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Autore: Raven_Phoenix    09/01/2017    3 recensioni
Spesso e volentieri essere inquilini in una numerosa palazzina non deve essere facile. Vite diverse, divise soltanto da una parete o da un soffitto, che però, ad un certo punto, si intrecciano inevitabilmente. Incrociarsi per le scale, chiedere in prestito qualcosa al vicino, litigare per il turno in lavanderia, spettegolare a bassa voce sulle scale, ritrovarsi per giocare a carte o per guardare insieme i Golden Globes awards...
Ryan Astor ne é forse solo in parte consapevole quando riceve le chiavi del suo primo appartamento, situato in un palazzo non proprio nuovo di zecca, pronto ad iniziare la sua nuova vita.
Non sa cosa l'abbia spinto a scegliere proprio quel posto in mezzo a tutti gli altri, ma appena inizia a fare conoscenza con i suoi nuovi vicini, in particolare la giovane e imprevedibile scrittrice Jane Heart, capisce che forse loro avevano bisogno di lui... o lui di loro.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Buonasera a tutti!
Ebbene, ci siamo! Sto per pubblicare ufficialmente per la prima volta una delle mie original! Nel corso degli anni ne ho scritte parecchie ma non ho mai voluto pubblicarle, non so spiegare sinceramente il perché, ma ho sempre dato precedenza a pubblicare fanfic su anime e manga o simili. Ho sempre ritenuto le original molto personali, siccome inevitabilmente per una cosa o per l'altra tendo a prendere ispirazione in parte da esperienze vissute o pensieri generali, e le ho sempre ritenute in qualche modo "private". Ho deciso di abbattere quella barriera, dicendo a me stessa "ehi! Hai un modo di pensare talmente contorto che anche se tu mensionassi un personaggio palesemente ispirato a qualcuno che conosci anche se leggesse lui/lei stesso/a non se ne renderebbe neanche conto!... O forse no? XD 
Non vi annoio oltre e vi lascio al primo capitolo! ^^


Capitolo 1:


Cose da fare:
-Fare la spesa (controllare i negozi in zona)
-Prendere lenzuola nuove
-Essere nell’appartamento per le 15.00 per il camion
 
 
Erano ore ormai che fissavo quella corta e inutile lista appuntata in una delle note del mio cellulare, chiedendomi perché l’avessi scritta e perché non l’avessi ancora eliminata. Ognuno di quei tre punti era impossibile da dimenticare: se non avessi fatto la spesa sarei morto di fame, se non avessi comprato le lenzuola sarei morto di freddo, e se non fossi arrivato alle 15.00 all’appartamento non avrei probabilmente mai più rivisto il resto dei miei averi siccome la compagnia di traslochi non mi sembrava essere molto affidabile.
Non che avessi roba di valore, solo i mobili a prezzi stracciati che avevo trovato online o al mercatino dell’usato e che avevo fatto tenere per gli ultimi mesi negli scantinati della Lemon House aspettando il fatidico “giorno del rilascio”.
Guardai distrattamente l’orario sul cellulare.
Le 9.30.
Mi avevano detto che sarei potuto andare a ritirare le chiavi dell’appartamento tranquillamente dalle 9.00, bastava mostrare un documento in portineria. Una cosa talmente semplice da mandarmi nel panico più totale.
Sarebbe bastato prendere quelle chiavi, e allora avrei realizzato di essere realmente solo. Beh… non che prima non lo fossi in un certo senso, ma potevo sempre contare sui tutori o su una qualche chiacchierata con qualche altro ragazzo dell’istituto, anche se essendo rimasto l’unico di quell’età fare conversazione con bambini in media dagli otto ai tredici anni non era proprio il massimo.
Era pur sempre qualcosa, però.
Ora non avevo più nemmeno quello, ero rimasto completamente solo nel freddo mondo degli adulti, quello che tutti noi avevamo guardato con timore e interesse da dietro i cancelli della Lemon House, in attesa di uscire in qualche modo.
Io ero uscito non proprio nel peggiore dei modi, forse “triste e patetico” poteva andar bene come aggettivo.
Nessuno mi aveva voluto, e avevo oltrepassato l’età in cui era permesso restare all’orfanotrofio. Avevo compiuto diciotto anni, avevo usufruito di un permesso speciale grazie al quale sarei potuto restare finché non avessi ottenuto un diploma che mi rendesse “idoneo al lavoro”, il quale aveva prolungato la mia permanenza altri tre anni. Ora però non c’era più eccezione che potesse salvarmi, i miei giorni da patetico ragazzino abbandonato e non voluto erano finiti. Avevano deciso che era tempo per me di uscire e farmi una vita per conto mio. Certo, tutti alla Lemon House erano stati molto premurosi aiutandomi il più possibile con le scartoffie burocratiche, nella ricerca di un lavoro e di un appartamento, dicendomi di chiamarli per qualsiasi cosa. In rubrica avevo i numeri di tutti, perfino delle donne delle pulizie con le quali spesso mi fermavo a chiacchierare nei corridoi, ma non sapevo se davvero avrei mai chiamato qualcuno, probabilmente non ne avrei avuto il coraggio.
Forse, essendomi abituato a non essere mai stato preso in considerazione da nessuna famiglia mi ero abituato all’idea che non essere speciale per nessuno in generale, semplicemente ero una presenza che come era arrivata se ne sarebbe andata. Non contavo per nessuno come “persona importante”, ero semplicemente un conoscente con cui parlare ogni tanto. Era così, del resto, che io mi ero sempre approcciato alle altre persone. Non ero mai riuscito ad instaurare un legame abbastanza forte con qualcuno, e se per caso era in procinto di succedere quelli venivano adottati e se ne andavano, pronti a realizzare la loro nuova vita. Per non parlare delle mie rare e disastrose relazioni sentimentali, nessuna durata più di qualche mese. “Hai un cuore di ghiaccio” era la frase più comune che mi ero sentito rivolgere dalle mie ormai ex, sostenendo che sembrava non fossi in grado di provare nessuna emozione.
Non era assolutamente vero! Solo che… forse avevo bisogno decisamente di molto tempo per manifestarle, magari anche troppo.
In quel momento, però, di emozioni ne stavo provando eccome.
Avevo una fottuta paura di quello che sarebbe successo da quel giorno in poi.
In quel momento non riuscivo mentalmente a realizzare di essere fuori. La Lemon House non era più il mio porto sicuro a cui far ritorno, e l’idea di mettere piede in quel freddo appartamento dall’aria inospitale mi spaventava più di qualunque altra cosa, era il simbolo concreto e tangibile della mia nuova vita, che non volevo assolutamente.
A me andava bene essere quella conoscenza di passaggio. Era come se fosse diventato il mio lavoro. Io restavo e gli altri se ne andavano, andavo loro incontro quando arrivavano spaesati e li accompagnavo alla porta quando era giunto il loro momento.
Stavolta ero io ad essere stato accompagnato alla porta.
Perciò ora mi trovavo a vagare senza una meta in quella grigia e umida mattinata. Avevo cercato di tirarmi su il morale entrando in una caffetteria dall’aria calda ed invitante, e la cameriera era stata di una gentilezza disarmante, ma non era bastato a far uscire quel freddo perenne che sentivo nelle ossa da quando avevo varcato quei cancelli per l’ultima volta.
L’idea di prendere al volo l’autobus per attraversare di nuovo tutta la città e rientrarci mi aveva sfiorato più volte la mente, ma poi mi ero immaginato la scena in cui, dopo le prime consolazioni affettuose, mi invitavano ad andarmene di nuovo, perché non c’era posto per me, perché la mia stanza era già stata affidata ad un altro, e allora ero rimasto inchiodato sulla scomoda sedia di plastica della caffetteria, sorseggiando svogliatamente una cioccolata calda.
Decisi di iniziare ad adempire ai compiti della mia lista prima di andare all’appartamento: comprare il necessario che mi mancava.
Chiesi alla cameriera carina quali fossero i supermercati più comodi e convenienti nelle vicinanze, e lei prontamente appuntò qualche nome seguito da precise informazioni stradali su un lezioso post-it rosa confetto a forma di fiorellino, augurandomi il meglio. Leggermente rincuorato per quel contatto umano uscii un po’ più speranzoso sul fatto che alla fine non sarebbe andata poi così tanto male, e mi misi alla ricerca dei supermercati costringendomi a vederla come una divertente e bizzarra caccia al tesoro.
Fu la spesa più lunga della mia vita, anche perché era la prima che la facevo unicamente per me stesso. Solitamente se perdevo a sasso, carta e forbice con gli altri ragazzi mi toccava uscire a prendere qualche dolciume, oppure mi proponevo insieme ad altri per andare a recuperare il necessario per una festa di compleanno, nulla di più.
Guardai tutti gli articoli con calma, confrontai le varie marche disponibili e feci attenzione agli sconti della settimana come mi aveva consigliato Gilly, la cuoca della Lemon, e alla fine mi ritrovai con due pesanti sacchetti di plastica rigidi alle mani.
In un certo senso quella pesantezza mi dava un senso di accoglienza, erano le basi per contribuire al mio futuro, e trascinarle per strada rischiando di mandarmi in cancrena le braccia non mi dava così fastidio.
Circa verso le 11.00 mi decisi a prendere la via di “casa”.
La mia nuova casa.
Più mi avvicinavo più sentivo quelle vaghe convinzioni faticosamente guadagnate nelle ore prima svanire metro dopo metro, facendomi tornare allo stato di partenza, solo aggiungendoci due sacchetti incredibilmente pesanti.
Infine giunsi davanti al palazzo.
Era abbastanza vecchio rispetto a quelli adiacenti, proprio per quello era stato possibile riuscire a trovare un appartamento ad un prezzo così basso praticamente in pieno centro.
Due appartamenti per ognuno dei sette piani, facendo un totale di tredici probabili serial killer, tossicodipendenti o famiglie rumorose con interi arsenali di figli come possibili vicini di casa. Non avevo ancora visto nessuno, ma del resto ero stato in quel posto solo una volta, quando ero venuto a vedere l’appartamento dal vivo per decidere se prenderlo oppure no. Avrei potuto aspettarmi di tutto, come del resto mi aveva ricordato George, il mio mentore alla Lemon House, prima che decidessi di prenderlo, convinto dalla vicinanza con il posto di lavoro che avevo appena trovato in un piccolo negozio di giocattoli appena aperto, e io puntualmente avevo deciso di non dargli retta.
Quanto avrei voluto avere con me il puntiglioso George in quel momento…
Mi resi conto di essere rimasto per almeno una decina di minuti buoni davanti all’entrata della palazzina, incerto sul da farsi, e le prime goccioline di pioggia che raggiunsero la mia fronte mi dissero che forse era meglio entrare.
Presi coraggio e spinsi il portone di vetro, trovandomi davanti al piccolo salone d’entrata vecchio stile dove facevano capolino le cassette delle lettere di tutti gli inquilini e la portineria, dove lo stesso uomo sulla trentina che avevo visto la prima volta sembrava essere molto preso dalla rivista che stava sfogliando.
Mi avvicinai al bancone lentamente, sperando di non trovarlo di cattivo umore tanto quanto la prima volta, dove si era messo inizialmente a strillare perché nessuno l’aveva avvertito per tempo che qualcuno sarebbe venuto a vedere l’appartamento libero (e che successivamente però sembrava essersi messo a flirtare spudoratamente con George).
Provai più volte ad aprire la bocca e dire qualcosa per attirare la sua attenzione, ma non ne uscì nessun suono fino al terzo tentativo.
-S…alve.- non sembrava nemmeno la mia voce, dovevo averla dimenticata alla caffetteria dalla cameriera carina.
Non ero sicuro di essere riuscito a farmi sentire finché il frenetico fruscio di pagine della rivista non si fermò, e lui mi puntò addosso i suoi occhietti neri.
-Sì?- disse con la sua voce nasale.
Rimase a fissarmi in attesa di una risposa come se non avesse la minima idea di chi fossi.
-Sono quello dell’appartamento.- riuscii a dire dopo almeno una trentina di secondi di imbarazzante silenzio.
-Tesoro mio, ci sono tanti appartamenti qui dentro.- rispose lui tornando a gettare un’occhiata desiderosa alla rivista, poi probabilmente qualcosa in una qualche area remota del suo cervello dovette rimettersi in funzione, e di colpo spalancò la bocca picchiando una mano sul tavolo facendomi trasalire. –AH!-
-Cosa?!- chiesi allarmato.
-Eri con quel bell’uomo che non aveva occhi che per me! Mamma mia, ero talmente focalizzato sulle sue avances che quasi mi scordavo di te!- iniziò a blaterare alzando di qualche ottava la voce.
Oltre ad essere scandalizzato dal fatto che pensasse seriamente fosse stato George a provarci con lui (e forse dovevo fargli presente che il suddetto “bell’uomo” aveva anche una bellissima moglie e due figli), rimasi pietrificato da quella reazione inaspettata, sentendomi un po’ come alla prima lezione di matematica mentre il professore sciorinava formule una sull’altra senza capirci assolutamente niente.
-Ehm… sì, sono quello nuovo.- quanto era stupido autodefinirsi “quello nuovo”?!
-Perfetto, perfetto, perfetto!- quante altre volte aveva intenzione di dire quella parola? –Dunque, vediamo un po’.- mise con cura un piccolo segnalibro a forma di gatto tra le pagine della rivista prima di chiuderla con uno sguardo che sembrava dire “torno tra poco, dolcezza” e si voltò dandomi un’ampia visione del suo posteriore mentre frugava in una sorta di cassetta di sicurezza –Ecco qui!- si girò di nuovo verso di me con una mezza giravolta da ballerino mancato, e mi porse una piccola chiave.
-Grazie.- dissi titubante allungando una mano per prendere quella che avrebbe aperto il mio futuro appartamento.
-Ti ricordi la strada?- si batté scenicamente una mano sulla fronte –Che sciocco! È ovvio che non te la puoi ricordare se sei stato qui una sola volta. Bene!- Fece il giro del bancone e in un attimo fu davanti a me.
Lo sovrastavo di almeno dieci centimetri (e già la mia statura non era sicuramente da giocatore di basket!), ma con il suo portamento altezzoso sembrava si credesse il padrone dell’universo.
Sì, quell’uomo era decisamente un elemento interessante.
Non smise di parlare un attimo, raccontandomi di quanto fosse adirato perché la meteo non era per niente buona, perché il prossimo weekend aveva intenzione di andare alle terme e non sopportava di sentirsi la pioggia in faccia mentre se ne stava a mollo nell’idromassaggio, per poi passare a blaterare di un assurdo gossip che comprendeva celebrità che non avevo mai sentito nominare (seguito subito da mille smorfie e urletti perché si era reso conto di quanto fossi ignorante in materia).
-Insomma, parlami un po’ di te, anche se ovviamente ho letto tutto il tuo fascicolo per l’idoneità all’appartamento.- ma se non si ricordava nemmmeno chi ero pochi minuti prima?!
-Non saprei da dove iniziare.- mormorai timidamente quando mi lasciò più di due secondi per poter parlare, sfruttando il momento in cui si stava controllando le sopracciglia nello specchio dell’ascensore.
-Suvvia, chiunque nella sua vita deve aver avuto una qualche tresca da raccontare, specialmente un bel giovanotto come te, con quegli occhi grigi così penetranti.- mi guardò attraverso il riflesso dello specchio facendomi l’occhiolino con fare amichevole.
Questo qui mi aveva preso per una rivista di scandali con le gambe.
-Beh… non c’era molto movimento nell’orfanotrofio dove vivevo.-
-Cielo, che brutto posto deve essere stato!- piagnucolò –Vedremo di rimetterti in sesto, non preoccuparti!-
In sesto?
-In realtà non era così male dove stavo.- provai a replicare senza riscuotere molto successo, infatti lui mi lanciò una nuova occhiata compassionevole.
Ero davvero così patetico? Non mi aveva nemmeno chiesto come mi chiamavo né lui si era presentato!
L’ascensore si fermò al quarto piano, e mentre le porte si aprivano sul corto corridoio il nodo allo stomaco si fece ancora più persistente. Vedevo quelle pareti, e quella porta in fondo che sapevo essere l’inizio della mia nuova vita, e non c’era un centimetro di quel posto che io non rifiutassi. Non era il posto che avrei voluto avere, nonostante non sapessi nemmeno cosa volessi.
-Hai avuto fortuna, questo è un piano tranquillo.-
-Evviva.- dissi ironicamente per cercare di non dare a vedere quanto mi sentissi a disagio.
Ero sempre più vicino, sempre più prossimo ad arrendermi all’idea che quando sarei rimasto solo in quell’appartamento vuoto mi sarei abbandonato ad un pianto isterico. Mi sentivo vicino all’iperventilazione, e il portiere stava per chiedermi se mi sentissi bene dalla sua espressione, quando un botto improvviso ci fece sobbalzare entrambi.
Proveniva dal piano di sopra, si potevano sentire passi strascicati e delle voci sommesse dalla tromba delle strette scale che passavano accanto all’ascensore.
-Ehi! Ehi! Ti do una mano ma stai tranquilla, ok?- disse una voce femminile gracchiante, una persona già di una certa età, tirai a indovinare.
-Sono tranquilla, Pam!- rispose un’altra voce molto più giovane, strascicando leggermente le parole.
Il portiere allungò il collo per controllare per poi scollare le spalle e sospirare.
-Un’altra giornata no.- mormorò rassegnato –Fatti da parte, ragazzo.- mi intimò indietreggiando lui stesso.
Altri tonfi.
-Che succede?- chiesi a bassa voce sentendo il panico che montava.
-Nulla di ché, con il tempo ci farai anche tu l’abitudine.- rispose l’altro senza scomporsi.
I passi pesanti si avvicinarono finché non vidi sbucare dalle scale due figure.
Ci avevo azzeccato, la prima era una donna sulla sessantina dall’aria un po’ trasandata, con indosso una tuta color verde militare sbiadita e i capelli striati di grigio raccolti in uno chignon disordinato.
E poi, infine, vidi lei.
Una massa scarmigliata di capelli nero corvino fu la prima cosa che vidi, e subito dopo mi accorsi della ragazza minuta che ci stava sotto.
Sembrava in preda ad una lotta contro l’uomo invisibile, o perlomeno doveva avere appena fatto un giro su un ottovolante per essere in quelle condizioni.
-Serve una mano?- chiese il portiere con discrezione rivolgendosi alla più anziana.
-Fatti i cazzi tuoi, Clod.- abbaiò l’altra liberandosi con un gesto secco dalla presa che la sosteneva, perdendo l’equilibrio e andando a finire contro il muro.
Riuscii a vedere il suo viso tra una ciocca di capelli e l’altra, una maschera di trucco nero sciolto e sbavato, ma riuscii ad intravedere due enormi occhi verdi dall’aria spenta, come se non fosse davvero lì in quel momento.
Mi arrivò al naso quell’odore inconfondibile: era ubriaca fradicia.
Incrociò il mio sguardo per puro caso, e per un momento vi intravvidi un lampo di lucidità. Si esibì in un goffo e traballante inchino.
-Signori, benvenuti all’inferno. Grazie per la vostra partecipazione.- disse in tono acido per poi rischiare di perdere di nuovo l’equilibrio.
Rimasi a fissarla a bocca aperta, non avendo la minima idea di cosa dire.
La donna in tuta la riafferrò prontamente.
-Dai, ti porto a casa.- disse in tono risoluto trascinandola verso il corridoio.
-Cristo! La so la strada!- replicò lei procedendo con passo incerto.
-A quella non pensarci, inizia a cercare le chiavi.-
In tutta risposta lei frugò nelle tasche dei pantaloni e spedì qualcosa diretto a terra qualche metro più in là.
Le aveva trovate.
Rimasi a fissare la scena attonito, sperando di non averla davvero vista entrare e sbattersi alle spalle la porta dell’appartamento proprio accanto al mio.
-Tutto a posto, Pam?- chiese Clod (ecco svelato il mistero di come si chiamava l’eccentrico portiere).
-Le passerà. Sai anche tu com’é.- rispose lei in tono burbero asciugandosi le mani sui pantaloni della tuta.
Clod annuì per poi accorgersi della mia espressione probabilmente ancora allibita.
-Scusa per lo spettacolo. Jane non è sempre così, non preoccuparti. A volte ha delle giornate no.-
-Ah…- fu tutto quello che uscì dalla mia bocca.
-Tu devi essere quello nuovo.- disse la donna – Se dovessero esserci ancora dei problemi vieni a cercarmi al piano di sopra, seconda porta a destra. Chiamami Pam, comunque.- mi allungò una mano che strinsi ancora frastornato.
-Ryan.- mormorai.
Sorrise e mi fece l’occhiolino.
-Mi piaci già.- disse prima di avviarsi verso le scale e sparire verso il piano di sopra.
Clod scosse la testa.
-Mi faranno diventare matto.- disse procedendo poi verso la porta il fondo il mio corridoio.
Ah, già.
In quel breve siparietto mi ero completamente dimenticato di quello spiacevole particolare.
-Bene. Vengo a chiamarti quando arrivano quelli dei traslochi.-
Annuii a testa bassa.
-Grazie, sarebbe perfetto.- risposi imponendomi di sorridere, ma il tentativo non andò granché bene.
-Vedrai, dopo qualche giorno di smarrimento generale andrà meglio. Nel frattempo, se ti annoi posso fare lo strappo alla regola e prestarti qualche rivista. Ho tenuto da parte uno speciale sui red carpet dell’ultimo anno che è la fine del mondo.- disse con aria sognante.
-Ehm… credo che inizierò a sistemare quel poco che ho già portato.- risposi sollevando le buste con la spesa sperando di non risultare sgarbato.
-Nel caso cambi idea sai dove trovarmi, caro.- replicò lui per poi dirigersi a passo spedito verso l’ascensore, probabilmente desideroso di tornare a dedicarsi ai suoi gossip.
-Come hai detto che ti chiami, già?- urlò quando le porte erano già in procinto di chiudersi.
-Ryan!- risposi, scommettendo entro quanti secondi se lo sarebbe dimenticato.
Rimasi solo sul pianerottolo, con la chiave in mano. Guardavo la porta dell’appartamento della ragazza ubriaca, chiedendomi se stesse bene siccome non sentivo più nessun rumore. Forse si era addormentata.
Non riuscivo a togliermi di dosso quel suo sguardo, così arrabbiato con il mondo. Cosa poteva esserle successo?
Con questi pensieri che mi vorticavano per la testa, quasi inconsciamente, feci scattare la serratura ed entrai finalmente in “casa mia”.
Mi ritrovai davanti quel piccolo appartamento completamente vuoto, con le porte di ogni locale spalancate, rendendo ancora più evidente quella desolazione.
Ben presto sarebbe stato disseminato di scatoloni, e in seguito sarebbe stato il chaos più totale per metterlo a posto.
Pregai con tutto me stesso di avere le forze per renderlo più accogliente, cercando di nascondere quanto fosse presente la solitudine che sentivo crescere minuto dopo minuto passato li dentro.
Sistemai con estrema lentezza la spesa alimentare riempiendo la credenza e il frigorifero, il resto lo accantonai in un angolo all’entrata.
Andai al centro del futuro soggiorno, e mi sedetti a gambe incrociate. Iniziai ad immaginare come avrei potuto disporre i pochi mobili che stavano per arrivare e come riempirli, ma possedevo talmente poche cose che neanche impegnandomi al massimo sarei riuscito a riempire quell’appartamento, per quanto piccolo fosse.
“Devo trovarmi un hobby.” pensai fra me e me.
Poco dopo mi persi nei miei pensieri, cadendo in una sorta di trance, e senza rendermene conto mi misi di nuovo a fantasticare su cosa stesse facendo la ragazza dai capelli neri, mi pareva l’avessero chiamata Jane se la memoria non mi ingannava, tanto che quasi trasalii quando Clod arrivò ad avvertirmi che il camion dei traslochi era arrivato.
Uscii in fretta e furia, senza resistere alla tentazione di lanciare uno sguardo alla porta della mia vicina di casa.
Lessi velocemente il nome sotto al campanello.
Jane Heart.
Per un momento l’idea di suonare e chiederle se stesse bene mi attraversò la testa, ma lasciai perdere. Era meglio preoccuparsi di vedere se le mie cose erano ancora intere e non erano state vendute a qualche mercatino delle pulci clandestino nel mezzo del viaggio.
 



Eccoci alla fine del primo capitolo, che spero vi abbia resi un minimo curiosi!
Ci sono molte cose per aria, diciamo che questa era solo una piccola introduzione. Non si sa ancora niente dell'effettivo passato di Ryan, né di quello che l'aspetta nel suo "nuovo mondo". Abbiamo appena iniziato inoltre ad assaggiare qualche personaggio, e ne mancano ancora tanti altri.
Diciamo che l'approccio iniziale di Ryan non é stato proprio dei migliori, ma questo non é che l'inizio. Se in futuro andrà meglio o peggio lo lascio indovinare a voi! 
Spero siate lettori numerosi, siete OBBLIGATI (no dai XD) a recensire, sono aperta a critiche, domande e (spero) anche qualche complimento ^__^' 
Ci vediamo al prossimo capitolo!
Raven :3 
  
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