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Autore: Give_me_only_kiss    10/01/2017    3 recensioni
Todoroki molto spesso fissa il vuoto: non è arrogante, pensa troppo. Midoriya ha paura dell'arte e di Todoroki, ma spesso vorrebbe chiedergli di cosa è fatto.
I ciliegi sono in fiore, Kirishima è una specie di guru e Bakugou riesce a ridere e ad essere serio mentre dispensa minacce di morte.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Shouto Todoroki, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Mi scuso per il titolo osceno, non mi veniva nulla di meglio, perché non so effettivamente di cosa parli. L’ho riletta a pezzi. Ho sonno.
Stavolta la dedico a me. Ad Hans, perché soffro con lui.
 
Petali di ciliegio

 
C’è una voce, nella sua testa. C’è da quando ne ha memoria, da quando ha capito che i libri sono più interessanti della realtà. Da allora, qualunque cosa ci fosse prima nella sua testa era scomparsa, si era trasformata, ed era divenuta quella voce. La voce a cui straordinariamente non sapeva dare un timbro, poiché stava semplicemente lì, nella sua testa. Rimbombava, narrando ciò che succedeva, ciò che vedeva, ciò che voleva che succedesse, sovrastando quella realtà che così poco gli piaceva. Solo il tono riusciva a distinguere, e si sorprendeva sempre della varietà con cui riusciva a sorprenderlo: a volte era arrabbiata, frenetica, illogica; altre volte calma, serena, tranquilla. Forse, se gli fosse stato caratteristica un’ingenuità infantile immortale, l’avrebbe chiamata Luna, per la capacità con cui il suo umore cambiava. A volte invece lo infastidiva, e col passare degli anni, non sa se a causa di un volere inconscio o di un cambiamento naturalmente necessario, aveva assunto un tono freddo, introspettivo, mistico. Parlava di se stesso come se stesse osservando un personaggio al di là di un vetro, e questa cosa gli piaceva. L’essere introspettivo gli permetteva di essere enigmatico in un linguaggio semplice, e il vedersi in quel modo lo elevava a personaggio di un romanzo ottocentesco – almeno così avrebbe voluto – e se ne compiaceva.                                                                     
“Todoroki, lo stai facendo di nuovo.”                                                                                                                                    
Peccato che quello di cui era il protagonista fosse un romanzo d’appendice, nemmeno paragonabile ai romanzi ottocenteschi di cui era tanto innamorato, nei quali la cortesia era un obbligo e l’amore una convenienza e una leggenda quasi taboo; dove le signore indossavano l’eleganza e gli uomini la virilità, nelle epoche dei thè presi in compagnia dell’alta società e delle discriminazioni sociali talmente nette da esistere mondi a loro stanti tra contadini e aristocratici. Lui sarebbe appartenuto all’alta società, sarebbe stato un artista, di quelli incompresi ma lodati perché geniali. È straordinaria la capacità della gente di riuscire a individuare la bellezza senza comprenderla a fondo o saperla spiegare a parole. E quando dice straordinaria non sa quale sia l’accezione con la quale sfrutta quest’aggettivo. Potrebbe dire che sia positiva, ma indosserebbe i panni di un ottimismo che non gli appartiene. Eppure potrebbe dirlo lo stesso, perché i suoi panni sono quelli di un bugiardo patologico che non rivela mai cosa pensa, perciò nessuno si accorgerebbe che sta mentendo: forse, nemmeno lui stesso, se fosse abbastanza bravo.                                                                   “Torna sulla terra.”                                                                                                                                                                    
Immagina che i panni di un bugiardo siano gialli: è un colore che odia e che gli sta male, perciò calza alla perfezione. Sa di essere fin troppo duro con se stesso quando si definisce bugiardo patologico: la sua inclinazione al mentire non è tanto grave da poter essere definita una malattia, è solo solito avere una fantasia fin troppo fervida e perdersi in essa. Non che gli succeda spesso, figurarsi. Spesso sfrutta a suo favore sia l’essere lunatica che introspettiva di Luna e osserva anche le altre persone. Spesso, fin troppo, per una nota che purtroppo fa e farà sempre parte del suo essere, dipinge solo ciò che di bello gli sembra di scorgere nelle persone. Dice scorgere perché più di chi conosce gli piace osservare chi non ha motivo di dargli il saluto. Non che chi conosce sia solito salutarlo con trasporto, visto che la freddezza con cui lui è solito trattare chiunque. Appunta mentalmente a Luna di ricordargli di comprare qualche trattato di psicologia, per almeno tentare di interpretare le immense contraddizioni e ipocrisie presenti, perché le uniche capaci di sopravvivere al suo interno, nella sua testa.                                                                                     
“Todoroki, per l’amor di All Might, torna sulla terra!”                                                                                                    
 Todoroki non sa perché, ma Midoriya lo ha preso per il colletto della divisa e lo sta scuotendo. Il suo viso è pochi centimetri di distanza e vorrebbe dire che percepisce il suo caldo respiro sul collo somigliante a una brezza estiva, ma in realtà l’alito di Midoriya sa delle acciughe che ha sicuramente mangiato per pranzo. Anche solo immaginandola però, la magia c’è. Lui è in grado di vederla, almeno.                                                      
Todoroki, a differenza di molta della gente, di arte ne vede troppa, in giro, perché ve ne è troppa nella sua testa e negli occhi leggermente perplessi e preoccupati di Midoriya.                                                                            
Perché purtroppo non è nato nell’ottocento e non è un personaggio di Anna Karenina, e l’unica storia che può raccontarvi è la sua, degna di un romanzo d’appendice dalla copertina oscena, di sedicenne ballerino innamorato del proprio ignaro migliore amico e dell’arte, dell’amore e di ogni cosa su cui si possa sospirare, lasciando trasparire ovviamente solo una facciata di pallido stronzo a cui non interessa nulla del genere umano. Perché mi piace il suono della parola ossimoro.

Desidera che Tolstoj sia nato in Giappone, in una primavera che veste i ciliegi in fiore. Chissà, allora forse avrebbe avuto un motivo per celebrarne la bellezza ed edulcorarla maggiormente con le sue parole, perle preziose sul collo sinuoso di una donna già particolarmente affascinante. E invece quel dono era stato fatto alla steppa russa, e ai ciliegi in fiore non restavano che quelle poche e sgangherate lodi che Todoroki riusciva a mettere insieme nella sua mente disordinata, tra un soffermarsi e un altro su Midoriya.                         
Midoriya lo conosce da troppo tempo per non andare oltre all’apatica espressione con la quale Todoroki è solito affrontare la gente. Midoriya sa anche che quando Todoroki fissa un punto indefinito e non si fa sentire per un po’, non è perché sia arrogante o qualsiasi altra spiegazione sgradevole le persone attribuiscano a questo suo comportamento, ma perché si perde. Todoroki vive nella sua testa e Midoriya a volte vorrebbe entrarci. Non riesce nemmeno a immaginare cosa vi troverebbe: scommetterebbe su fogli di carta spiegazzati, i tanti romanzi che sa che ha letto e che nasconde nella sua stanza e che Midoriya ha letto con lui, nel silenzio della sua camera, scarpe da ballo rovinate e tinte per capelli.                                                         Non sa che in realtà la mente di Todoroki è un salotto da the che sa un po’ di vittoriano e un po’ di medievale. Lui sta seduto davanti a una donna che un po’ assomiglia ad Anna Karenina – e la sua ossessione non dovrebbe davvero risultare così maledettamente palese – e un po’ a come immagina sia la luna e la Luna della sua testa: la luna è bianca. Nessuno ci riflette più di tanto, ma la luna è davvero bianca. Probabilmente se fosse una donna, indosserebbe un vestito nero.                                                                                 
Todoroki ignora l’odore pungente di sudore che impregna la palestra nella quale si allena Midoriya; ignora anche le urla di Bakogou, il suo compagno d’allenamento, e si concentra su di lui, sulla piccola figura sul ring, così fragile all’apparenza. I guantoni rossi sono rovinati e troppo grandi per quella gracilità che Midoriya non è riuscito e non riuscirà a scrollarsi di dosso, nonostante tutto l’allenamento a cui si sottopone. Todoroki lo ha visto prendere in mano dei guantoni da boxe quando uno solo di questi avrebbe potuto inghiottire entrambe le sue braccia esili, e da allora non ricorda un solo giorno in cui non l’abbia accompagnato in quella palestra, in cui le sue braccia non fossero state ricoperte dai guantoni e dai lividi. Midoriya è il sole. Il dio sole. Todoroki vestirebbe i panni di luna, tanta è ormai la confidenza che vi è tra di loro, e danzerebbe su quel pavimento di stelle sul quale i suoi piedi nudi risuonerebbero al pari di tacchi sul marmo lucente, perché Todoroki danzerebbe fino a consumarsi, su quel cielo che si abbasserebbe a venir calpestato per lasciare che lui si avvicini al Sole. Il Sole brucia, a contatto con l’eterno avversario, e Todoroki vorrebbe maledirsi, perché per come ha inteso la cosa non può più fare riferimenti greca e si rivolge quindi a quella egizia: Midoriya è Ra e Bakugou Seth, e si scontrano ogni giorno, su quel ring.                                           
Midoriya non ha mai avuto talento, in nulla, se non nell’essere buono. Midoriya è buono dentro, anche quando, stretto in canotta e pantaloncini troppo larghi, sferra un gancio a Bakugou, miracolosamente andando a segno. La Luna crede nel suo Sole, ma Bakugou ha il talento, la forza, la cattiveria: a volte la buona volontà può solo arrendersi alla forza bruta. I colpi si susseguono sul ring improvvisato in quella palestra vecchia e troppo piccola: vi sono troppi corpi ammassati e pochi attrezzi, un ring che perde qualche pezzo ogni tanto e sacchi da boxe che vantano ripetute riparazioni. Kirishima, il ragazzo di Bakugou, smette per un attimo di colpire il suo e vi si appoggia, ammirando quello che è il suo compagno di vita da ormai due anni. Todoroki non è bravo a capire la gente, forse meno che a relazionarvisi: di Kirishima e Bakugou ha capito solo che sono due maschi Alpha capitati insieme per caso o per destino, che Kirishima è l’unico in grado di far comportare Bakugou come un essere umano e che si amano. Tanto. Del tipo che il loro amore acceca. Almeno così dice Midoriya. Lui e Bakugou sono legati in modi che nessun altro al di fuori di loro due sembra e vuole capire. Todoroki li lascia scontrare, così fa Kirishima – non sa con quale diritto si pone sul suo stesso piano. Li vede aggrovigliarsi, scalciare, tirarsi pugni, indietreggiare, saltarsi addosso. Bakugou è una mina esplosiva: combatte e ghigna, tira pugni e ride e Midoriya gli tiene testa, seppur con la sua espressione intimorita che un po’ la caratterizza e che Todoroki un po’ ama.                                                              
Nella sua testa, intanto, la Luna continua a danzare per il Sole e la sua battaglia, la danza è sempre più frenetica e non c’è fine, non c’è, se non quella inevitabile: Seth blocca Ra a terra e il re soccombe. La danza s’interrompe e Todoroki torna alla sua realtà ottocentesca e chiede a Luna – l’altra, stavolta – come sia arrivato a immaginare una cosa del genere. Alza lo sguardo verso la finestra e i ciliegi in fiore parlano da sé.  “Mi ha distrutto” ammette Midoriya, sudato ma sorridente, avvicinandosi alla gradinata sulla quale Todoroki siede, in disparte. Non gli importa, ma stona nell’ambiente rozzo e frenetico dei devoti a uno sport come la boxe. Inizialmente lo stesso accadeva a Midoriya, per la sua fragilità genuina, ma ormai è uno di loro, persa anche quella goffaggine che un po’ era sua. Todoroki è la nota sbagliata nello spartito, composto nella sua divisa di scuola perfettamente stirata, i capelli tinti da una parte di bianco e dall’altra rossa. Nemmeno la divisa nasconde i muscoli asciutti, nonostante sia seduto le sue spalle sono dritte, le sue braccia in prima posizione e l’eleganza che gli è innata trascende ogni poro della sua pelle.                                   
“Concordo” conferma le parole dell’amico, porgendogli una borraccia. Midoriya fa una smorfia.                              
“Ma continua pure a incoraggiarmi, prego.” Todoroki soffoca un sorriso: quello sport sarà pure a lui incomprensibile e barbaro, ma ha privato Midoriya della sua timidezza e gli sarà sempre grato per aver reso la sua voce piena di irriverenza e, a volte, anche di malizia.                                                                                                  
“Altrimenti a cosa servono gli amici?” Midoriya fa per colpirlo con un gancio che è probabilmente il più debole che si sia mai visto. Lo schiva scivolando sulla panca, fluido come un gatto.                                           
“Dimentico sempre i riflessi da ballerino” scherza Midoriya, gettando l’asciugamano che poco prima aveva sulla testa sulle spalle “vado a cambiarmi e ti accompagno in palestra.” Fa un cenno alle scarpette che spavalde fanno bella mostra di sé sulla borsa di Todoroki. Annuisce, guardandolo allontanarsi.                                 
“Sempre qua, principessa, eh?” Uno dei motivi per i quali Todoroki non vuole capire il rapporto che c’è tra il suo Midoriya e quel Katsuki Bakugou è l’antipatia incondizionata che non riesce a non provare nei suoi confronti. Bakugou è sprezzante, schietto, arrogante e prepotente. Tutto ciò che Todoroki finge di essere ma che al tempo stesso finge di evitare, ritrovandosi poi con nulla nel cuore.                                                             
“E tu rimani sempre un accanito sostenitore dell’inquinamento acustico” risponde a tono, senza nemmeno guardarlo. Bakugou scoppia in una risata fragorosa: l’unica curiosità che potrebbe spingere Todoroki ad una conversazione quasi civile con quel tipo riguarda la sua capacità di riuscire a ridere spontaneamente mantenendo quel suo ghigno irritante. Todoroki cerca con lo sguardo Kirishima, trovandolo intento a parlare con Kaminari, uno strano ragazzo dai capelli biondi che sembrano non aver mai avuto il piacere di conoscere un pettine, e ciò gli fa perdere ogni speranza di salvarsi dall’inevitabile litigata con Bakugou.                                                                           
“Parlami ancora così e ti faccio esplodere” ride ed è serio, e Todoroki è convinto che un po’ almeno sia pazzo “Una principessa come te non dovrebbe dire certe cose. Perché non metti le tue scarpette e non ci fai uno spettacolino? Siamo tutti curiosi di vederti in calzamaglia. Incluso il tuo amore, la pippa a cui ho appena fatto un culo grosso quanto la tua ridicola cotta per lui.”                                                                               
Todoroki vorrebbe vivere nei saloni ottocenteschi e godere della regola non scritta di non parlare mai dell’amore come un sentimento. In quella palestra, invece, tutti sanno di tutti: che Bakugou e Kirishima a volte scopano negli spogliatoi, che Kaminari è irrimediabilmente cotto dell’insegnante di yoga, che Todoroki è perso per Midoriya. Todoroki sospetta che lo stesso Midoriya lo sappia, ma che faccia finta di nulla.                                           
Il suo cuore affonda in una tazza di the alle erbe: ha letto che sono fondamentali per la risanazione di un cuore spezzato.             
Non sa in realtà, quando è iniziata. Bakugou continua a parlare, ma lui ha già scelto un punto ed è partito. Spesso collega l’amore per Midoriya all’amore per le sue scarpette da ballo, ancora più rovinate dei guantoni dell’amico. Ha iniziato a ballare per caso: non ha più smesso. Ha iniziato ad amare Midoriya per caso: non ha più smesso. Non crede che ci siano delle regole per questo genere di cose: se ci fossero, vorrebbe tanto conoscerle. Crede semplicemente di essere arrivato a un certo punto della sua vita e di essersi svegliato, rendendosi conto che non avrebbe voluto passare nemmeno un secondo di quella vita senza le sue scarpette o senza Midoriya. La possibilità di un’opzione posta sulla stessa importanza della danza l’aveva terrorizzato ma rincuorato: nel suo cuore ora c’era un doppio podio, e Midoriya non sembrava avere intenzione di lasciar andare il posto che occupava con troppa fretta.                                            
Midoriya era un dolce gentiluomo senza casata, non di sangue blu ma nobile stilnovista: era un cuore fatto per amare, amare e amare, e di quell’amore Todoroki s’era invaghito. Midoriya poteva esser tutti e nessuno, poteva far tutto anche senza esserci portato, ma non avrebbe detto nulla se non quello in cui credeva davvero. Questo era tutto e nulla, ciò che spingeva il suo ballo.                                                               
“Katsuki, che ne dici di piantarla?” Todoroki è quasi sicuro che quella sia la voce di Kirishima: perso com’era, non si è accorto delle mani del lottatore che gli stringono il colletto della divisa – colletto che ormai è innocente espiatore di tutte le sue colpe – e dei mille insulti gratuiti che questo gli sta rivolgendo. Bakugou grugnisce, senza nemmeno voltarsi e digrignando rumorosamente i denti. È una bestia feroce, e sta per azzannarlo. Todoroki vorrebbe chiedergli cosa spinge, invece, lui: Bakugou sembra muoversi per inerzia, tanto è naturale e fluido il suo passo, ed è un’inerzia esplosiva, che fa tremare la terra ad ogni passo. Bakugou è un animale. Forse un ghepardo, e Todoroki si compiace dell’idea di non poterlo inserire nemmeno per ipotesi nel suo salotto mentale, perché sarebbe troppo incivile anche solo per un the in compagnia, per chiacchierate senza veri argomenti, per frivolezze senza superficialità, perché concetto che effettivamente, non significa nulla. Bakugou sarebbe un cavaliere o forse un contadino rozzo: un’occupazione che comunque gli permetta di potersi scatenare in qualche caso, se contro un’altra persona o contro il terreno durante una falciatura questo non ha la minima importanza – la violenza ce l’ha codificata nel DNA. Eppure. Eppure. Todoroki sa di non essere affatto rigido nei suoi schemi mentali, eppure. Eppure vedere Bakugou rilassarsi a poco a poco, seppure impercettibilmente, al di tocco della mano di Kirishima che presuppone si sia poggiata alla base della schiena dell’altro, un po’ lo sconcerta. Todoroki crede in pochi tipi di amore: quello tra Bakugou e Kirishima è, per lui, incomprensibile.                          
Decide di chiamarlo “eppure” come quello tra lui e Midorima è un “forse”.                                                                    
Perché, eppure gli occhi di Bakugou si addolciscono un po’ e si abbassano mentre Kirishima gli sussurra qualcosa nell’orecchio con un sorriso a fior di labbra, ed eppure è un bacio quello che forse i loro occhi stanno cercando di chiedersi; perché Todoroki si illude che forse Midorima abbia il fiatone perché ha fatto tutto di fretta, per non farlo aspettare troppo. Forse sorride con il cuore sulle labbra solo con lui.                    
Forse lo ama almeno un po’ di quanto lo ama lui.                                                                                                        
“Andiamo?” gli chiede, e sorride intanto anche a Kirishima e Bakugou, che lo insulterebbe se non fosse per la mano del suo ragazzo che disegna soavi cerchi di pace sulla sua schiena.                                                                   
“Andiamo.” Il suo sospiro è appena udibile: ha chiuso le porte della sua sala, svuotata non sa come e quando, ma è vuota e lui è in ginocchio, in silenzio, al centro di essa. La conosce bene: è la consapevolezza di non avere quella pace, di non poterla avere, di essersi scelto un aguzzino cosciente e bugiardo. Di cui non sa come liberarsi, perché ha scelto lui la sua condanna, l’ha scelta e gli piace. Gli piace ma dentro di sé, a volte, quando nessuno guarda, piange.

Midoriya ha visto ballare Todoroki solo una volta. Non gli riesce facile ammetterlo, perché si sente in colpa per questo, visto che l’amico non rinuncia mai ad accompagnarlo agli allenamenti di boxe, immediatamente precedenti i suoi di danza. Non lo fa per cattiveria, e tanto meno per improrogabilità di impegni.                         
Non lo fa perché lo spaventa.                                                                                                                                                      
Todoroki potrebbe essere il protagonista di un romanzo. Ha sempre lo sguardo perso e ha i capelli tinti. La stupidità di queste affermazioni confermano l’opinione di Midoriya: Todoroki dovrebbe essere celebrato da romanzi, opere, capolavori. Che almeno gli assomiglino.                                                                                                
Quando l’ha visto ballare, Midoriya ha sentito svegliarsi in lui qualcosa. Todoroki, proprio come lui, non ha un talento immenso, né una buona – semmai solo decente – predisposizione naturale. Eppure balla e Midoriya riesce quasi a vederlo, nella sua testa, con addosso un vestito pomposo ottocentesco, di quelli che gli piacciono tanto e per cui ha quasi una malsana ossessione, riesce a vederlo, ed è come il suono di mille violini tutti insieme che intonano una melodia di una tragicità pazzesca. Midoriya adora il suono dei violini, e quella volta, l’unica in cui ha visto Todoroki danzare, l’ha fatto su una canzone struggente, gridata da violini e accompagnata timidamente da un pianoforte, che nulla era se non un inutile e superfluo contorno dell’amore consumato tra i violini e Todoroki. Ricorda che aveva gli occhi chiusi, che era partito accasciato a terra, e che nella sala non c’era nessun altro, perché erano fuori orario e lui stesso gli aveva chiesto di fargli vedere qualcosa. Se c’è una cosa che a Todoroki manca, è il pudore. Nella sua testa la logica funziona al contrario, o forse va sotto e sopra, a destra poi a destra e poi a sinistra, e niente ha senso. Quando balla, Todoroki si spoglia. E l’aveva visto spogliarsi di ogni sua maschera e trasfigurare il suo corpo in un violino, e raccontare ciò che anche gli altri strumenti intonavano ma con il corpo, con la leggiadria con cui lo muoveva, e con la tristezza che aveva negli occhi. E Midoriya aveva visto la fragilità che quella canzone raccontava sul corpo guizzante sotto la calzamaglia nera, e poi farsi più veloce e narrare la storia di una fanciulla dagli occhi blu e poi struggersi ancora, mentre Todoroki girava, girava, e sembrava quasi che i suoi piedi non toccassero terra mentre il suono del pianoforte e dei violini si confondeva fino a non capirci più nulla, e Todoroki si bloccava con il corpo proteso in avanti, ad afferrare una felicità persa ma forse mai raggiunta.                                                                                                                                                                                    
“Dio, ho fatto una pirouette terribile” era stato l’unico commento che aveva fatto l’amico, prendendo un asciugamano dopo aver ripreso fiato. Midoriya era rimasto senza parole, incapace di dire una qualsiasi cosa sulla magia che aveva appena veduto compiersi. Todoroki si era voltato verso di lui, e aveva i capelli scompigliati e alcune ciocche appiccicate alla fronte per il sudore, e la calzamaglia completamente aderente al petto e a tutto il resto.                                                                                                                                                            
Midoriya se n’era andato. Todoroki non aveva detto nulla.                                                                                                 
Lo ascolta, mentre commenta sprezzante l’atteggiamento sempre più inopportuno di Bakugou e i vari tipi di amore che esistono al mondo, sulla strada per la palestra, le scarpette allacciate dietro al collo.                        
Todoroki dovrebbe essere il personaggio di un romanzo: è bello, non gli importa di nulla e di nessuno, è intelligente e fa discorsi senza senso, come la maggior parte delle persone intelligenti, le quali danno per scontato che la logica intrinseca che costruiscono dentro la loro testa e che sta dietro alle mezze frasi che pronunciano sia chiara anche alle altre persone.                                                                                                     
Midoriya, davvero, lo ascolta, ma non fa altro che pensare a quella volta, come fa sempre.                                      
“Insomma, non so davvero come Kirishima faccia a sopportare un tipo del genere.”                                                  
“Lo ama” risponde senza pensare, osservando un petalo di ciliegio che si è depositato tra i capelli bianchi di Todoroki. A volte è indeciso e dentro la sua testa non sa se dire se Todoroki sia fatto di vetro o di porcellana.                                                                                                     
“Ma cosa si può amare di un tipo del genere?” continua, senza accorgersi dei petali sulla sua testa.                        
Io penso” Midoriya fa finta di sfilarsi un guanto “che se ci sono tanti ingegni quante teste, ci sono tanti generi d’amore quanto cuori.” E non ha neanche bisogno di voltarsi per scoppiare a ridere, immaginando e indovinando, nel momento in cui si gira a controllare, l’espressione sbalordita di Todoroki.                                       
“Non usare la mia Anna contro di me” ride anche lui, anche se è anche un po’ serio.                                                  
“A forza di stare in camera tua ho imparato a memoria tutto il libro!” Ride ancora, perché è impossibile stare anche solo qualche secondo in camera di Todoroki senza leggere qualche citazione di quel romanzo, a suo parere, infinito. L’amico si imbroncia, incrociando le labbra e sbuffando lievemente.                                        
Midoriya si ferma, l’osserva, e decide. È fatto di vetro. Si mette sulle punte, e gli scompiglia i capelli, liberandoli dai petali che l’avevano scelti come casa provvisoria. Todoroki ha gli occhi di vetro e lo osserva e non sa di cosa sappia quello sguardo. La mano scende sul suo viso e davvero non sa cosa sta facendo, mentre gli disegna il contorno della cicatrice che gli sfregia quasi metà volto. Non gli ha mai chiesto come se la sia fatta, ma Todoroki gliel’ha raccontato: avrebbe voluto non saperlo.                                                                        
“Izuku…” il sussurro di Todoroki lo riporta alla realtà, alla sua paura e al tremolio delle sue ginocchia. Gli sorride come se nulla fosse successo, e se ne va salutandolo con la mano.                                                            
Todoroki dovrebbe essere il personaggio di un romanzo: la sua cotta è irrealizzabile e lo consuma e mentre si allaccia meglio le scarpette perché ha perso stabilità durante una serie di passi, decide che Midoriya potrebbe essere la causa della sua perdita di equilibrio.

“Un saggio.”                                                                                                                                                                                       
“Sì, un saggio.”                                                                                                                                                                                   “Dopodomani.”                                                                                                                                                                                  
“Sì, il mio saggio è dopodomani.”                                                                                                                                              
“E tu vuoi che io venga a vederti.”                                                                                                                                                 
“Sì, mi piacerebbe che tu venissi al mio saggio di danza che si terrà dopodomani.”                                                           
Vanno avanti così da almeno dieci minuti. Midoriya è sdraiato sul letto di camera sua, le braccia incrociate dietro la testa e il telefono poggiato sul cuscino. Todoroki invece è nella sua, di stanza, e sta facendo i compiti, il cellulare appoggiato distrattamente nell’incavo tra spalla e collo. Stanno parlando da un’ora e mezza ormai, e gli apparecchi cominciano a scottare. Midoriya non sa perché abbiano questa necessità, visto che si sono visti quelli mattina prima di scuola, ma è una cosa che gli piace da morire del suo rapporto con Todoroki: possono parlare per ore di nulla, oppure stare in silenzio, e starebbero bene comunque. Non è capace di fare discorsi seri, come a volte vorrebbe Todoroki: lo angosciano. Eppure a lui non sembra importare, e gli basta parlare, ascoltare tutto ciò che Midoriya ha da dirgli, anche se riguarda semplicemente ciò che ha fatto durante la giornata o una stupida discussione con sua madre.                                          
Perciò, odia il fatto che Todoroki abbia tirato fuori dal cilindro quel tipo di argomento.                                                    
“Shoto, non è che io non voglia venire a vederti ballare, è che…” cerca di pensare a una scusa che sia credibile, mordendosi il labbro. Sa che Todoroki sa che si sta mordendo il labbro e che sta mentendo. Lui lo capisce sempre, quando mente, anche quando sono al telefono.                                                                                      
“Cristo Deku, ho fatto davvero così schifo quando mi hai visto ballare la prima volta?” e anche l’ultima.               
“Cazzo no, no Shoto, non è questo!”                                                                                                                                        
“E allora cosa? Che ti succede?”

Midoriya lo sta baciando. Non sa come sia successo. L’ha sentito singhiozzare, riagganciare. Il silenzio gli aveva fatto compagnia per un po’, poi Midoriya aveva suonato il campanello.                                                           
Il salone nella sua testa si rabbuia ancora un po’. Lui è rimasto in un angolo, le ginocchia al petto: ha perso l’equilibrio. Il sole illumina la sua stanza, non sa quale delle due, e non sa come comportarsi.                          
Midoriya ci mette poco a ricordare che, essendo vicini di casa e migliori amici da tempi a cui Todoroki non vuole dare definizione, ha una copia della chiave di casa sua. Todoroki vive con suo padre, ma in realtà suo padre non vive là: lasciano solo che il vicinato lo creda, anche se sanno che il vicinato non è stupido, e non è difficile accorgersi che la macchina di Endeavor non è mai nel vialetto, e che Todoroki ordina sempre cibo d’asporto. Perciò tutti sanno ma fanno finta di sapere, come lui e Midoriya, che non riescono a fare altro che specchiarsi negli occhi dell’altro e lasciare che i loro respiri si affannino senza motivo. Midoriya ha le mani sul viso, sul collo di Todoroki e lo accarezza, chiedendosi ancora una volta se è fatto di porcellana o di vetro. Todoroki fa finta di non sapere perché lo accarezza a quel modo, e cerca con il viso le sue mani, immaginando di avere petali di ciliegio ovunque, e immagina che Midoriya li stia scansando. Todoroki lo ha sempre voluto, ma al momento il volto di Midoriya è troppo vicino. Lui ha già chiuso gli occhi. Trema.              
“Non posso venire a vederti danzare” sta dicendo Midoriya, ma è troppo vicino e Todoroki è troppo intento a contare le sue lentiggini “perché poi vorrei che tu stessi danzando per me, perché mentre balli lo fai così bene che vorrei che nessun altro potesse vederti.” Tira un sospiro.                                                                                   
“Non ho mai ballato per una persona che non fossi tu.”                                                                                                     
Todoroki ha descritto tante volte Midoriya nella sua testa. Lo ricorda cavaliere, sole, dio in tutte le mitologie che lui conosce, in tutti i secoli caratterizzati da quell’aria medievale che lui ama. Ricorda di essersi soffermato sempre su una caratteristica sua diversa. E stavolta, sceglie gli occhi.                                       
Gli occhi che si sgranano appena gli confessa ciò che ha sempre voluto dire ma che non ha mai detto. Riflettendoci, Todoroki non sa perché non l’abbia mai fatto. Avrebbe dovuto farlo, ma aveva sempre dato per scontato che il suo amore per Midoriya fosse talmente trasparente da non aver bisogno di essere espresso a parole. Midoriya sapeva che l’amava. Todoroki aveva semplicemente aspettato.                              
E ora Midoriya lo sta baciando. Le sue mani sono intorno al suo viso. Le sue labbra sono umide. Todoroki non sa esattamente cosa dovrebbe provare: sente caldo, tanto, e non capisce dove inizia lui e dove finisce Midoriya. Non sa dove sono le sue mani, perché probabilmente ce le ha distese lungo i fianchi. Le sue invece sono intorno al suo viso, premono sulla cicatrice, ma sorprendentemente non fa male. Sì, sa che è normale che le cicatrici non facciano male, ma spiritualmente gli duole sempre un po’, quando qualcuno la sfiora. Midoriya la sta fottendo, la sua anima. Sente il canto dei ciliegi e il profumo delle sirene dei suoi sogni. Gli piace la parola crisantemo e la voce del tipo che canta in metropolitana. Vorrebbe chiedergli di fargli da base per un balletto, qualche volta. La lingua di Midoriya è così calda, mentre scivola sulla sua. Il suo corpo è come addormentato, eppure questo è il momento che aspetta da tutta la vita. Si accorge troppo tardi di avere ancora gli occhi spalancati e di star contando le lentiggini di Midoriya, anche se sa benissimo che sono circa cinquantasette. D’estate sono di più, ma lui preferisce l’inverno, perché ha la pelle più chiara. Non sa come dovrebbe sentirsi e pensandoci, non fa caso a quanto il suo cuore batta forte. O almeno crede che lo abbia fatto. Come ho detto, stava pensando troppo per farci caso.                                         
“Shoto” è solo un sussurro, ma Todoroki non vuole, non vuole sentirlo e si sente esplodere, poggia le sue labbra ancora una volta su quelle di Midoriya. Forse più di una volta. Non vuole smettere.                                   
Continua e fa finta che corrisponda a quello che aveva sognato.

“Oggi mi sento carico, giuro che lo batto.”                                                                                                                                         
“O almeno non perderai al primo round.”                                                                                                                         
Una botta in testa, un bacio sul mento.                                                                                                                                               
“Pensavo che nel pacchetto relazione fosse compresa anche un po’ di gentilezza extra.”                                                    
“Non ricordo di averlo mai accennato.”                                                                                                                                   “Stronzo.”                                                                                                                                                                                                   
Un mezzo sorriso nascosto ad occhi che lo guardano attentamente. Sa che lo sta trattenendo.                                   
“Vai e fagli il culo, su.”                                                                                                                                                         
Midoriya gli lascia un ultimo bacio sulle labbra, per poi dirigersi sul ring dove Bakugou lo sta aspettando. I loro baci non hanno sorpreso nessuno, e Todoroki è l’ultimo che ne è stupito. È solamente il normale corso delle cose: i baci, le coccole, il prendersi in giro. Nulla è cambiato del loro rapporto, ci sono solo più nomignoli affettuosi e più contatto fisico. Sceglie di discuterne con se stesso mentre balla nella sua testa e fa finta che l’ultima frase pronunciata sia una frase normale. Non si sente cambiato: quello è solo il naturale corso degli eventi, non poteva andare altrimenti. Dopotutto, come lo stesso Midoriya gli ha confessato, negli ultimi anni ha passato la maggior parte del tempo a chiedersi se lui fosse fatto di vetro o ceramica.         Eppure, dice alla figura davanti a sé, che stavolta non è Anna, ma un Narciso dinoccolato con le gambe accavallate in una malizia che non gli appartiene ma che lui gli attribuisce, e lo ascolta attentamente, mentre parla. Parla e dice “Eppure”. Eppure non dovrei sentirmi così. Prima lo amavo di più. Ora ho qualcosa nel cuore, ma non saprei dargli un nome. Non credo sia amore. È paura. Paura e incertezza. E sì, certo, ora ha i baci, le mani intrecciate, quel contatto fisico che è poco perché sono all’inizio e nessuno dei due vi ha dimestichezza. Eppure. Eppure sono già un eppure, non più un forse, e il loro amore non è incredibile come quello di Bakugou e Kirishima, ma è scontato. Si chiede se essere diventati un eppure sia giusto, perché lui non lo sente loro, non è il loro avverbio.                                                                                                   
“Finalmente ce l’avete fatta, eh?” È la voce di Kirishima. È seduto vicino a lui, ed è costretto a chiedere venia a quel Narciso che più Narciso è Boccadoro e a rimandare la loro conversazione, per concentrarsi sul sorriso gentile che da sempre abita su quelle labbra che assomigliano alla pace. Eppure è la stessa pace che trasmettono lui e Bakugou, e Todoroki è certo che abbia acquisito quella pace dopo essersi messo con quell’incivile. Anche lui ha ottenuto la pace? Perché non riesce a sentirla?                                                               
“Già” mormora, osservando Midoriya sferrare un pugno a Bakugou, che viene schivato facilmente, con risata di scherno di contorno “ho paura.”                                                                                                                          
“Ti capisco” Kirishima non sembra stupito, né del fatto che gli abbia fatto una confessione né della confessione in sé, e Todoroki si chiede se non ci sia abituato, alla gente che va a chiedergli il perché dei macigni nei loro cuori “all’inizio è normale. Non sai se stai facendo la cosa giusta, se funzionerà: i dubbi sono normali. Ma vedrai che se è destino, andrà bene.”                                                                                                 
Il destino non lo convince. Ci sono cose che sono semplicemente quelle che sono, per quanto ci illudiamo che vadano bene. Midoriya non ha vinto contro Bakugou. Kaminari non riesce ancora a parlare con la tipa dello yoga, ma anche se lo facesse, dubita che andrebbe bene. Lui e Midoriya non possono parlare di molte cose l’uno con l’altro, il suo alito sa ancora di acciughe, Todoroki è fatto di carne e i loro baci non gli danno né pace, né brividi.

Midoriya non sa come ci si veste per questo tipo di eventi, perciò ha dato ascolto a chiunque fosse disponibile a dargli un consiglio: sua madre, suo zio All Might, Kirishima, la sua migliore amica Uraraka e persino Mineta, che passava di lì. Dopo proposte casual, altre eleganti, Uraraka che voleva fargli indossare un vestitino rosa e le idee oscene di Mineta incoraggiate dal dubbio senso dello stile di All Might, si è vestito come sempre. È la serata di Todoroki, non la sua.                                                                                          
Ha ancora paura di vederlo ballare, nonostante gli abbia assicurato che la sua danza è solo e unicamente per lui. Fatica a crederci: non crede di meritare una cosa tanto bella. Eppure, eppure Todoroki balla per lui. E lui sta usando quell’avverbio che il suo ragazzo – Dio, ama dirlo – tanto odia, ma che gli scivola sulle labbra come se fosse stato pensato apposta per loro due.                                                                                               
Non è pronto per quello.                                                                                                                                                          
Il palco è quello che ha visto tante volte riflesso negli occhi di Todoroki. Riesce a sentire sulle mani la morbidezza delle tende di velluto rosso che si aprono e rivelano la figura del suo ragazzo accovacciata, circondata da quelle che ai suoi occhi sono ombre, semplice contorno del corpo flessuoso che nella sua mente – non sa a chi si riferisca l’aggettivo possessivo – appartiene a un altro tempo.                                   
Parte la musica. È ritmica, veloce. Sa di sesso. O almeno così pare a lui, che non riesce a distogliere lo sguardo da Todoroki. Lo vede: ha lo stesso sguardo di quando si perde a guardare al di là del visibile. Vede nei suoi occhi i mille fogli spiegazzati nella sua stanza, i mille libri che ha letto e che vuole leggere e quei mille discorsi che lui non sarà mai in grado di comprendere. Ci vede una storia, nei movimenti che compie mentre è sul pianeta che gli piace tanto, quello che ha creato la prima volta che ha formulato una frase e ha adorato farlo*: probabilmente è la trama dello spettacolo, la storia del protagonista che Todoroki interpreta, ma Midoriya non riesce a ricordare. Sente il suono vibrante dei violini, e vede Todoroki intanto che ci fa l’amore, che la musica si fa meno incalzante e lui lascia che l’accompagni in una serie di pirouette per il palco, disperate e lente e veloci e quella calzamaglia nera sembra superficiale, perché Todoroki sta dando tutto se stesso, mentre compie una serie di passi e salti meravigliosi, solo in mezzo al palco vuoto – “la scenografia l’ho scelta io, voglio qualcosa di minimalista” – e Midoriya ci vede tutto Todoroki in quel balletto, non sa se perché ci siano i violini ad accompagnarlo, o se perché quella musica sia stranamente ripetitiva ed apatica, eppure lo stringe. Ha caldo. Vorrebbe abbracciarlo, mentre alza una gamba e se l’afferra con una delle braccia che tiene sollevate sopra la testa. Salta, librandosi per un secondo in aria e agitando le gambe, elegante come un gatto. Cade a terra, e prega il cielo che gli dia la forza di rialzarsi, le mani giunte e gli occhi lucidi. Lo fa, e ricomincia a girare, a danzare, e Midoriya non capisce più nulla.                                                                                 
Le tende si chiudono, lo spettacolo non è finito, ma lui sta piangendo. Dovrebbe correre da Todoroki, ma non ce la fa. Non può davvero.                                                                                                                                                                     
Scappa di nuovo.

“Ci piacerebbe davvero che tu accettassi questa borsa di studio, Todoroki. Il tuo talento non è da sottovalutare e nella nostra accademia potresti svilupparlo al meglio. Inoltre saresti in una delle migliori vetrine del mondo della danza classica. Diventeresti famoso in un baleno.”                                                                                
Il viola non è proprio un bel colore. Lo ha deciso all’improvviso. Se il giallo è il colore dei bugiardi, perché il viola non dovrebbe essere quello dell’oblio? Perché il nero? Il nero sa di pace, anche se non è sicuro di sapere cosa significhi, esattamente. Vorrebbe attenersi alle convenzioni. Crede sinceramente che le convenzioni possano salvare il mondo. Ci sono molte persone che vivono consapevoli della loro ignoranza, delle routine e delle convenzioni secondo le quali credono di vivere la vita giusta per loro.                                 
Non esiste una vista giusta. Ognuno di noi ha la propria. Ognuno di noi è arte, e dovrebbe manifestarla. Non reprimerla. Perché la sua arte spaventa Midoriya? Perché è scappato un’altra volta?                                                       
“Certo, capisco il disagio del trasferimento e del vivere lontano da casa. Immagino che sarà difficile per lei all’inizio, ma le posso assicurare che offriamo il migliore degli ambienti e che sarà accolto con calore.”                    
Questo non la smette di parlare. Ha i capelli brizzolati, probabilmente ha passato la quarantina. Sta stretto in un completo gessato che profuma di magnolie, e le magnolie sono viola. Almeno crede, ha solo quel colore in mente. Nonostante quello che crede sia il loro colore, hanno un buon profumo. Sanno del gesso delle punte da ballo. Sa di sudore e di calzamaglie consunte, di passi nuovi e di palestre piene di specchi. Come quelle che si vedono nei film. Ha sempre voluto ballare in una di quelle. Adora il parquet. La sua vecchia palestra è rivestita di un materiale di cui non conosce il nome ma che conosce come conosce Midoriya, eppure Midoriya è diventato un eppure. Ha lasciato che Midoriya fosse la causa della sua perdita d’equilibrio ancor prima di chiedersi se ne avesse davvero bisogno. Ha lasciato che diventasse un eppure ancor prima di chiederlo ai mille personaggi che abitano la sua mente. Ha lasciato che fosse troppo ancor prima di rendersi conto che forse, forse la sua arte non era fatta per un’altra persona.                                        
“Se solo potessi parlare con un tuo parente e tu potessi considerare l’idea anche con un adulto a te familiare, sono sicuro che arriveremmo a un accordo soddisfacente.”                                                                      
Probabilmente ha dei figli. È sposato. Ha la fede, ma è arrugginita. La amerà davvero, sua moglie? Chissà quanti figli avrà. Perché una persona dovrebbe volersi sposare? Perché dividere tutta la propria vita con una persona, quando si ha l’arte? Non lo dicevano i filosofi che è l’arte, l’arte colei che detiene il perché? Vuole chiederlo ad Anna, il perché del bisogno dell’amore che l’ha spinto sul burrone. A Narciso. Ad Hans, che soffre per Maria. Al mittente senza nome che scrive di ombre. A William, che ancora cerca Giulia.              
“Va bene.”                                                                                                                                                                              
“Davvero?” Sorride, sembra soddisfatto.                                                                                                                          
“Sì. Mi dica dove devo firmare.”

Sembra la scena di un film di guerra. O di Harry Potter. Non sa quale preferirebbe che fosse, ma comunque non gli piace: non ci sono nemmeno i loro petali di ciliegio. Sono ancora i loro, anche se la sera prima ha fatto Midoriya e gli ha detto che lo ama. Lui non gli ha creduto. Gli ha chiesto perché scappa davanti alla sua arte. Lui non gli ha risposto. Midoriya lo ha baciato. Non hanno fatto l’amore. Non ne sarebbero capaci. Ha una valigia, una sola. Suo padre gli ha mandato un messaggio di congratulazioni stirato, sua madre lo ha abbracciato stretto, quando è andato a trovarla in ospedale. L’unico che sia venuto a salutarlo è Midoriya, ma lui è al margine della banchina e l’altro appoggiato al muro. Non si parlano. Non si guardano neppure. Se c’è una cosa che odia, è l’imbarazzo. Lo odia quando si potrebbe tagliare con un coltello, e odia anche l’espressione che ha usato, costretto dal fatto che non riesca a formularne altre che non siano questa.              
“Hai sempre scelto lei.”                                                                                                                                                       
“Gli artisti fanno così.”                                                                                                                                                        
“Non venirmi a parlare di arte, ti prego. Tu hai scelto la tua testa.”                                                                              
 “È probabile che io l’abbia fatto, sì.”                                                                                                                                            
Midoriya lo guarda. Lo sta odiando. Lo odia, probabilmente.                                                                                                 
Da copione, dovrebbe esserci un bacio appassionato d’addio. Quasi se l’aspetta. Quasi lo vorrebbe.            
Quando Midoriya si avvicina, c’è solo la forza di abitudine sul suo volto. Lo bacia, e le sue labbra sono davvero morbide. Lo abbraccia. È l’abbraccio più caldo della sua vita.                                                                        
“Se non mi chiami tutti i giorni, giuro che vengo fino a Tokyo e ti picchio.” Sta ridendo. Le sue lentiggini sembrano sorridere con lui. Todoroki sa che è tutto apposto. I fiori di ciliegio non sono più loro, ma è tutto apposto. Come nei romanzi. Quelli con un finale di quel tipo, quello che odia.                                                          
Gli sorride, lo bacia sul naso. Vorrebbe portarsi via un po’ delle sue lentiggini. Vorrebbe che gli tenessero caldo la notte, assicurandogli che il fumo che circonda il treno è fatto di zucchero filato, e che Midoriya abbia aspettato che il treno partisse, per andarsene. Sa che non l’ha fatto: non l’ha fatto nemmeno lui.        
Sospira: deve rassegnarsi. Era solo l’ennesimo personaggio di un libro.
 

*Frase di A Modern Myth, di VenerediRimmel, probabilmente una delle migliori storia che io abbia mai letto su questo sito. Mi è rimasta in testa, questa frase. Mi scuso in anticipo per averla usata.

Prima di tutto mi scuso per eventuali errori. L’ho riletta a pezzi, ho davvero sonno. Spero che vi sia piaciuta, ma non ricordo esattamente di cosa parla. Volevo solo dire che Todoroki balla su due canzoni di Ashram, Fragile ed Elizabeth. Non proprio in quest’ordine, non proprio queste, ma mi hanno ispirata. E che faccio riferimento ad Anna Karenina di Tolstoj, Narciso e Boccadoro di Hesse, La boutique del mistero di Buzzati, 1984 di Orwell e Opinioni di un clown di Boll. Leggeteli tutti.                                                                    
 
  
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