltanto la mia. Non ero in grado di battere nessuno di realmente così forte: Kaze, Blank e anche lo stronzo che mi ha fatto cadere un’orso da un albero di almeno venti metri. Non m’ero mai scontrato con qualcuno di così forte da mettermi al tappeto e non mi sarebbe importato d’essere ancora all’inizio… anche se con L’orso stavo rischiando, mi è bastato impegnarmi leggermente e ho fatto quello che dovevo fare. Nella vita basta allenarsi e applicarsi: ed è tutto qui, il segreto per essere persone migliori.

Rimasi qualche minuto a ragionare da solo, nel frattempo decisi di dirigermi verso le cucine per via dei mormorii prodotti dalla mia pancia:anche se avrei dovuto percorrere tutta la strada per ritornare al bar della nave e mi sarei dovuto impegnare anche soltanto per mangiare. Mi recai verso l’interno della nave, usando la porta per accedervi dalla prua e incominciai ad addentrarmici, notando che comunque non c’era nessuno: come se tutti si fossero volatilizzati; mi diressi, prima di recarmi nelle cucine, dal capitano Barnes: avrei voluto incontrarlo per dirgli che avevo scoperto in meno di venti minuti quello che in quattro anni Kaze non ha voluto dirmi. Non ci misi troppo ad arrivare fuori dalla stanza di Barnes, forse qualche minuto perché il dolore era sempre più forte e lancinante, ma non mi sarebbe servita l’infermeria… forse soltanto un medico bravo e qualcosa da mangiare.
Aprii la porta, quasi sfondandola.
Mi vide… Barnes… sbigottito e cercò di capire cosa mi fosse successo, ma fece di tutto per pormi subito una poltrona per farmi sedere in quella stanza piena di mobili e quadri alle pareti… cosa che feci subito e mi tolsi la mano. Quello che trovai era una specie di disegno… che lo stesso Barnes mi disse essere una runa, ma non ne riconosceva la natura: sicuramente nel combattimento con Blank sarà successo qualcosa che me l’avrà procrurata. Era nera, sotto lo sterno, non troppo vistosa e quasi scavata nella pelle… ormai il dolore stava anche svanendo. Barnes la fissò, mentre mi chiese cosa fosse successo e dove fossi stato.
«Ho incontrato un tizio al bar che mi ha condotto senza respiro sulla prua della nave e dopo di lui sono arrivati altri dieci tizi… suoi colleghi… e hanno cercato di combattermi o di testarmi… o tutti e due: avevo fame e sono tornato qui, appena lui è scomparso con tutti gli altri… anche se sono riuscito a farne svenire fuori due: io non uccido, anche se sono cultisti della morte!» – Risposi, di scatto e con pensieri sconclusionati, quasi di fretta e senza nessuna pretesa di farmi capire fino in fondo: volevo rimanere sul vago, soprattutto perché non mi riuscivo a fidare di Barnes dopo il non avermi detto molto di quello che sapeva… o era tutto quello che sapeva.
Nel frattempo, incominciai a rilassarmi sulla poltrona ove ero seduto. Mi davo anche un’occhiata in giro per cercare di notare se ci fosse qualcosa in giro che potesse servirmi, anche il mio istinto mi stava dicendo che il mio interlocutore mi stava nascondendo qualcosa… anche se non sapevo cosa; cercavo con gli occhi, ma tra i molti libri e le molte carte geografiche, non riuscivo a trovare nulla.
«Ascolta ragazzo. Non ti ho dato, almeno io, le informazioni che ti servivano perché ognuno di noi è stato segnato da questa “guerra” a modo suo e stiamo cercando d’evitare che altri possano farsi rischiare la pelle per causa nostra. Semplice e conciso: per questo ci servi tu… proprio per riuscire a evitare che altri possano farsi male e sappiamo entrambi che riuscirai a darci una mano. Semplice e conciso» – E si confessò, ma non troppo. Non erano troppe le informazioni che mi sarebbero dovute arrivare da qualcuno conosciuto neanche quaranta minuti prima: anche se Blank me ne diede di più in meno tempo; tanto che prese a spiegarmi come lui aveva conosciuto L’Ombra: i membri della setta erano frequentatori della sua nave, soprattutto da quando prese il titolo di capitano presso la Royal Navy una decina d’anni prima, l’usavano come trasporto del loro personale… oltre all’aver preso informazioni su di loro e quando gli descrissi l’identikit di Fawkes, sbiancò.
«C…come hai conosciuto Fawkes… si dice che sia uno dei più forti della setta… oltre a essere stato l’unico ad aver avuto una “filosofia diversa dell’uso della morte”… sarà successo qualcosa di grave se è sceso lui in campo: mi domando, però… come hai fatto?» – Oltre ad arretrare di qualche passo da me, e poggiando la mano sul tavolo, inziò a balbettare qualcosa.

Gli raccontai come l’averlo semplicemente incontrato nel bar della nave e averci fatto una strana conversazione su quanto puzzassi di morte, ma aggiunsi che avevo capito il messaggio a metà: non volevo dargli troppe informazioni, perché non mi riuscivo a fidare di lui fino in fondo. Non sapevo il motivo di tale sensazione… perché era strano che non sapesse della presenza di Fawkes sulla sua nave. Non avrebbe dovuto nascondermi una notizia del genere, perché così rese ancora più dificile il potermi fidare di lui: tanto l’avrei abbandonato appena lasciata la nave. E seguendo questo flusso d’idee che avevo in testa, mi recai direttamente nella stanza da Kaze: ero furioso con lui, perché anche lui… calcolando le motivazioni del silenzio di Barnes… era suo complice nel rendermi il mio compito più difficie. Sbattei la porta dell’ufficio del capitano senza dare spiegazioni… nonostante fossi leggermente meno dolorante e l’unica cosa che mi faceva andare avanti era la determinazione di terminare tutta questa storia nel minor tempo possibile: tanto sapevo già cosa dovevo fare e cosa avevo già perso, nonostante Parnassus sapeva cos’altro togliermi. Arrivai da Kaze sbattendo la porta della stanza e lo svegliai: s’era addormentato… forse s’era affaticato anche lui… e nello svegliarsi, mi guardò come se stesse ancora dormendo e cercò di svegliarsi molto velocemente, chiedendomi cosa fosse successo.

«Conosco tutta la storia: o almeno credo d’aver capito cosa tutti volevate dirmi. Ho incontrato una persona che semplicemente m’ha fatto capire cosa dovessi fare: bisogna battere Parnassus… questo è il nome dell’uomo che ha fregato La Morte e chiunque volesse combatterlo. Quello che ci ha tolto tutto quello che avevamo e il motivo per cui io e te ci siamo trovati a sputare sangue, ma quello che conta di più e il trovarci pronti a fare tutto tutto il necessario» – Mentre stavo parlando, Kaze stava cercando di svegliarsi, mentre ero arrabbiato e frustrato perché mi sentivo immobile e impotente nel non poter far niente. Non fece altro… Kaze, nell’invitarmi a sedere vicino a lui e gli spigai che non mi fidavo della volontà di non intervenire più incisivamente del capitano del capitano. Lui mi disse che c’era passato anche lui, avendo molti dubbi su quello che avrebbe dovuto fare ed era sempre stato un guerriero solitario, nonostante ha visto i suoi compagni passare dalla parte del nemico con così tanta facilità… fino a quando non incontrò me e il fatto che non avessi più nessuno in cui poter credere… lui cercò di diventare un modello d’ispirazione per me.

Io gli credevo… tutt’ora lo ringrazio per avermi ispirato a diventare chi sono in questo momento.
Ritornando a noi, iniziai a percepire di nuovo quel fuoco dentro di me che non sapevo spiegarmi, ma quella volta, fece reazione con la runa che avevo sulla pancia e come per magia… pensai che lo fosse realmenteapparve Blank in tutto il suo “oscuro splendore”. Sorrise e capii che era una runa per rivelare la mia presenza… aiutato anche dall’ovvio avvenimento.
La sorpresa risultò stampata sul volto di Kaze.
Ci prese entrambi e ci portò sulla prua della nave. Ci guardò e ci chiese per quale motivo l’avessimo chiamato… e poi rivolse il suo sguardo verso la mia pancia, pose una mano sul capo e si massaggiò il mento.

«Capisco, il piccolo scherzetto che ti ho fatto… l’ho fatto perché non volevo che ti ritrovassi senza una guida che ti dia le giuste informazioni. Una persona… di mia conoscenza, mi disse… nella mia giovinezza: non importa ciò chi sei nella tua vita, ma l’importante è come usi il potere che hai nelle vene. E io completerei… e secondo me, l’avrà fatto anche chi mi ha elargito questa “verità”… con una piccola “considerazione personale”: bisogna avere, nei momenti di completo smarrimento, chi ti possa gettare una corda per poter uscire dal pozzo della depressione… e ovviamente, chi ti tende la corda, di solito, è qualcuno che dovrebbe esserci passato. Vedi, ragazzo… non ci vuole niente per fare qualcosa di buono… anche una sola parola è importante a questo mondo. Dove eravate diretti voi due?» – Parlava sempre troppo. Nel suo interloquire, era sempre dannatamente prolisso… che poi voleva dire la stessa cosa. Fece qualche passo avanti e poi ritornò, subito dopo, nella posizione di prima. Guardò di nuovo Kaze e poi di nuovo… un’altra volta. Fece un cenno e da solo… nel suo divagare, ci suggerì soltanto di chiudere gli occhi e di trattenere il respiro: aveva la soluzione.
«Com’è possibile? Siamo arrivati a casa mia!» – Apostrofò Kaze, aprendo gli occhi e poi lo feci anche io. Ci ritrovammo realmente dentro l’appartamento di Kaze: in Giappone. Non era troppo grande e nella stanza ove eravamo comparsi tutt’e tre, v’era un materasso poggiato a terra e tavolo basso usato sia come comodino e sia come tavolo da pranzo: lo notai perché era posizionato giusto una decina di centimetri dal materasso. Per il resto era alquanto spoglia, citando anche una libreria con tutti i saggi riguardanti le arti marziali e la filosofia.

Nessuno dei tre si scompose, anche se Blank tolse subito il disturbo: aveva altro da fare, disse.
Kaze si recò nella cucina e vide che era rimasto soltanto il riso come cibo commestibile. Il suo volto era visibilmente spento. Toccava gli arredamenti come se non credesse d’esseri lì, come se per lui fosse tutto un’illusione. Si grattava la testa con l’altra mano, per cercare di capire come funzionasse il tutto: evidentemente non aveva le conoscenze necessarie per comprenderlo, ma decise che quello non sarebbe dovuto essere il momento per indugiare e di passare all’azione. Infatti, dopo aver preso il tutto per cucinare, tra padelle e il resto, fece tutto quello che avrebbe dovuto fare per mangiare qualcosa dopo i recenti avvenimenti e procedere per i prossimi.

«Mi chiedevo: come l’hai conosciuto quello lì?» – Mi chiese Kaze, mentre già stavamo mangiando vicino al materasso e dopo essersi assicurato che il tutto fosse apposto. Era perplesso: le ciglia gli si tesero leggermente vicino al naso e il resto del volto quasi si spense. Era la prima volta che lo vidi quasi depresso perché lui era sempre quello che… tra i due… aveva sempre tutte le risposte, ma non era quella la l’occasione; ci mettemmo poco per mangiare, nonostante avesse cucinato più di due chili di riso in bianco: era abbastanza ricco per poterseli permettere, da quello che potei ipotizzare quella volta. Nel mentre, gli raccontai come feci a conoscere Blank, poche ore prima – una o due, proprio per essere pignoli – e non fece una grinza. Il dubbio rimase sempre sul suo volto, anche se non credevo nel suo… come il mio… riuscire a comprendere qualcosa di cui non ha minimamente la condizione di causa e gli chiesi per quale motivo fossimo venuti fino a qui: quale fosse il senso di tutto questo viaggio.
«Per bloccare il “Quartetto dell’Imperatore”: i miei vecchi compagni di commilitone. Sono passati dalla parte del nemico quando “l’uomo che ha fregato la morte” si è rivelato qui, in Giappone. Non s’aveva né di quello che sapesse fare e né chi fosse: dopo l’assalto che fece al funerale, di cui già ti avevo accennato, dietro al cadavere si eresse un uomo. Era mostruoso, tutta la pelle era bruciata e i denti erano aguzzi… aveva un aspetto demoniaco, anche se posso giurare che era un uomo. I suoi occhi erano rossi, forse dal troppo sangue circolante nel corpo… di cui l’unica cosa probabilmente umana erano i capelli: erano poche le cose che ricordo di quel mostro. Comunque, i mei compagni di squadra passarono tutti dalla sua parte, soprattutto perché quel giorno scoprirono che portare la morte ai loro nemici non aveva più senso se ci fosse stato qualcuno che avrebbe reso invano ogni loro sforzo. Infatti, riuscii a portare l’imperatore al sicuro in una zona che renderebbe vano qualsiasi tentativo di recupero da parte di chiunque. Ti conviene indagare, io sono riconoscibile qui» – Poche parole per dirmi che avrei dovuto agire. Anche se chiesi se ci fosse qualcosa d’abbastanza consono per potermi camuffare, ma l’unica cosa che mi passò Kaze era un kimono che m’andava un po’ più stretto del normale. E mi decisi a “partire”.

Seguii il suo consiglio e aprii la finestra della cucina, dicendogli di chiuderla appena fossi uscito e mi buttai giù da essa. Scoprii che erano una decina di piani, dalla finestra della cucina di Kaze, ma il cervello mi diceva così e l’assecondai; ebbi, nel frattempo, modo d’osservarmi attorno e vidi i molti palazzi che s’alzavano verso il cielo, mentre mi stavo schiantando a terra perché stavo cercando di trovare un po’ di libertà.
Atterrai… non mi vide nessuno, anche se lasciai un piccolo cratere. Dopo tutto, ero caduto da una ventina di metri… più o meno… anche se rimasi illeso. Decisi di perlustrare la zona, per cercare le informazioni su dove avrei dovuto trovare questi fantomatici alleati di Parnassus. Non sapevo dove cercare, ma pensai di cercare qualche posto ove fossero segnalati i posti vicino a me… meno male che Kaze m’aveva insegnato il giapponese, negli anni in Canada… per cui riuscii a destreggiarmi anche con la difficoltà linguistica e iniziai a vagare lungo il marciapiede. Mi diressi verso sud, in quello che dopo compresi essere il centro di Tokyo, nel mentre incominciai a fischiettare senza un valido motivo… forse era soltanto il mio cervello che cercava di ragionare senza problemi… e mi guardai attorno; la città era in un ottimo stato, nel mentre le poche carovane e macchine passanti a quell’ora davano un piccolo contorno rustico a tutta la situazione. Avendo percorso già qualche chilometro, decisi di focalizzare la mia attenzione sui posti dove era più facile conversare: quindi bar e osterie. Cercai con gli occhi, ma non trovai molte informazioni, anche se mi meravigliai della poca informazione per posti che dovrebbero cercare d’attirarle… le persone e gli unici negozi aperti erano proprio i bar e i chioschi all’aperto per il cibo di strada. Avevo già mangiato e comunque non me lo sarei potuto permettere, mentre però m’avvicinai a uno di queste specie di tende ove ti danno il cibo direttamente in strada per chiedere dove potessi trovare il “Quartetto dell’Imperatore”… in un giapponese abbastanza fluente. Il venditore, che fortunatamente per me, era senza clienti in quel preciso momento, sbigottì a sentire quel nome da qualcuno che non sembrava giapponese nemmeno a pagarlo oro e semplicemente mi disse che non era disponibile un piatto con un nome del genere. Il “Quartetto dell’Imperatore”… un piatto: che diavolo aveva capito. Gli spiegai cosa stessi cercando di preciso e quando finii di parlare, fece qualche passo indietro… mentre prese il coltello che aveva lì sul banco da lavoro e cercò di colpirmici, ma non sapendo che non m’avrebbe fatto niente, lo fece lo stesso e appena il coltello sembrò toccare la mia pelle, mi ritrovai sul tetto del palazzo ove vicino v’era il venditore… se non mi ricordo male, era di gamberetti fritti.

«Che cosa avevi intenzione di fare… idiota?» – Un uomo vestito uguale a Blank m’aveva tratto in salvo da un bordello che non avrei avuto modo di riparare, soprattutto perché non avevo tutto il necessario per condurre una ricerca di così alto livello. Era visibilmente preoccupato, soprattutto perché anche io sapevo chi era il suo capo e cosa “teoricamente” fosse in grado di fare… anche se m’invitò a sporgere la testa e vidi che c’erano degli uomini vestiti di nero che stavano perlustrando l’ambiente proprio dove stavo io pochi minuti prima: evidentemente altre persone erano sulle mie tracce e io non ne sapevo niente. O m’ero illuso del fatto che m’avrebbero lasciato fare il tutto senza interruzioni.
«Cercare informazioni, ovvio: non è colpa mia se sono stato lasciato qui senza e me le devo andare a cercare senza sapere nemmeno dove dovrei andare?» – Risposi a tono, avendo anche compreso il rischio che avrei corso nel farmi trovare: ero formalmente un ricercato da chiunque avessi chiesto anche una sola informazione. Non potevo fidarmi, fondamentalmente, di nessuno. E tutti mi stavano già pedinando, come appena visto.
«Se Fawkes vi ha mandato qui, è perché sapeva gli avete suggerito voi sia il luogo e sia che avreste trovato ogni tipo di risposte… soprattutto quelle che vi sarebbero servite per il completamento della vostra missione, ma capisco che essendoti fatto beccare in cinque minuti: hai il potenziale, ma non lo sfrutti a dovere. Dammi la mano che ci penso io» – Il tizio era sicuramente dalla parte di Fawkes, anche se non avevo molti elementi per definirlo, ma non era nemmeno grosso… il tizio. Non era minaccioso, forse misterioso, ma qualcosa diceva di fidarmi di lui… tanto valeva ascoltarlo senza fare troppe domande.

Mi fidai di lui e mi ci avvicinai… così lui mi prese la mano e ci spostammo usando l’ombra della canna fumaria posta a quache decina di centimetri da noi.
Facemmo tappa in uno dei moltissimi vicoli di Tokyo, dove era difficilissimo sia entrare e sia uscire con la dovuta sicurezza di rimanere vivi e ricordo che per me era sempre era sempre una paura di non sapere cosa mi sarebbe successo l’attimo dopo… mi lasciò di fronte a una porta. Era in fondo a questo vicolo, nella parte contraria all’ingresso nella strada principale e tra i tanti scatoloni, secchi dei rifiuti e qualche barbone, v’era questa porta in legno scuro… forse ciliegio, non ricordo, ma ero sicuro essere imponente. Sui tre metri, o giù di lì. Notai che un uomo uscì da quella porta e si portò quasi a sbarrarmi il mio probabile accesso, ma non sembrava nemmeno darmi corda. Preso da una strana curiosità, mi ci avvicinai e lo fissai. Era grosso, più che altro grasso. Pelle pulita… almeno in apparenza e occhi a mandorla, come Kaze. Evidendentemente, era del luogo e la canotta bianca gli era del tutto aderente. Lo guardai e lui non fece una grinza, fino a che non gli chiesi cosa ci fosse lì dentro e lui mi rispose, di getto, che non mi doveva riguardare… ci rimasi leggermente male perché pensavo che fosse stato più semplice, ma forse il mio giapponese non era così chiaro da essere di facile comprensione a tutti.

«Forse non mi sono spiegato… non sono del luogo e ti sto chiedendo soltanto un’informazione da turista: cosa c’è lì dentro?» – Chiesi, cercando sempre di farmi comprendere, ma nel concentrarmi notai che all’interno del piano terra del palazzo v’erano una trentina di persone al massimo e dalla velocità del battito cardiaco, un cinque… o sei… l’avevano accellerato… per cui il tizio di fronte a me era solo un deterrente per chi volesse entrare a controllare. Ormai l’avevo capito e tutto il mio interesse s’era vincolato a questo controllo: se poi m’avrebbe dato una mano per la mia “missione principale”… tanto meglio.
«Io ti ho capito benissimo, ma qui non si può entrare!» – Parlò alzando la voce, ma non mi faceva paura, anche se era alto due metri e grosso di stazza, sapevo d’essere più forte di lui e l’ascoltai solo per capire se aveva capito; tutto sarebbe stato fantastico, per lui, se l’appartenente di uno dei cuori che aveva il battito accellerato, non incominciasse a parlare frettolosamente e con voce agitata: la voce era femminile e pregava – evidentemente – il suo interlocutore di non farle del male e che gli avrebbe pagato qualunque somma, basta che l’avesse risparmiata. Nessuna risposta nei successivi due minuti nonostante stessi focalizzando quasi tutta la mia attenzione nel capirci di più: lì dentro stava succedendo qualcosa e io sarei stato l’unico che avrebbe dovuto avere la giusta motivazione per risolverla. Non la conoscevo, ma un istinto primordiale di protezione mi sopraggiunse come un pugno nello stomaco e l’unica cosa che avrei dovuto fare era entrare e rimediare a uno scherzo del destino… verso di me.

Nel frattempo, il cultista se ne era già andato, ma appena feci per avvicinarmi alla porta, il mezzo energumeno m’afferrò per la spalla con la mano sinistra e cercò poi di stringere la presa. Lo guardai senza fare una piega… nemmeno una smorfia per cercare di dargli un minimo di soddisfazione… e gli sferrai un pugno all’altezza della giuntura tra l’omero e la spalla sinistra, per volergli spezzare il braccio in due parti: infatti, mi rimase il braccio appeso alla spalla e lui che mi guardava con occhi sgranati. Mi tolsi il suo braccio da dosso, lasciando il suo proprietario nella disperazione, mentre anche il sangue incominciò a uscirgli dalla cavità e gli dissi d’andare in ospedale; dei forti rumori incominciarono a proliferare da appena il “bestione” qui fuori emise l’urlo di dolore, forse di gente che s’era accorta che qualcosa lì fuori non stava andando come programmato, ma ero e sarei stato il loro problema da risolvere… se ne fossero stati capaci.
Entrai, sfondando il portone di ciliegio con un pestone alla posizione dello spioncino per la chiave e il portone s’andò a schiantare sulla parete al lato opposto. Mi sbagliai soltanto per il numero, perché erano superiore alla ventina… di persone all’interno… e quasi tutti si voltarono, nel vedere la loro porta schiantarsi al muro, senza troppe difficoltà, verso di me e non avevo ancora capito cosa stesse succedendo lì dentro, fino a che non vidi tre ragazze con i vestiti strappati e un signore che aveva le mani sulla schiena di una delle tre. Il tutto era di un piano del palazzo, come se la base di questi “novelli” criminali fosse quasi un ripiego o fosse ancora in allestimento; non mi feci problemi nel mostrarmi per quello che ero, mentre loro incominciarono a venirmi incontro con qualunque cosa avessero per le mani: coltelli, spade, mitra e anche semplicemente a mani nude. M’accerchiarono, mentre le tre ragazze riuscirono a scappare perché anche il signore che cercava la loro compagnia venne verso di me mormorando qualcosa, ma rimasi schifato da quello che trovai lì dentro. Armi, droga – lo scoprii dopo quello che era – e qualsiasi altra cosa potessero sia rendere un crimine e sia rendermi ancora più schifosa quella notte che non sembrava non finire mai. Intervenne il primo dei trenta presenti lì dentro e che m’aveva già accerchiato nonostante si tenesse a distanza per ragioni che non ero riuscito a comprendere, che con un coltello cercò di puntarmi all’altezza dello stomaco, ma una spinta da parte mia lo fece volare verso altri due che erano lì per supportarlo: meno tre. La mia non era violenza, ma non ci tenevo nemmeno a mettermi in mostra: la mia missione era portare un po’ di giustizia nel mondo, ma anche nei momenti peggiori non mi passò mai nemmeno l’idea di voler uccidere. Come gli altri sgherri che avevo attorno, cui chiesi di “venirmi addosso” nello stesso momento – per fare prima – e stranamente pensarono che il numero fosse una statistica rilevante per farmi fuori, ma mentre erano già su di me e non riuscivo più nemmeno a percepire la luce perché era nascosta dalle ombre dei loro corpi, mi misi a riflettere; le loro armi nemmeno mi scalfivano e solo la pressione m’indicava dove stavano cercando d’inserire le lame delle loro armi e dove stavano andando a finire i proiettili: chiusi soltanto gli occhi. La solita fiamma s’accese dentro di me, ma quella volta vidi e compresi quanto l’uomo poteva essere cattivo quando sapeva d’essere era in una posizione di comando – o “con la mano dalla parte del manico”… del coltello – riscaldando la mia pelle e nonostante tutti i presenti tentavano di tenermi fermo per picchiarmi, incominciai a sentire attorno a me sia le loro urla di dolore e sia l’odore della carne del loro corpo bruciarsi; non volevo farlo: il volerli punire per qualcosa di cui fossero colpevoli era la mia unca intenzione, soprattutto perché il vedere qualcuno approfittarsi di qualcuno più debole solo per la goduria di poterlo fare – senza alcuna distinzione – mi rese… per il tempo che bastò per farli soffrire e rendersi conto delle loro colpe… alquanto risoluto e privio di principii morali.
Pochi secondi e vidi una ventina di uomini, nudi e aventi escoriazioni da bruciatura di terzo grado su tutto il corpo, crollare a terra ai piedi e contorcersi dal dolore… e altri dieci che lentamente cercavano d’allontanarsi da me, mentre uno era in piedi e mi fissava: un vecchio, sul metro e sessanta… anche lui aveva indosso un t-shirt senza maniche e un pantalone – di quelli usati sotto i kimoni – nero; mi fissava, ma notai che non aveva acuna escoriazione. Non era il tizio che stava palpando una delle tre ragazzine, ma era qualcuno che non avevo mai visto fino ad allora e i tizi rimasti in piedi si diressero tutti verso di lui, per mettercisi dietro: potevo saggiare la loro paura, del tutto motivata… ma non ero io il mostro, in quel momento e lui sembrava averlo capito.

«E tu chi sei? Hai steso venti dei miei uomini senza battere ciglio… e sei del tutto illeso? Chi ti ha mandato?» – Mi disse il vecchio, avvicinandosi a me e non temendomi, come invece facevano gli altri, arrivando quasi a toccarmi. Trasmetteva quiete, stranamente. Avrei voluto spiegargli il vero motivo per cui ero lì, ma qualcosa mi frenò: riflessi soltanto su quello che stava succedendo. Ero in una base di criminali e qualcuno mi stava facendo delle domande, in quel momento e nonostante la sua pacatezza, non mi sarei dovuto fidare.
«Non mi ha mandato nessuno, anche se sto bruciando vivo. Ho sentito una delle ragazzine che uno dei tuoi ha rapito e sono entrato per liberarle: anche se cerco il “Quartetto dell’Imperatore” e questa volta sono più preparato dell’ultima volta. Provate a prendermi!» – Non mi stavo fidando del tizio nonostante mi stava rilassare il cervello con qualche strano trucchetto mentale, ma lo afferrai per il collo nel mentre stavo continuando a bruciare e il mio corpo era sempre duro quanto l’acciaio, tanto che fece fallire ogni tentativo di infilarmi qualcosa nel corpo. L’avevo tra le mie mani, nel mentre mi resi conto di poterlo uccidere e chiusi di nuovo gli occhi, per cercare di capire chi o cosa sarebbe venuto per impedirmi di potermi informare meglio e per evitare chissà cosa, calcolai che il palazzo sarebbe potuto misurare sulla trentina di metri e decisi di portarmelo dove avrei depistato chiunque mi cercasse. Flessi le gambe e feci pressione sulle ginocchia fino a far arrivare il corpo alla massima compressione, per poi schizzare in alto verso il soffitto del palazzo, sfondando tutti i soffitti con la testa: tutto il poco dolore che sentivo, era tutto meritato perché sentivo sempre in errore in ogni cosa che m’accingevo a fare… quella sarebbe stata la prima che avrei cercato di fare bene.

Riuscii ad arrivare velocemente sul soffitto del palazzo, ove non m’interessai nemmeno a quello che c’era negli altri piani e trattenni ancora il tizio per il collo… senza volerglielo spezzare… perché volevo che mi dicesse quello che sapeva… dopo che atterrai a pochi metri dal buco conducente al piano terra.

«Adesso capisco: sei uno di quei mostri, come lo sono anche io, ma molto più forte. Sei il primo a cui le mie parole non hanno effetto e ciò dovrebbe farti onore; con questo, voglio dirti che voglio aiutarti: vai al bar vicino al palazzo imperiale, ma dovresti uccidermi perché io non avrei dovuto darti quest’informazione!» – Mi trovai stranamente interdetto sul cosa fare, ma solo in quel preciso momento, tra la foga del combattimento e il blando tentativo d’avere delle informazioni senza che qualcuno si faccia male, non m’accorsi che s’era attivata la runa che Blank mi fece applicare sulla pancia e comparve lo stesso Blank. Dietro il mio interlocutore, s’eresse l’evanescente assassino, che aveva usato la sua ombra per arrivare direttamente da me. Non capivo tante cose, ma sapevo che non sarebbe potuto rimanere in carcere, perché in qualche modo sarebbe uscito da lì e lui era come me: nel senso che non potevamo essere incatenati senza che non fosse la morte a fermarci; Blank mi diede soltanto uno sguardo, ma da quello sguardo capii che non spettava a me porre fine alla sua “esistenza” e che non mi sarei dovuto far carico anche della morte del capo dei criminali che avevo appena fermato.
«Ehi, aspetta. Ci penso io a lui: lo porterò in un luogo dove nessuno può uscire. È un mio problema e non è giusto che debba rovinarti per me. Io ti rendo la vita più facile e tu la rendi a me: quod sum eris. Vuol dire “sono ciò che sarai”, ma lo capirai a tempo debito. Lo prendo io in custodia, così da permettere a entrambi di fare quello che sappiamo fare meglio: ho già provveduto a dare l’ordine ai miei sottoposti di ripulire la base degli Yakuza… uno dei gruppi criminali più grossi dell’intero Stato… di cui hai ridotto leggermente il numero solamente stando fermo. Comunque qui ci penso io, vai tranquillo!» – Blank… qualche secondo dopo aver portato lo sguardo verso di me, ebbe uno dei suoi flussi di pensiero ad alta voce e la poca sorpresa nel sapere che qualcosa di giusto l’avevo fatta mi fece soltanto fare un cenno e lasciare il collo del tizio della Yakuza, che ormai era soltanto di contorno al nostro dialogo, mentre decisi di spostarlo “delicatamente” verso il mio interlocutore e di andarmene.

Corsi veloce, tra il soffitto e l’altro dei palazzi, per cercare di ritornare all’appartamento di Kaze, ma vagai per circa un’oretta: nel mentre la luna era ancora alta e non avevo più idea nemmeno di che ora fosse, anche i pochi schiamazzi degli ubriachi s’erano affievoliti e si stava incominciando a definire uno strano e inquietante silenzio. Mi guardai attorno, ma non vidi nessuno e neanche nel percepire con tutti i sensi, nessun segnale: se mai ci fosse stata una presenza, s’era resa del tutto impercettibile… come tutti i cultisti della morte che pare mi stiano pedinando, ma che non riuscivo mai a percepire. Nel frattempo, vidi che anche Blank e il tizio che gli avevo dato in consegna se ne erano andati chissà dove, mentre io rimasi lì per capire chi mi stesse seguendo. Continuai a correre, sfidando i miei probabili inseguitori nel raggiungermi e feci qualche chilometro prima di percepire uno spostamento d’aria provenire verso di me. Mi spostai in avanti, rotolando e rimettendomi in piedi in pochi secondi. Ero sul tetto di uno dei tanti palazzi della città, mentre percepii una strana aura, pacata e letale allo stesso tempo, accrescersi in lontananza, ma nella mia stessa linea d’aria: il battito cardiaco intonante un assolo di tamburi. Capii che qualcuno m’aveva raggunto e aveva una spada… dal suo successivo rumore prodotto per rinfoderarsi nel fodero.

«Ho sentito che mi cercavi, strano straniero. Io non so chi tu sia, ma se vai in giro a dire che mi stai cercando, qualcuno ti ha detto chi io sia!» – Disse lo sconosciuto – fino a quel momento – preso da una voglia di combattere, tanto che con un balzo mi si presentò davanti.
«Se fossi più chiaro, mi potresti schiarire anche le idee: sempre che tu sappia chi mi ha messo sulle tue tracce!» – Gli risposi senza fare troppi problemi e strinsi i pugni: mi preparai a combattere.
«Non lo so, ma non mi sembri nemmeno del posto. Mi chiedo come tu possa fare soltanto a sapere a chi sono collegato oppure potresti essere solo un pazzo che s’è messo in testa di fare qualcosa fuori da ogni ragione. Io faccio parte dei buoni, mentre tu chi saresti?» – Cercò di destabilizzarmi sia per il semplice gusto di farmi desistere e sia per evitarsi la probabile rissa. Nel mentre, si diresse verso di me solamente con una rincorsa dal centro del palazzo alla destra di quello ove ero io e un balzo che lo fece piombare, leggermente e leggiadramente, a circa dieci centimentri… e davanti… a me.

Era di fronte a me, il secondo samurai – il primo era Kaze – perché non conoscevo ancora il suo nome. Era magro, anche lui con il fisico definito: si vedeva che era un qualcuno che ha sul proprio corpo il sudore degli allenamenti e della ricerca della perfezione. Capivo il perché fosse un allievo di Kaze e che fosse determinato a sconfiggermi. Tirò un sospiro di sollievo e poi estraè la spada dal fodero, puntandomela in direzione del collo.

«A pensarci: come fai a parlare giapponese e non sembrarlo nemmeno a pagarti a peso d’oro?» – E lo spadaccino arrivò a farsi quasi la domanda dal miliardo di yen: ancora non c’era arrivato che io ero lì per sconfiggerli.
«Mi ha mandato qui La Morte, ma non credo che tu possa saperlo… “guardiano dell’Imperatore”. O mi sbaglio?» – Capii il suo gioco: il tono era abbastanza nervoso e smnuente, ma non ci casca e feci l’unica cosa che potessi fare in quei casi… rispondere a muso duro e ancora più strafottente, proprio per dimostrargli che non lo temevo affatto. Ero del tutto sincero nel dire che ero stato mandato dalla morte stessa per punirlo dei suoi “non so quali” crimini, ma il fatto che seguissero Parnassus non mi piaceva affatto.
«Se ti ha mandato la morte da me, ti ci rimanderò senza mezzi termini!» – Si mise in posizione e si diresse verso di me con uno scatto prodigioso. I suoi lunghi capelli scarlatti erano l’unica cosa che erano del tutto visibili e mantenendo la spada con la mano destra, mollò un fendente all’aria davanti a se e nemmeno vidi la spada che mi toccò, ma sentii il mio braccio sinistro bruciare leggermente e vidi che un taglio era comparso all’attaccatura tra la spalla e il braccio e il sangue uscirmi da lì.
«Hai visto? La mia abilità di manipolatore d’energia mistica mi permette di tagliare qualsiasi cosa, anche se avrebbe dovuto tagliartelo il braccio… e non procurarti un semplice taglio. Chi saresti in realtà?» – Era sempre lui a parlare, tanto sembrava anche lui avere la parlantina veloce e nel buio della notte era il solo a farsi sentire. Si voltò ancora verso di me e fece un altro taglio, ma quella volta riuscii a evitarlo perché riuscii a percepire la direzione della spada e scattai anche io verso di lui.

Vidi i suoi occhi sgranarsi e il resto del volto contrarsi, quindi compresi che aveva capito che avevo evitato il suo fendente. La spalla si stava rigenenerando, tra molti pruriti, anche se credevo d’avere un corpo abbastanza resistente, ma si vedeva che il tipo d’energia era vagamente più forte di quanto immaginassi. Scattai senza troppi problemi, recandomi verso il suo fianco sinistro e allungai il mio braccio sinistro per afferrargli la spada e stringergliela.

«Che diavolo… non riesco a muovere la spada! Lasciala, ti ho detto!» – S’accorse che qualcosa non andava nel verso giusto, perché con quella presa vagamente non direzionata verso di lui, afferrai la spada e cercai di dimostrargli che ero molto più forte di lui e così fosse… se non v’avesse sferrato un pugno avvolto d’energia mistica sotto lo sterno e m’avesse fatto sputare un po’ di sangue.

Un sospiro affannato, feci. Un altro a seguire e l’ultimo a finire. M’alzai da quel mezzo stordimento e mi poggiai la mano sinistra sul punto dolorante, mostrando anche a lui che mi sarei potuto curare all’infinito… senza che lui avrebbe potuto farci niente. A quel punto, si fermò e sbalordito mi chiese chi fossi… perché non aveva mai visto un’abilità del genere e gli risposi con queste parole esatte: io sono il figlio della morte. E l’intero “Quartetto dell’Imperatore” è colpevole di reati gravi contro l’umanità.
Arretrò di qualche passo, il samurai energetico. Forse l’avevo smascherato o più semplicemente era sorpreso della risposta fornitagli: sicuramente non ci credeva, alle mie parole. Nemmeno io credevo d’aver avuto il fegato di dire certe cose con così tanta schiettezza e però sto dimenticando di dire che non lasciai la spada: nel sputare sangue, riuscii a non lasciare la presa e a continuare a fissarlo per alimentare la sua frustazione nei miei confronti.

«Perché non muori, bastardo!» – La disperazione era pronta per risaltare sul suo volto, mentre non ero incline nemmeno a voler cedere di un passo al mio avversario. Non volevo farlo e non l’avrei fatto per nessun motivo al mondo: nel frattempo, stavo ancora mantenendo la sua spada per la lama e lui incominciò a scattare, dopo avermi inveito contro senza sortire alcun cffetto. Me lo chiedevo anche io perché non potevo morire, ma avere come madre La Morte era probabilmente il motivo più gettonato, tra le molte possibilità e nello scagliarsi contro di me, io feci l’unica cosa che mi sarebbe riuscita meglio.
«Perché non posso, ma tu finirai tra poco di mietere vittime innocenti!» – Dai discorsi di Kaze, mi sembrava troppo strano che quello che era a tutti gli effetti un sensei si fosse allontanato dalla sua squadra per ragioni di “comportamenti etici e morali”: quindi prenunsi che s’erano resi colpevoli di qualche reato grave e andai avanti nel sentenziare. Nel frattempo, lui stava cercando di calmarsi, nel mentre percorreva i pochi passi che gli mancavano da me, ma strinsi la mano e ne spezzai la lama in due soli pezzi, facendolo fermare all’istante. La disperazione era uscita finalmente sul suo volto e farfugliò qualcosa d’incomprensibile, ma quello che capii fu che non avrebbe voluto la rottura della spada e che per lui era importante.
«Perché l’hai fatto? Era la spada del mio maestro e tu l’hai rotta: ora la pagherai cara, fosse l’ultima cosa che faccio… bastardo!» – Gli volsi le spalle, perché non ritenevo più giusto combattere perché l’avevo spezzato. Non avevo fatto i calcoli con l’onore dei samurai: ero ormai a una ventina di passi da lui, per dirigermi verso casa di Kaze che era dalla parte opposta a dove stavo andando… per non essere seguito decisi d’evitare di seguire lo stesso percorso: fortuna volle che il mio avversario non sapesse di tutte le mie abilità e mi corse dietro. Mi fermai, appena seppi che mi stava letteralmente rincorrendo e allargai completamente le braccia… le tesi dal loro lato opposto… le roteai, fino a far confluire i pugni vicino al petto: pugno destro vicino al cuore e il sinistro vicino alla bocca dello stomaco… aspettai che fosse troppo vicino per non poter evitare il mio colpo… a un solo passo da lui, mi voltai e colpii. Una solo sospiro, accompagnato dal sangue sputato sul mio petto. I suoi occhi non dicevano niente che non fosse “come hai fatto?” e ormai la disperazione era diventata sua cliente abituale. Gli lasciai anche un’ustione di terzo grado sul petto, proprio per evitare che si potesse dimenticare della mia lezione. Poteva avere la mia età, se non anche più piccolo di qualche anno, ma decisi comunque di rispondergli.

«Questo colpo me l’ha insegnato “La Tigre del Vento”. Lo dovresti conoscere anche tu, o sbaglio? O l’hai dimenticato in così pochi anni di lontananza? Mai attaccare il tuo avversario se non hai modo di conoscere i suoi punti deboli e il tuo era la tua spada. Era anche il tuo sensei e ha percorso molti, se non migliaia di chilometri per sfuggire alle truppe di Parnassus e mi ha trovato quasi per caso e mi ha raccontato di voi: la mia missione è stata soltanto quella di fermarvi… qualsiasi cosa avreste in mente!» – Era già disperato, gli occhi sgranati e credo che avesse sviluppato una specie di trauma nei miei confronti. Non credeva ai suoi occhi, mentre la ferita al braccio s’era rigenerata e l’altro taglio era sulla strada giusta per farlo, ma la sua espressione era stata più esplicativa e steso per terra, dalla caduta dopo aver subito il mio colpo, si posizionò con le ginocchia a terra e mi volse lo sguardo. Era pieno di rimorso e quasi si mise a piangere, ma riuscì a contenersi e a mantenere il “carattere” del nome che portava, però quello che provava era soltanto frustrazione.
«Non l’ho dimenticato, “La tigre del Vento”! Kaze, il mio maestro, è sparito senza darmi nemmeno una spiegazione. Dopo quel maledetto funerale, il capo del nostro plotone Kojiko, decise di deporre le armi a quello che tu chiami Parnassus. Quello che ti ha raccontato Kaze, il mio sensei, è vero, ma non ti ha detto che non ha nemmeno provato a far ragionare Kojiko: se ne andò a cercare da solo a cercare una soluzione. Sono cresciuto, in questi anni senza una guida leale e mi sono macchiato di reati che non avrei voluto commettere, ma che sono stato costretto a fare. Dovresti cercare un certo Nojishi: lo chiamano “Il Gatto della Nebbia” ed è il secondo del quartetto a doverti incontrare, se è questa la tua missione. Da questo momento, verrai conosciuto come il “Demone di Fuoco” del Giappone e ora ti chiedo di lasciarmi in vita. Prometto sul credo dei samurai che non prenderò in esame nessuna rappresaglia su di te, se non mi sentirò in grado di sfidarti in uno scontro leale. Ti ringrazio per il combattimento, demone!» – Rimase inginocchiato, come per rispetto, ma non alzò lo sguardo da per terra e sempre da per terra… e con la schiena piegata con il sedere sui talloni… si diresse verso la spada spezzata e poi riprese a chiedermi di dargli un’occasione per redimersi. Non avevo motivi per non accettare: non avrei voluto ucciderlo, ma l’ustione gliela lasciai soltanto come un “metodo efficace di memoria”.
«Sono io a ringraziarti, ma il motivo per cui sei finito in questa situazione non è per la mancanza di Kaze… anche se riconosco essere solitario: avresti potuto seguire la via del Bushido e fregartene degli altri. Ti verranno a prendere le ombre, per nasconderti da Parnassus: lui e i suoi non morti non ti troveranno mai se le ombre non decideranno di farlo. Addio “Samurai di Giada”!» – Appena il samurai sentì chiamarsi con quell’appellativo, ebbe un leggero sussulto, ma dal nulla arrivò Blank, nella sua uniforme delle ombre, pronto a prelevare il mio avversario che decise di non protestare all’isolazionismo a cui lo stavamo portando; tutti e tre in estremo silenzio… anche Blank… che semplicemente toccò la schiena del samurai e se ne andò via con lui.

Rimasi solo, come ero arrivato su questo palazzo. Nessuno avrebbe sospettato che ci fosse stata una battaglia furenta e fulminea, ma credo che lo stesso samurai volesse smetterla del tutto con questa storia e che il colpo insegnatami da Kaze fu soltanto la ragione per cui ha deciso la sua resa. Decisi di percepire di nuovo la strana aura della spada di Kaze, di cui percepii la presenza solamente dalla fine dei miei strani allenamenti con il sensei: m’era di fondamentale aiuto per sapere sempre dove fosse e mi diressi celeremente a casa sua.
Vi arrivai ed entrai dalla stessa finestra ove ero entrato, e m’accorsi che era trascorso solo il tempo per permettere al sensei di riposare nel suo letto e avere un piccolo senso di tranquillità anche nell’inferno dell’ignoranza, che iniziò a piovere e mi rilassai anche io.
Fino a dormire.
In una notte, avevo superato qualunque difficoltà che mi si era posta davanti e sarebbe stato soltanto un probabile inizio… o tappa… del mio viaggio senza fine. Tanto che spuntò il sole e per me giunse il solitario sonno: tra i rumori delle persone e la pioggia che silenzia tutto il resto.
   
 
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