3.
Per Fenna
de Kasde Probas quello era un giorno
triste. Era iniziato male dalla mattina, quando aveva constatato di
aver creato
l’ennesima pozione fallimentare e si era accidentalmente
ferita un piede con
una scheggia di vetro. Ora il graffio iniziava a farle di nuovo male a
causa della
calzatura troppo stretta che indossava. Inoltre, la ghiaia del cortile
del
Sacro Memoralium
non le
era per nulla d’aiuto.
Dopo colazione i consiglieri
le avevano rammentato del funerale, anche non ce n’era
bisogno, d’altronde come
poteva dimenticarlo. Quel giorno avrebbe dovuto dire addio per sempre a
suo
fratello, prossimo erede secondo la linea di successione della famiglia
reale.
Più riesaminava le
circostanze in cui era avvenuta la sua morte, più il fatto
le sembrava
surreale. Stava rientrando da una visita politica all’estero;
era a circa cento
chilometri da Seresix
quando, durante l’ultima sosta,
un pazzo gli aveva sparato uccidendolo.
I pensieri di Fenna rimbalzarono
da cosa all’altra, da un ricordo all’altro senza un
nesso logico. Ad un certo
punto pensò a di avere ancora diciott’anni, mentre
in realtà ne aveva venti,
compiuti proprio il mese scorso. Non si rendeva conto di essere sulla
soglia di
una crisi, tanto più che dall’esterno
dava l’idea di
essere sempre la stessa; erano
solo certi suoi pensieri a essere anomali.
Con una mano si aggiustò
una
spallina dell’abito che era scesa un po’ troppo. A
corte esisteva un
consigliere per ogni cosa. Ce n’era uno che consigliava
persino che cosa
indossare per uscire dal castello. A lei, per la triste occasione, era
stato suggerito un abito in tessuto riflettente argentato. Era un
modello
scollato
con le spalline cadenti, più stretto in vita e con una gonna
molto ampia e
lunga fino a terra. Lo aveva trovato un modello molto bello, ma troppo
provocatorio per
essere indossato a quell’evento. «Sembra che io
stia andando a un ballo», aveva
detto. E il consigliere aveva ribadito: «La stoffa retivish è indicata per i
lutti. Andrà benissimo, non
vi preoccupate principessa. E poi si abbina perfettamente ai vostri
capelli
d’argento».
Fino al momento prima di
rivedere il fratello, Fenna
non aveva ancora preso
coscienza della realtà dei fatti. Nella sua mente lui era
ancora vivo. Quando
si era trovata di fronte a quella figura immobile, in una bara ornata
internamente di un tessuto color crema, per lo shock aveva stentato a
riconoscerne i lineamenti famigliari. Il suo volto
pallido, le labbra esangui, le mani bianche intrecciate sul petto: nel complesso
sembrava un
manichino coperto da un trucco di scena ideato per uno scherzo macabro.
La
ferita del proiettile che lo aveva colpito al cuore era nascosta
dall’abito
regale. Fenna
arrivò alla conclusione che quella
fosse una riproduzione abbastanza fedele di suo fratello, ma non
perfetta. Sì,
sicuramente quello era un fantoccio travestito e il vero erede al trono
era a
godersi la vita da qualche altra parte. Aveva lasciato a lei tutti gli
oneri di
corte solo perché, preso da un moto di ribellione, aveva
deciso che ne aveva
abbastanza degli impegni reali e avrebbe cercato la pace e
l’anonimato in
qualche paradiso remoto. Quasi le venne da ridere immaginandosi la
scena, ma
riuscì a trattenersi evitando una pessima figura.
Un attimo dopo,
concentrandosi sul fatto che comunque non lo avrebbe più
rivisto, si commosse.
Mentre la bara veniva deposta nella cripta del santuario e sigillata,
osservò
la regina piangere disperatamente sorretta da suo padre, il re,
anch’egli
alquanto scosso. Mentre i sovrani erano sconfortati perché
lo
credevano veramente
morto, Fenna si
ritrovò a singhiozzare perché sapeva che
le sarebbe stato impossibile raggiungerlo, ovunque fosse il posto in
cui aveva
deciso di stabilirsi. Pensò che tutti recitassero molto bene
la loro parte e
improvvisamente si sentì fuori luogo. Si asciugò
subito gli occhi e rivolse lo
sguardo altrove; la folla, al di fuori del Sacro
Memoralium,
era immensa e raccolta in un
rispettoso silenzio. Ma la calma era destinata a finire presto.
Al termine della cerimonia
di addio, prima di uscire dal cancello, un soldato in armatura
affiancò la principessa
obbedendo a un cenno del re.
«Non capisco»,
disse Fenna,
«che cosa potrà mai succedermi?»
Il soldato non rispose. Era
sicuramente uno di quei nuovi rharmé[2],
robot-soldati da difesa privi di un vocabolario mentale e di un sistema
vocale
per rispondere. Fu Thesel,
uno dei consiglieri
più fidati della giovane, a chiarire il dubbio.
«Vostro
fratello era molto amato dal
popolo. La notizia che abbia subìto un attentato, proprio
mentre veniva a
rendere omaggio al vostro fidanzamento ufficiale, potrebbe provocare
reazioni
impreviste.»
Già, il fidanzamento
ufficiale: una tappa obbligatoria che l’avrebbe condotta al
matrimonio il mese
prossimo.
Fenna non disse nulla, ma dentro di
sé pensò che il destino
le stesse giocando un'enorme beffa. Nemmeno lo voleva un fidanzato:
al
compimento del suo diciottesimo anno aveva firmato qualche carta e,
inconsapevolmente, aveva anche accettato come futuro marito un tale,
figlio di
importati imprenditori che intrattenevano affari con colonie
extrasolari. I
suoi genitori l’avevano ingannata evitando di specificare
tutte le clausole e
questo la faceva stare ancora peggio.
Nota:
2- Rharmé è una
parola inventata da me per indicare dei robot-soldati. Il neologismo
è nato
dalla fusione di “R” (che nei racconti di Isaac
Asimov sta per “robot”) e
“armata” francesizzato.
"La principessa e il sensitivo"
Tutti i diritti sono riservati © Monique Namie