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Autore: Andrew Foulieur    12/01/2017    0 recensioni
Dopo gli eventi di Atlas, Foulieur si ritrova a indagare su una serie di casi misteriosi che sembrano ricondurre a una sua vecchia conoscenza. Riuscirà a scendere ancora più in profondità nel torbido dell'animo umano e uscirne sano di mente, risolvendo anche i suoi problemi?
Genere: Azione, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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«Il pensiero della morte ci inganna, perché ci fa dimenticare di vivere!» – Luc De Vauvenargues.

 

– Le Ali della Libertà –

 

Potrei abituarmi a stare con lei: dopo tutto, mi ha fatto sopportare quello che mi è capitato. Grazie a lei, imparai a vedere più in là della piccolezza umana: e il nostro egoismo è inutile, proprio perché non siamo nulla di fronte all’universo.

Eppure sprechiamo la nostra intera esistenza, cercando di renderci importanti per qualcuno, o agli occhi di tutti gli altri, per apparire migliori di loro. Tutto inutile. Alla fine, di fronte alla morte, siamo e saremo sempre tutti uguali. Non siamo altro che una effimera routine, agli occhi della morte stessa.

A diciotto anni, non si dovrebbe pensare come sarebbe lasciare questa vita: si dovrebbe solo viverla, la vita: ma una sfavorevole sequenza di situazioni, mi ha portato a saperne molto di più dei miei coetanei.

 

Tutti pensiamo, prima o poi, alla nostra morte. Arriva sempre quell’istante in cui ci balena nella mente il tarlo dell’incertezza umana: e se fosse oggi il mio ultimo giorno? Tutti ad una certa età lo pensiamo. Tutti, nessuno escluso. Anche se io mi trovavo a dover fare i conti, con questo pensiero. Molto prima di quanto avessi previsto.

 

Eccomi qua. Mi descriverei come il classico sfigatello dei fumetti, quello che cerca di esistere e mostrarsi, ma senza mai veramente apparire nelle vignette. Avete presente quei tizi inutili, disegnati velocemente e incollati sullo sfondo delle vignette? Si, proprio quelli che fanno da contorno alle gesta del vero eroe e posizionati soltanto perché devono esserci, perché devono fare numero, folla, apparenza: ecco, io sono uno di quelli sullo sfondo. Non sono io il protagonista con un metaforico megafono, a cui tutti danno attenzione e gloria… in attesa della sua prossima avventura. Credo che se fossi un fumetto, non mi leggerei. O sorvolerei sulle mie origini, tenendole per ultime.

Certi segreti si sa, a volte rendono meglio, se mai confidati.

Eppure, il pensiero della morte non mi aveva mai davvero spaventato. Neanche quando, la sua sinistra figura, iniziò ad aleggiarmi intorno, e ormai sapevo che per me, era finita.

 

L’ottimismo, mi era del tutto inutile.

Ma quel che detestavo di più erano medici e preti, che ciclicamente entravano nella mia stanza per consolarmi. Magra consolazione, quella di raccontarmi favolette smielate, finali tristi, illustrandomi con paroloni quanto fosse bella ed effimera la vita, quanto fosse preziosa e difficile da preservare. Parlavano solo loro. Linguaggio aulico, corpo rilassato. Non avevano nemmeno una ruga. Non un fattore di stress. Anche le infermiere, tutte perfette. Nemmeno un capello fuori posto. Il tutto, mi sembrava fin troppo irreale, per essere un ospedale. Ero fin troppo tranquillo, per quello che avevo e chiunque, dell’ospedale, con cui cercavo d’avere un dialogo sull’argomento, mi dicevano che era tutto normale e che andava tutto bene. Erano proprio dei politici, nell’assicurarti che loro erano lì per te e al tuo servizio, ma eri tu che li pagavi per fargli tentare di mantenerti in vita. Loro, alla fine del sermone medico o biblico, prendevano il largo da te, con la coscienza pulita e il corpo rilassato. La beatitudine dal senso di colpa: beato chi ha rimorsi, perché tanto la colpa non sarà mai la sua. Alla fine, dopo il sermone medico o biblico, se ne andavano, con l’animo leggero e la mente serena perché tanto non toccava a loro restare nel letto e rischiare di morire da un momento all’altro. In un certo senso, ero io il loro confessore, a cui potevano scaricare la loro falsa speranza e ipocrisia benevola. Tanto, ero io quello che aspettava la morte senza poter fare nulla anzi peggio, sapendo di non poter fare nulla.

 

Tutto iniziò dieci anni fa.

Avevo solo otto anni, dunque.

Mi stavo esercitando nel tuffo dell’angelo, una delle mosse finali del celebre Harley Race, wrestler che ammiravo in modo quasi maniacale. Comunque, tentai la famosa mossa, lanciandomi dal letto a soppalco della mia camera. Erano quasi due metri. D’altezza. Ma non mi venne in mente che ci sarebbero voluti due materassi: il peso, o la gravità, che avrei esercitato, nel mio schiantarmi a terra, la morbidezza del materasso non avrebbe, per nulla, retto. Infatti urtai violentemente. Con: testa, naso e fronte. Contro il pavimento. Per qualche secondo, non sentii nulla, se non un soffocato ronzio nelle orecchie. Poi, nulla, e persi conoscenza.

 

Mi ritrovarono i miei qualche minuto più tardi mi dissero, ancora incosciente, con un rivolo di sangue dal naso, nulla più. Che fortuna, penserete.

Già. Proprio fortuna.

Mi trasportarono d’urgenza in ospedale. I medici iniziarono a girarmi intorno, tastando, infilzando, punzecchiando, fasciando. Disinfettando. Intubando.

Quest’ultima operazione, mi divenne dolorosamente nuova. Guardando i volti preoccupati dei medici, sospettai qualcosa ed instintivamente gridai. Il mio grido, di dolore, riecheggiò nella sala. Fu soltanto allora, che mi misero qualcosa sul volto, e il sonno sopraggiunse. Mi operarono.

Quando mi ripresi, abbastanza da riuscire a pensare di nuovo, con la mia testa, mi risultò naturale, e quasi liberatorio, pensare che non sarei dovuto morire, per il mio gesto sconsiderato. Un salto da un letto a castello: sapevo di persone che se ne erano andate all’altro mondo per azioni molto meno pericolose. Eppure, il pensiero di ritentare la bravata non mi sembrava tanto strano o spaventoso. Capitemi, avevo soltanto dieci anni e i giochi pericolosi sono tutto per un bambino a quell’età.

L’esperienza mi lasciò una cicatrice perenne sul naso, e fortunatamente null’altro di rotto. Il peggio non fu l’operazione, o il terribile prurito dei punti o il rincoglionimento per l’anestesia: fu il maledetto dopo. Le facce dei miei genitori, preoccupati. Gli sorrisi, dicendo loro che volevo volare. Sapevano che avevo rischiato grosso. Non ci feci subito caso, al dottore che chiamò fuori, dalla stanza operatoria, i miei. Vidi la preoccupazione, sul suo volto. Non ero certo del motivo, ma l’era anche evidente. Il suo volto era truce. Non sapevo, per quale motivo. Fu quando iniziò a parlargli animatamente con una faccia dispiaciuta, che iniziai seriamente a preoccuparmi. Non riuscii a vedere le reazioni dei miei. Tanti pensieri incominciarono a fiorire, nella mia mente, ma tutti vennero spazzati via da sole e poche parole.

 

«Sistema circolatorio debole, vene fragili, deformazione cardiaca, un caso su un milione» – Questo solo capii, dal medico.

 

Sgranai gli occhi, appena sentii quelle parole. Mi si gelò letteralmente il sangue nelle vene. Lo stesso sangue, che mi stava portando alla morte. Voltai la testa e guardai avanti a me, fissando un punto inesistente sul muro, non appena il dottore aprì la porta, e si voltò per lanciarmi una strana occhiata, e con lui i miei. Solo allora tornai a guardarli. Mi guardavano, ma non sembravano nemmeno riconoscermi. Era come se mi vedessero per la prima volta. Ero improvvisamente diventato uno sconosciuto, con cui non sai come comportarti, un qualcuno da compatire e un peso con cui convivere fino alla fine.

Restai qualche giorno in osservazione in ospedale, nello stesso letto, con i miei che si alternavano per il lavoro e per passare la notte con me. E in quei giorni, mi spiegarono il mio piccolo problema. L’avevo capito perfettamente, già dalla prima volta in cui tentarono di spiegarmelo, ma l’uso dei termini medici fu quasi rassicurante: tanto che un brufolo, portà sembrare un capolavoro di genetica malsana. Avevano trovato i sintomi della mia nuova compagna di vita: una malattia rara che colpiva un bambino su un milione. Il fortunato estratto sulla ruota dell’oscura sfiga: ero proprio io. Primo premio in palio: incontro con La Morte, quella vera. La cosa più rassicurante, che il medico riuscì a dirmi, fu che avrei dovuto migliorare, per forza, sia la mia alimentazione e sia la frequenza dell’attività fisica… per non morire prima del tempo: anche se avrei sforzato di più il fisico e mi sarei sentito peggio. Cinquanta e cinquanta. Vivo o morto.

Iniziarono le paternali mediche.

 

«Non sforzarti mai troppo, bevi molto, evita affaticamenti e sport. Cammina per brevi tratti, ma non correre. Non agitarti, mangia regolare e senza sale. Mi raccomando» – Mi raccomandò il dottore.

 

Mentre lui mi elencava tutte le cose che non avrei più potuto fare, io fissavo il suo volto, giovane e rassicurante e con un gran paio di baffi alla Danny Treyo; la sua voce stridula, ma pacata, e occhi color nocciola: penetranti e curiosi. Lui sapeva qualcos’altro, su di me, ma non volle dirmelo. Lo sentivo, forse sarà il tono di voce troppo familiare. Cercava di convincermi, che andasse tutto bene. E mi mise la flebo, ma pensava visibilmente ad altro: forse voleva tentare una nuova strada e non voleva dirmi quale? Il suo sguardo era assorto in altro, fino a che il liquido all’interno della boccetta, posta al posto della solita soluzione salina per i malati, entrò nel mio sangue, infatti riprese a farmi le solite domande che si fanno per conoscere un paziente, e a cui io risposi senza fare troppe domande. Il suo sguardo sembrava suggerirmi che stava combinando qualcosa di strano, ma non riuscivo a capire cosa: oltre al fatto, che i suoi occhi suggerivano una strana bramosia, nei miei confronti.

Solo adesso, riuscirei a spiegarlo.

 

Un minuto dopo, mi rilassai in un sonno profondo. Ed ero sicuro, che non avrei dimenticato, mai più, il dottor Treyo.

 

Passando ai miei genitori, la loro reazione fu molto strana. Se da una parte, sembravano accettare la mia situazione, cullandomi con dosi eccessive di gentilezze e affetto, dall’altra, divennero quasi dittatoriali su quello che avrei potuto e non potuto fare. Sopratutto quello. Mi fecero rinunciare ai programmi violenti in televisione, in primis il canale dedicato al wrestling. Non avevano, certamente dimenticato il gesto di emulazione che aveva dato inizio a tutto: ne sono sicuro, perché in cuor loro detestavano quel programma, perché con la mia azione sconsiderata li avevo messi davanti a un problema che, altrimenti, non avremmo mai potuto scoprire; un conto è morire e scoprire poi di essere malati, un conto è vivere e scoprire di poter morire essendo malati. Si dedicarono anche, in modo maniacale alla religione. Non ne ho mai conosciuto il motivo, ma credo che il bisogno di redimersi fosse uno dei propositi o, al massimo, cercavano il perdono divino per quel figlio, che li aveva maledetti, con una malattia congenita e mortale.

Questo pensavo all’inizio, malignamente.

Negli anni a venire però, venni a sapere che frequentavano la chiesa, soltanto perché in questo modo nessuno gli avrebbe chiesto di me. Nei luoghi di culto tutti sanno, grazie ai pettegolezzi, ma almeno si riservano l’accortezza di non chiedere e non fare domande: spettegolano, ma almeno ti lasciano pregare in pace; quindi, potrei supporre, che la loro ritrovata fede fosse solo una maschera, per cercare d’avere qualche momento di distacco dallo stress: creato dai dottori e da quelli che volevano compatirci. E da me… ovviamente, recluso in casa solo con il mio computer.

Uscii, dopo due settimane di degenza dall’ospedale.

La prima volta.

 

Ovviamente quello che pensavano i miei non lo avrei mai potuto sapere, quindi mi affidavo a dicerie e a varie supposizioni. Pensieri da figlio quasi morto che cammina. Se qualcuno di voi volesse darmi qualche chiarimento al riguardo, non si crei scrupoli. Anche una confidenza sulla tomba sarebbe gradita. Tanto, da lì non mi sarei mai mica mosso. Anche se si mostravano premurosi e attenti ai miei bisogni, il loro affetto nei miei confronti non si tradusse mai in un rapporto più saldo, anzi divenne solo un insieme di cose non dette e sentimenti mai confidati: solo per non ferire la mia sensibilità; questo fu uno dei dogmi suggeriti ai mieni genitori, per non farmi sforzare il cuore. Ma il vivere in apatia, non è certo vivere.

 

Nonostante il pessimismo dei medici, che mi davano per morto in pochi mesi, arrivai ad avere quattordici anni. Non davo importanza alla voce di un medico. Allo stesso tempo, non avevo mai confidato a nessuno di avere qualche aspirazione, qualche volontà da compiere da grande: mi sentivo essere senza futuro, demoralizzato e spaesato. Non riuscivo neanche a pensarmi, piu grande e facente, anche la più piccola cosa, perché vedevo tutto nero e smettevo di pensarci.

Vi voglio raccontare un aneddoto.

Era una tarda sera di maggio, lo ricordo bene. Quella volta tornai molto più tardi a casa, dopo una delle mie rarissime e controllate uscite serali. Stavo tentando di conoscere alcuni dei miei compagni di classe ad anno inoltrato: il vedersi, solamente a scuola, non aiutava di certo a farsi delle amicizie. Ma di loro non mi interessava chissà cosa: quello che mi colpivano, particolarmente, erano le ragazze.

Non fraintendetemi.

Le trovavo birrazze, affascinanti, misteriose. Erano un enigma, a cui loro stesse non conoscevano la soluzione. Stare vicino ad una di loro, mi faceva sentire vivo. Forse, quella fu la mia prima vera reazione all’amore. Per contro, quel sentimento nuovo, mi prosciugava di ogni altra emozione. Non saprei come spiegarlo, ma ormai non avrebbe più senso spiegarlo.

Passarono sei lunghi anni, da quel fatidico incidente. La cicatrice sul naso mi prudeva ancora ogni tanto, giusto per farsi ricordare. I miei, intanto, non si parlavano quasi più, ma davanti a me fingevano di essere la solita coppia di genitori falsamente felici. Lo riconosco tutt’ora, che lo fecero, per non destabilizzare la mia salute. Così, per non pensare che non fossi la causa della loro possibile separazione, iniziai di nuovo a volare.

Con la fantasia, però.

Distinguevo bene la realtà dall’immaginazione: per uno che non può che passare, metà del suo tempo in un letto, e l’altra tra i libri, l’unica consolazione è quella di volare via in altri luoghi e in altri mondi. In questi sei anni di sopravvivenza, non cercai mai di farmi delle amicizie importanti, proprio perché sapevo che prima o poi avrei lasciato tutti, improvvisamente. Quindi, volevo ferire meno persone possibili.

Malgrado i pessimistici pronostici dei medici, riuscii ad arrivare ai favolosi anni delle superiori, il periodo più strano della vita di ogni giovane: è l’età in cui anche gli idioti credono di poter conquistare il mondo; io, invece, avevo già la più ferrea intenzione di passare in sordina e di fare meno rumore possibile. Per i momenti in cui andavo a scuola, i miei mi accompagnavano all’andata e al ritorno. Giusto qualche parola di circostanza, e poi ritornavo nell’isolamento più totale. Socializzazione al minimo. Così, per le superiori, decisi di iniziare come tutti: da solo. Non volevo essere il tizio solitario, di cui si vocifera nei corridoi e che tutti guardano come un lebbroso. Volevo, almeno per un giorno, essere come tutti gli altri e comportarmi come loro.

 

Il primo giorno, mi sentivo stranamente euforico. La possibilità di conoscere facce nuove, mi dava una sensazione di positività che mai avrei pensato. Non contavo di arrivare vivo fino alla fine delle superiori, ma almeno avrei voluto sperimentarle. Capite, mi trovavo con il bizzarro dilemma di dover conoscere qualcuno, ma non volevo conoscere nessuno… io: se mi fossi davvero legato a qualcuno o se mi avessero allontanato, una volta scoperto la mia malattia, avrei comunque guadagnato un’esperienza in più; dopotutto, se non ti affezioni a nessuno, resti solo tu. E non puoi abbandonare te stesso.

 

Quattordici anni. Primo giorno delle scuole superiori. Per l’occasione, scelsi un comodo jeans, scarpe da ginnastica e una felpa con su scritto I’m a Positive Guy. E sorpra, il mio immancabile bomber nero, comprato in un mercatino qualche mese prima: il mio capo di abbigliamento portafortuna. Nonostante le insistenze dei miei, ero deciso più che mai a non farmi accompagnare a scuola in auto: Si trattava di un passaggio importante… della mia vita, lo sentivo, e nel bene e nel male che fosse andata, volevo vedermela da solo.

 

Fuori pioveva a dirotto: nonostante ciò, presi zaino, ombrello e mi incamminai verso la stazione ferroviaria. Non attesi molto l’arrivo del treno: con un fischio assordante, si fermò e fece salire un fuime di ragazzi assonnati e di pendolari apatici. Trovai posto vicino ad un finestrino, ed iniziai a guardare il paesaggio fuori e riflettevo su quanto fosse monotona e grigia l’esistenza. Il tutto m’era indifferente, senza spessore. Pioveva, così rendendo pieno di goccie d’acqua il finestrino del treno. Quasi me lo scordavo: il biglietto l’avevo preso e compilato. Infatti passò il controllore, ma non sapendo chi fosse, rimasi, per un solo attimo, interdetto, dal mostrargli il biglietto, ma poi glielo mostrai, solo perché lo fecero tutti gli altri vicino a me.

La scuola intanto, iniziava a palesarsi dal finestrino.

 

Arrivai in largo anticipo davanti l’enorme cancello della scuola. Notai che tanti, tantissimi ragazzi come me, che parlavano tra loro, ridevano, scherzavano. Io come da abitudine, m’ero isolato. Qui, nessuno mi conosceva. Non ancora. Fu allora che vidi il bar. Era di fronte la scuola. Credo capiti a tutti prima o poi, di entrare in un bar da soli. Da piccoli, questi bizzarri negozi ci appaiono come colorati distributori di gelati, bibite e caramelle, ma crescendo vi si scoprono molti altri prodotti: birre, cappuccino e cornetto. E a giudicare dal brontolio improvviso del mio stomaco, l’ultima opzione faceva al caso mio. La camminata mattutina e la tensione mi avevano fatto bruciare calorie prima del previsto, così decisi di farmi coraggio ed entrare nel bar.

Era il mio primo bar.

Dalla lunga fila alla cassa, compresi che tanti altri avevano avuto la mia stessa idea. Infatti, vedevo soltanto ragazzi, e qualche sporadico adulto, che si prestava a recarsi verso il bancone, sorseggiando un caffè caldo. Rabbrividii, al solo pensiero che, dopo la colazione, sarei dovuto uscire di nuovo fuori e non sarei potuto rimanere, per sempre, nel bar.

Misi la mano in tasca, contando mentalmente le monete che mi ero portato dietro: mio padre m’insegnò che bisognava, specialmente in pubblico, avere la prudenza nel maneggiare i soldi… di qualsiasi cifra si trattasse. Infatti, contai i soldi mentalmente. Uno e due, dollari. Perfetti per la colazione.

Attesi che la piccola folla aprisse uno spiraglio e mi infilai, avvicinandomi alla cassa. Il commesso, un uomo sorridente con una barbetta inspida, mi guardò con aria interrogativa.

 

«Cosa desidera?» – Mi chiese.

«Un caffè e un cornetto al cioccolato grazie» – Dissi.

«Al banco, buona giornata!» – Rispose, indicando un altro bancone alle mie spalle.

 

L’uomo alla cassa mi porse lo scontrino, sempre sorridendo. Ricambiai il sorriso e presi il resto, mentre mi diressi verso il bancone. Mentre una ragazza pienotta e dall’aria simpatica, mi porgeva il cornetto e il cappuccino, mi sentii osservato. Avevo una specie di sesto senso per queste cose. Quelli come me, abituati a passare in sordina, certe cose le sentono. Senza un effettivo perché. Chiamatelo come volete: sesto senso, prudenza, paranoia, roba paranormale o cervello strambo. Mi voltai, guardandomi intorno. Ma come al solito, nessuno mi degnava di un solo sguardo. Finii il cornetto in due bocconi e uscii dal bar. Oltre il freddo, lì pioveva. Dal bar, mi sarebbe bastato attraversare la strada, per raggiungere di nuovo la scuola. Ma sfortunatamente, l’ombrello non aveva svolto il suo dovere: ero fradicio.

Cercai un ultimo riparo sotto la pensilina d’ingresso della scuola. Notai che alcuni ragazzi si erano fatti scortare dai genitori fin dentro il muro di cinta della scuola: vedevo le loro facce, capivo perfettamente il loro stato d’animo. La paura della nuova scuola aveva lasciato il posto all’imbarazzo e alla paura. Avevano capito che con questa entrata con parenti al seguito li aveva marchiati per sempre come mammoni. Prede facili per i bulletti, che già li osservavano divertiti.

 

Era il primo giorno e già volevo scappare. Non ero il tipo che amava le folle. Tutta quella gente accalcata mi infastidiva: avevano anni ed anni di possibilità, e avrebbero sicuramente sprecato, ogni singolo secondo, del loro inutile tempo, in sciocchezze e stronzate infantili, cattiverie, problemi insulsi e scaramucce giovanili. Chi ha il pane, non ha i denti si dice.

 

«I ragazzi del primo anno dovranno aspettare dieci minuti, per permettere a tutti gli altri d’entrare senza creare calche.» – Avvisò l’uomo all’ingresso.

 

Non badai a lui e mi guardai in giro, alla ricerca di qualche volto conosciuto. Fu allora, che mi passò davanti una ragazza, talmente bella, da sembrare un fatale miraggio. Ebbi pochi secondi per ammirarla, prima che sparisse dalla mia vista. Capelli rosso fuoco, occhi verdi, altina. Né troppo magra, né troppo in carne: il giusto.

Al diavolo la chiamata delle matricole.

Entrai: volevo conoscerla, anche se c’era la possibilità di ricevere un ceffone, per il mio ardire. La cercai e la intravidi mentre si dirigeva in un corridoio. La persi di nuovo di vista. La testa mi faceva male e sentivo il cervello in panne: mi dava dei segnali di pericolo, ma decisi d’ignorarli. Mi sarei dovuto comportare come qualsiasi altro adolescente stronzetto: fregarmene e buttarmi. Mi lanciai al suo inseguimento.

 

Perso nei miei pensieri e nella foga della ricerca, urtai contro qualcosa. Alzai la testa. Un’altra ragazza continuava a fissarmi: mostrava segni d’impazienza. Mi scusai, molto frettolosamente, allontanandomi anche da lei: mi resi conto d’aver perso di vista la ragazza dai capelli rosso fuoco. Si vedeva, da lontano un miglio, che ero sovrappensiero. Una ventina di passi e mi ritrovai di fronte al bagno. Mi diedi un’occhiata ai vestiti: umidi e freddi, a causa della pioggia. Una asciugata non mi avrebbe fatto male, ed avrei potuto avere qualche chance in più con la rossa, se fossi stato più presentabile.

Asciugato alla meglio, uscii fuori.

Con ogni pensiero rivolto alla ragazza dai capelli rossi, quasi investii un uomo alto sul metro e settantacinque e brizzolato. Dall’abbigliamento formale: gilet e jeans, sarebbe potuto essere benissimo il vicepreside, o ancora di più, il preside e l’avevo urtato il primo giorno.

Iniziavo proprio bene, tanto non s’era fatto niente e l’urto era stato leggero.

Lui mi scrutò perplesso.

 

«Tu sei…?» Mi chiese, soppesando un grosso malloppo di fogli che teneva tra le mani.

 

Glielo dissi.

 

«Aula 53 ragazzo… affrettati, stanno per iniziare l’appello» – M’apostrofò.

 

Ringraziai, scusandomi anche e iniziai le ricerche della classe. Ma, in realtà, non m’interessava davvero: continuavo a pensare alla ragazza dai capelli rossi. Chissà se l’avrei rivista. Quel pensiero mi tormentava.

Una voce squillante, mi scosse dai miei pensieri.

 

«Sai qual’è l’aula 53?» – Mi sentii chiamare da dietro le spalle.

«Un attimo che…» – Apostrofai, mentre mi voltai.

 

Mi voltai immediatamente. Era la rossa di prima, che mi stava rivolgendo la parola. Il cuore iniziò a battermi più forte nel petto, e non riuscivo a parlarle. Ritrovarsi di fronte una ragazza così bella e meravigliosa… di primo impatto, direi… mi mandò nel pallone. Rossa, naturale. Oltre a emanare una specie d’aura di serenità, che mi fece calmare. E il suo sorriso dolce, e senza malizia, fu la ciliegina sulla torta, nel farmi innamorare di lei. Anche perché, se avessi continuato a balbettare, o a fare scena muta, avrei avuto la nomea dell’idiota. Per sempre.

 

«Devo… devo andare anche io nella 53. Questa è la 49!» – Dissi, indicando la targhetta della porta davanti cui ci eravamo fermati.

 

Feci un rapido calcolo. Se cercava la 53, anche lei, sarebbe stata anche lei, nella mia stessa classe. La fortuna, o il caso, avevano voluto farci incontrare. Avevo la possibilità di farla innamorare di me, come lei era riuscita a stregare me: in un solo e unico istante. Avrei avuto, malattia permettendo, cinque anni per conquistarla. Di una cosa soltanto fui sicuro: non sarei andato all’altro mondo, senza prima aver tentato di conoscerla meglio.

Mi sorrise, e ci incamminammo.

49, 50, 51, 52… e 53. Pochi passi ci separavano dall’ingresso nell’aula che avremmo condiviso per cinque lunghi anni. Entrammo. L’aula era leggemente più ampia di quella delle scuole medie, il che la raccontava lunga sull’interesse dello Stato, per l’innovazione e l’interesse per i giovani. Molti dei nostri futuri compagni erano già seduti, altri in piedi, mentre il professore metteva in ordine libri e incartamenti vari. Sembrava stanco, spossato. Forse, aspettava soltanto che tutte le matricole si radunassero nell’aula.

L’osservai per qualche istante.

Indossava una giacca vecchio stile, con le toppe ai gomiti. Massiccio e sudato, con un viso ovale e antipatico. Non aveva gli occhiali, ma Non mi ispirò molta fiducia.

Notai due posti liberi in fondo all’aula. Lanciai un’occhiata interrogativa alla rossa, che mi rispose con un sorriso. Questa si, che era intesa senza bisogno di parole. Prendemmo posto, sedendoci allo stesso banco… a due posti. Mentre sistemavo le mie cose, notai qualche occhiata ostile dai miei nuovi compagni. Non ne intuii subito il motivo, ma qualcosa mi suggeriva che probabilmente ero quello meno infantile nella classe. Forse il loro atteggiamento troppo spensierato, o forse mi facevo io troppi pensieri inutili. Il professore si identificò come il professore di matematica. Non seppi mai il suo vero nome. Mi bastò soltanto un’ora in sua compagnia, per capire che si trattava di un pervertito a caccia di facili prede: per ogni suo discorso per rompere il ghiaccio iniziale, capitolava l’attenzione verso le ragazze della classe. La sua espressione era da vero maniaco: gote leggermente alzate, occhi da sadico e tipiche movenze da politico raggruppa voti. In tutto questo, noi maschi eravamo volontariamente ignorati. Anche la mia vicina dai capelli rossi, era stata presa di mira dal quiz inquadratore del professore: in pratica, era il solito domanda e risposta per conoscere una persona. Lei rispose il minimo indispensabile per cercare d’essere lasciata in pace. La cosa mi rasserenò non poco: contrariamente a molte altre ragazze della classe, che cinguettavano con il professore con flirt squallidi e volgari… di bassa lega. Lei lo aveva educatamente allontanato. Era bastato ignorarlo e la rabbia repressa, del professore, era visibile sul suo volto.

Non ci stavo perdendo nulla a comportarmi da ragazzo sincero, ma certe cose mi davano davvero fastidio: anche se non esternai questo mio disagio. Cercai subito d’individuare chiunque potesse essermi simpatico, antipatico o persino possibile usurpatori del mio tentativo di essere felice ed ebbi la strana sensazione, che questo professore, sarebbe stato più un problema che altro. Già dai suoi comportamenti, ne ebbi la conferma ai miei sospetti. E sarebbe stato meglio, per la mia sanità mentale, che fossi io chi avrebbe contrastato questa sua mania e pensai che sarei potuto essere anche utile per evitare che potesse adescare qualche ragazza: per esempio, con la scusa di ripetizioni private.

La sua malizia fu recepita solamente come una grande allusione, ma alcune mie compagne si prepararono a rispondergli nel modo più accondiscente possibile anche se, a mio modesto parere, avrebbero fatto meglio e finta di non dargli molta attenzione, ma alla fine ci mise soltanto qualche secondo per rispondere… come se indugiasse: gli sguardi reciproci per osservare i membri della classe e il successivo voltarsi con il corpo verso la cattedra del professore… solo per farsi notare.

 

«Adesso… uhm… ecco, James… chi é?» – Disse, replicando una smorfia.

 

Il professore fece il mio nome: diedi una controllata generale per cercare di capire se ero così tanto sgradito, ma notai… con mia sorpresa… che quasi tutta la classe arrivò ad osservarmi.

Era stato un calcolo veloce da parte loro, in quanto quasi tutti erano già stati chiamati… tranne io e qualcun altro.

 

Impiegai qualche secondo per rispondere con qualcosa di sensato… più che altro per cercare di mantenere la calma. Rivolsi lo sguardo verso la mia nuova compagna di banco e le sorrisi.

Gli risposi.

 

«Sono io, professore» – Gli risposi tranquillamente.

«Va bene, siediti!» – Mi rispose, quasi indispettito.

 

Mi mostrai falsamente timido, leggermente impacciato. Volevo essere qualcuno d’importante per lei, un mastino fedele: non è male, donare la fedeltà a qualcuno che s’ama profondamente. Anche se l’avevo conosciuta da poco, avevo la sensazione di averla conosciuta da sempre. E ormai ero conscio, di non avere più timidezza nel mio animo.

Mi rispose, con un cenno di sincera compiacenza, nel mentre salutai tutti con la stessa facilità con cui si potrebbe prendere una forchetta e infilarla nella propria cena preriscaldata.

La mia compiacenza era al limite, ma sopportai anche per non sembrare un insensibile mostro ai suoi occhi, sopratutto se mi sarei dovuto scagliare verbalmente contro di lui. Era così insulso.

Nonostante abbia una memoria ferrea, di quello che successe dopo la mia risposta, sopravvisse, in piccole dosi, il ricordo del calore della mano di lei, che s’andava a posizionarsi sopra la mia.

Iniziò lei.

Vibravo, ma quella sensazione di calore era la cosa più bella provata in chissà quanti anni. Mi calmai e, nonostante le mani d’entrambi erano leggermente bagnate e infreddolite per la pioggia, cercai d’assaporare quel momento come meglio potevo; appena il resto della classe si voltò verso il professore, noi posizionammo gli zaini davanti alle mani, per rendere segreto… forse intimo, quel gesto così apparentemente malizioso, e invece pieno di dolcezza.

 

«Devo dire che, come dico ogni anno, ritrovare sempre persone nuove a cui insegnare l’arte della matematica… è sempre un immenso piacere vedere il vostro cervello germogliare per l’effetto del seme della conoscenza che ha sempre formato grandi uomini e sopratutto le grandi donne… sempre dove vi erano grandi uomini. In poche parole, benvenuti» – Aveva un tono assai strano, quasi provocatorio. Ogni parola che diceva, era detta con una strana nota maliziosa.

 

Il mio dolce fantasticare, fu interrotto dalla stizza provata per le sue parole, ma lei non sembrava essere del mio stesso avviso, infatti la vedevo turbata. Come se qualcosa stesse andando storto. La sua espressione non mentiva e la mano destra, che aveva sopra la mia mano sinistra, vibrava. La tensione era al massimo e non ero a conoscenza delle motivazioni di nessuno. Neppure delle mie, sopratutto perché fossi così tanto nervoso, quel giorno.

 

«Ehi, non non mordo mica» – Lei asserì con voce bassa e preoccupata, proprio per non farsi sentire dagli altri.

«Scusami, ma quel professore mi sta facendo davvero innervosire e il fatto che oggi piove non è che mi renda molto tranquillo: come ha detto il professore, io sono James e mi fa molto piacere conoscerti» – Cercai di presentarmi con un tono schietto e pacato.

 

Lei mi guardò, accennando ad un sorriso e qualche secondo dopo la mia pacata presentazione, si avvicinò con la sua sedia alla mia e posizionandomi le sue calde braccia attorno alla vita: allo stesso tempo, il professore disse l’ultimo nome dell’elenco.

Fu lei a rispondere.

La sua voce era squillante e spigliata. Tanto che gli altri, quasi si stupirono nel sapere che avesse anche una voce e si voltarono verso di noi.

 

«E lei dovrebbe essere… Amber… ma cosa fate così vicino. Non ci si dovrebbe comportare così in una scuola e la prossima volta che vi becco, vi mando dal preside: tanto sono io che comando qui e prima o poi mi dovrete venire a chiedere un favore» – La sua voce non era polemica, ma era tesa e v’era rimorso nelle sue parole.

«Mi scusi… cosa avremmo fatto di male?» – Gli chiesi, con tono rilassato.

«Ehm, tutti presenti e devo andare» – Disse nervoso, ma debole del fatto che non era riuscito a fregare anche noi.

 

Scoprirono subito il nostro stare abbracciati, tanto che lei aveva poggiato anche la testa sulla mia spalla destra. Tutto condito da un’estrema noncuranza del resto delle persone che avrebbro tanto voluto dire qualcosa in merito.

Solo prima della sua ammonizione, il professore fece una smorfia di rabbia repressa, ma nel mentre, lui e gli altri maschi della classe mi guardarono con uno sguardo minaccioso ed invidioso. Non intuii cosa volessero da me, ma lo capii con il tempo e solo adesso mi rendo conto, di quante soddisfazioni non mi sia riuscito a togliere in questi anni. Mentre continuò ad abbracciarmi, il professore s’alzò dalla cattedra e se ne andò, sbattendo la porta.

 

«James, io mi chiamo Amber, il piacere è tutto mio e credo che non sia un caso se ci siamo incontrati» – Anche lei si presentò… mi sorrise, mentre parlava sempre a bassa voce.

«Driin!» – Risuonò la sveglia, ad interrompere tutto.

 

Ecco quella dannata sveglia. Capii d’essermi svegliato nel mondo reale, anche se stranamente ricordavo di averla staccata la notte prima. Gli occhi facevano ancora fatica ad aprirsi. Nelle orecchie sentivo come un mormorio di voci e lamenti e qualche volta mi sentivo pure l’acqua che pioveva, ma non capivo da dove. Realizzai che ero ancora nel fottuto ospedale. Non c’erano perdite: c’avrebbero avvisato.

Erano lacrime.

M’ero dimenticato d’aprire gli occhi.

 

«Tutto bene, non sei… ?» – Disse allarmata mia madre.

 

Aprii gli occhi.

Non stava piovendo, alla fine.

 

«Certo che sto bene… perché cosa dovrei essere?» – Risposi preoccupato, mentre aprì gli occhi.

«M… morto» – Disse mio padre, quasi a bassa voce e ammutolendosi.

 

Rimasi shockato. Non potevano rendermi già spacciato. Avrei voluto vivere un altro po’ e avrei voluto rivederla un’ultima volta. Uno, cinque e dieci. Proprio dieci minuti mi ci vollero per metabolizzare la mia falsa morte. Il resto della mia famiglia mi stava guardando e piangendo allo stesso tempo; mi fermai e con un’espressione stranita in volto, cercai di capire cosa fosse successo, ma non ebbero nessuna reazione, al notare del mio essere vivo. Cercai di sapere chi avesse dato il falso allarme, ma ero più preoccupato per l’emotività dei miei. S’erano preparati al dolore per la mia prematura scomparsa: glielo leggevo negli occhi. Ormai erano rassegnati, e neanche più credetti di vivere chissà quanto ancora. Ma non potevo di certo credere a tutta questa dannata situazione creatasi per un terribile disguido, ma posso assicurarvi che è straziante sapere che qualcuno ti piange quando non puoi fare nulla per fargli capire che ci saresti per sempre per lei: alla fine ero vivo, ma sentivo morirmi dentro. Non capirò mai se erano felici per me o tristi perché avrebbero dovuto prolungare il loro travaglio.

 

«Allora questa è la morte» – Mormorai io a bassa voce.

 

I miei, naturalmente, dopo che notarono il mio essere ancora in vita e che non era successo niente, rimasero in religioso silenzio. Dietro la schiera formata dai miei parenti, vidi la porta della stanza aprirsi: in quel preciso momento, entrò visibilmente qualcuno, ma non vedendo per via dall’altezza media dei miei osservatori troppo alta, non riuscii a capire subito quello che era successo. Il gruppo fece in modo qualcuno passasse tra loro e vidi il dottor Treyo spuntare dalla piccola folla: ancora lui. Non lo sopportavo, ma il timore di cattive notizie era ancora più forte del mio disagio nei suoi confronti.

 

«Pensavo che ormai avessi già fatto le valigie, non rispondevi!» – Rise, poi parlò con voce stridula e fastidiosa.

 

Da vero medico idiota.

Soltanto un dottore avrebbe potuto fare una battuta così cinica: sopratutto se rivolta ad un malato terminale. Mi diagnosticò lui stesso il motivo per cui ero rinchuso in questo luogo, solamente per compiacere il suo ego. Lo guardai, mentre cercai qualche oggetto da scagliargli contro: volevo infliggergli la mia sana risposta. Mi fissò, stando in piedi, a pochi metri e di fronte, alla pediera del mio letto. Feci solamente il gesto per prendere il vaso dei fiori, quasi istintivamente, ma i miei riuscrono a bloccarmi giusto in tempo per evitare chissà quale guaio. Non ebbe nemmeno una benché minima reazione: mantenne soltnanto il ghigno sul volto, come al solito.

 

«Ma come ti permetti, brutto idiota?» – Gli dissi, preso dalla rabbia.

«Modera il linguaggio, ragazzo e tanto il tempo scorre. Tic e tac!» – Mi disse con sufficienza, e sempre con la sua voce stridula e fastidiosa.

 

Evidentemente, non era rimasto contento dall’avermi provocato, per ben due volte, in appena cinque minuti. O c’era dell’altro che io non potevo sapere. Non ci vidi più dalla rabbia. Sapevo di dare un dispiacere ai miei, ma non riuscivo a sopportarlo e non sapevo come farlo uscire senza sembrare maleducato. Mi rendeva nervoso. Mi tolsi le coperte di dosso, ma cercai di fargli capire che ero nervoso e che non volevo essere provocato.

Mi vide sul piede di guerra e solo allora chiese di essere lasciato da solo, ma la sua ritirata sarebbe potuta essere soltanto strategica: non ne sapevo il motivo, ma non mi fidavo di lui. Istinto, forse. Avrebbe dovuto ringraziare i miei: lui troppo sfacciato e i miei troppo legati all’apparenza.

Attesi che la stanza si liberò delle inutili presenze, ossia tutto il resto dei parenti – o spettatori silenti, proprio per evitare che qualcuno mi sentisse dire probabili cattiverie. Ero realmente triste per quello che era appena successo: non volevo deluderli. I miei decisero di non seguirlo, avvicinandosi a me.

 

«Chiedi scusa» – M’ordinò mio padre, con tono secco e deciso.

«Vabbè, scusatemi: mi scuso solo con voi» – Gli dissi, andandomi a silenziare.

 

Il loro unico atto di comprensione, nei miei confronti, fu un abbraccio: se ne andarono poco dopo. Il loro uscire dalla porta fu malinconico, quasi sapendo che la successiva volta in cui sarebbero tornati in questa stanza, sarebbe potuta essere l’ultima in cui mi av rebbero potuto trovare vivo.

Sistemato il disarmante equivoco, aspettai una decina di minuti e mi alzai dal letto. Preparando l’occorrente per seguire le lezioni: l’appoggiai sul tavolo alla destra del mio letto per essere sicuro che non cadesse niente. E come mio solito, mi recai in bagno per darmi una rinfrescata e per lavarmi, ma appena cercai di guardarmi allo specchio, ebbi il sentore che qualcosa non stava andando nel verso giusto, ma uscii dal bagno come se nulla fosse successo.

Decisi di non agitarmi troppo: accesi preventivamente il computer, donatomi dalla scuola per le emergenze, mentre terminai, solo all’ulitmo secondo, di sistemare il programma per lo streaming, per poter seguire le lezioni da questa cella d’ospedale: avrei preferito stare lì, ma purtroppo dovetti rinunciarvi per sempre. Misure cautelari, mi dissero.

Il computer era posato sul tavolino alla destra del mio letto e mentre caricava tutte le schermate. Mi accomodai sulla sedia che di solito usavo per mangiare e collegai la webcam ad una delle prese usb che sono situate sotto lo schermo del portatile.

Tutto era pronto, finalmente: ero particolarmente euforico, ma non avrei potuto esternarne chissà quanto perché non ero sicuro che il cuore avrebbe retto a chissà quanta gioia. A proposito di gioia, non stavo più nella pelle: finalmente avrei potuto vedere la ragione della mia vita, l’unico motivo per cui non avrei mai. E poi mai, voluto nemmeno pensare di tentare il suicidio, fino a che la malattia non avesse compiuto il suo tragico epilogo: Amber. Lei era la mia unica preoccupazione, al momento. Il resto non era importante. E la mia paura era che potesse esserle arrivata qualche falsa notizia.

Attesi.

 

«Si sta collegando qualcuno… ma non era morto?» – Disse chiaramente uno dei miei compagni.

«Ho fatto…» – Era Amber a parlare, preoccupata come poche altre volte.

 

Lei si fermò, come se stava per dire qualche parola di troppo, ma non capivo il perché del loro discorso, mentre loro non sapevano che li stavo sentendo.

Sentii dei lamenti provenire dall’altra parte del computer. L’immagine apparve soltanto un minuto dopo la ricezione dell’audio. Appena apparve l’immagine nello streaming, vidi gli interi membri della mia classe schierati in un’unica fila orrizzontale al computer e guardante la telecamera: non sapevo il motivo del loro comportamento. La sala computer della scuola era assente, tranne per i compagni della mia classe ed Amber. Una delle mie poche sostenitrici in questi anni. I miei occhi erano soltanto per lei: i suoi occhi brillavano per le lacrime, asciugate quasi frettolosamente e gli altri che cercavano di consolarla, ma un semplice sorriso sembrò dichiarare una sua volontà nel non essere triste. E stemperò leggermente la mia rabbia, anche se in aumento. Stringevo i pugni verso il basso, per non cercare di mostrare loro come mi stavo sentendo al momento. Evidentemente, il mio subconscio, e il mio cervello, capirono molto velocemente cosa fosse successo: infatti capii, anche io, l’inutilità di procrastinare le spiegazioni.

 

«È stato un falso allarme… credo sia stata una prova generale» – Risi, quasi per sdrammatizzare.

 

Spiegai il malinteso.

L’immagine di Amber, in lacrime e in cerca di un solo attimo di conforto, era qualcosa di straziante per me: avrei voluto tanto spegnere la webcam, ma ero troppo preso dal cercare di starle vicino come potevo – anche se non avrei potuto; infatti, fu il suo sincero sorriso rivolto verso la telecamera, dopo l’evidente pianto, a farmi dimenticare tutte le sofferenze e farmi apprezzare le poche gioie della vita. Tanto sapevo di non poterla più riabbracciare. Pensavo anche che le iene, con zampe più simili a braccia e mani, stavano tramando un piano, di qualsiasi genere, dal giorno in cui il loro sguardo si posò sul suo corpo: sapevo tutto perché ero il ragazzo della classe con cui si confidava di più e che le mancavo.

Le mandai un messaggio sul cellulare: le chiesi se poteva venire a trovarmi dopo le lezioni e che m’avrebbe fatto piacere.

Accettò quasi subito.

Tutti gli altri, avrebbero tratto soltanto vantaggi dalla mia dipartita e il non poter essere più presente nella sua vita mi portava soltanto rancore. Notavo il suo scostarsi dal tentativo degli altri compagni di classe di consolarla, ma il suo intento era comunque quello di non volerli ferire sentimentalmente e la mia speranza risiede tutt’ora nel suo non interesse per loro, ma non credevo affatto nella possibilità di sospettare nuovamente in una loro insistenza: ormai erano passati anni dal nostro primo incontro e potrei affermare di iniziare a capire come pensa lei.

Mi mancava. Ed ero certo di mancare anche a lei: il sentimento era reciproco, in poche parole. La porta della stanza s’aprì dopo qualche minuto: il professore pervertito entrò e si guardò attorno; guardò il monitor e deglutii, come se sentisse il peso della responsabilità su di lui per qualcosa di cui si sentiva evidentemente responsabile: schiena curva, sguardo leggermente spento. Era adirittura ingrassato… non che prima fosse proprio uno stecca da biliardo. Deglutii per cercare di trattenere il nervoso, e cercai di seguire quelle poche cose che cercava d’insegnarci: si limitò a cercare d’insegnarci qualcosa, ma non aveva perso il suo vizio di lupo predatore, anche se ho sentito da Amber che qualcuno stava vigilando sulla scuola. Uno che aveva conosciuto, forse era una specie di vigilante o qualcosa di molto vicino ad un detective: da incosciente, non gli diedi peso.

 

La mattina scolastica passò molto velocemente, nonostante l’essere relegato qui non mi ha mai entusiasmato. Staccai tutto il comparto per le lezioni, ma decisi solo dopo di mangiare… quasi fosse il mio ultimo pasto, in un ospedale a cinque stelle: minestrina in bianco e una coscia di pollo. Guardai il mio piatto, prima di decidere di mangiare. Solo dopo un minuto di riflessione, mi misi a mangiare e finì tutto in cinque minuti. Buttai il piatto e le posate dentro il cestino dentro il bagno.

Sentii il cellulare squillare. Mi voltai verso il comodino: risposi.

Dall’altra parte nessuna risposta.

Riagganciai e lo riposai sul comodino.

Mi guardai attorno: nessuno a colpo d’occhio.

M’incominciai a preoccupare perché solo i miei familiari sapevano che ero in ospedale: neanche ad un condannato a morte, gli darebbero un trattamento peggiore.

Giunsero le tre del pomeriggio, così da avere un po’ di pace in quel posto triste e dimenticato da tutti. Lì dentro, tutti attendevano la morte di tutti: solo per donare la propria gabbia ai prossimi sventurati. Decisi di stendermi di nuovo sul letto, essendo uscito dalla porta per controllare la presenza d’altri come me.

Essendo una stanza due metri per due metri, stavo leggermente rinchiuso in una botte di cemento e mattoni. Da come si stava sviluppando la situazione, l’unica cosa che mi passò per la testa, fu quella di accendere la consolle portatile e ascoltare un pò di musica: non si sarebbero accorti di me nemmeno volendo: il posto sembrava disabitato d’altri pazienti. E tanto, usai le cuffie per la musica, proprio per non disturbare.

Sentii la musica per qualche ora. Tutto filava liscio: nessun problema. Non mi preoccupai neanche dell’ambiente circostante, e delle persone che ne facevano parte. Chiusi gli occhi, ma non mi sentivo stanco: potrei persino affermare di esser stato in uno stato di Nirvana o Limbo: il sentirsi in pace e in tranquillità era bellissimo. Sentivo di non avere responsabilità, quasi sollevato e persino il mio cuore era leggero. Per la prima volta nella mia giovane vita.

 

«Svegliati» – Sentì la mia stesa voce risuonarmi nel cervello.

 

Riaprii gli occhi.

Ero agitato, ma cercai di prendere fiato e calmarmi.

Mi venne spontaneo guardare l’orologio del cellulare: era orario di visite. Mi misi comodo nel letto alzando e sistemando il cuscino, per stare comodi. Poi mi recai in bagno e mi guardai allo specchio: tutto era in ordine. Per sicurezza mi feci una bella doccia che ultimai in un quarto d’ora. Mi cambiai ed uscii dal bagno. Mi distesi di nuovo sul letto, rialzando il cuscino, e risistemai le coperte sgualcite. Attesi. Passarono dei minuti completamente privi di rumore, tanto che l’unica cosa che feci fu osservare il soffitto. Steso sul letto e con lo sguardo perso nel vuoto. Di nuovo. Chiusi gli occhi e mi vennero, questa volta, dei formicolii in tutto il corpo: non riuscivo a muovermi, mentre il soffitto della stanza si stava abbassando. Non capii più niente. Cercai d’alzarmi, ma niente. Appena mi voltai con la testa verso le pareti laterali, anche queste si stavano restringendo. Ero diventato pazzo. Lo riconosco soltanto adesso: stare chiuso in ospedale mi provocò non pochi disturbi legati alla claustrofobia. Credo che per la immobilità esista una causa più specifica della pazzia: dunque decisi di tentare di calmarmi e aspettare che il mio stesso corpo si sistemasse da solo, mandando anche degli input ai muscoli, ma decisi anche di chiudere gli occhi.

 

Passò qualche minuto.

Mi concentrai, chiudendo gli occhi. Uno, due e tre minuti. Tutto passò: ripresi sensibilità.

Uscii da sotto le coperte, rifacendo il letto e distendendomici sopra, riaccendendo anche il lettore musicale: tutto per il mio rilassamento: sarà strano, ma la traccia su cui iniziò la riproduzione causale fu la Sonata alla Luna di Beethoven. Il suo effetto rilassante divenne subito efficace, tanto che mi rilassai e chiusi anche gli occhi.

 

La mia mente viaggiò, tornando al motivo per cui ero tornato in ospedale.

Avevo già sedici anni.

Era un giorno di metà dicembre dell’anno passato, in cui il freddo la faceva da padrone e non avevo di che spendere il mio tempo. Ero in classe e quel giorno, come tutti i giorni, da quel primo giorno, era la solita situazione in cui ogni professore ci rimproverasse: c’avevano beccati di nuovo troppo vicini. Per il nostro essere, in modo graduale, diventati più intimi: non c’era alcuna malizia nel nostro stare insieme e di certo non avevamo intenzione di far intendere chissà cosa.

 

«Stasera ti va d’uscire, ho un posto che ho visto di recente con i miei che di sera è fantastico: te lo vorrei mostrare. Che ne dici?» – Le chiesi spontaneo, senza la benché minima pretesa.

«James! Hai rotto il c***o! Se parli ancora, ti sbatto fuori!» – Sbottò il professore, forse interrotto per l’ennesima interruzione, o brusio.

«Mi hai tolto le parole di bocca» – Mi rispose, Amber, scrivendolo su di un foglio del quaderno sul suo banco.

«Fantastico, allora?» – Le chiesi, facendo attenzione a non emettere alcun suono dalla bocca, e lo scrissi anche io, sotto il suo, di scritto.

 

Il professore, forse nel vedermi felice, e non attento alla sua lezione sulla funzione applicativa del 3.14 π e sulla sua filosofia, mi cacciò fuori dalla classe e nel farlo, sbraitò come non poche volte. Non fraintendetemi, sarebbe stata anche interessante, la lezione, ma spiegata da lui era troppo ricca di fronzoli inutili e di aneddoti personali: una palla.

 

Quel giorno, lei accettò.

 

Ero rammaricato, e decisi di non dire altro, perché non potevo starle vicino, ma il suo accettare il mio invito, mi rese più morbido l’esilio momentaneo. Il dolce sorriso di Amber mi fece capire che il mio invito era andato a buon fine, sorpassando la mia domanda: preferirei sempre essere sincero, se non si fosse capito.

 

Il pomeriggio lo passai a gongolare, perché la sera sarei finalmente uscito con lei, ma avrei potuto concordare un orario decente prima d’aspettare la sera stessa: m’avrebbe fatto sapere lei. Attesi parecchie ore, nel mentre anche la pioggia sembrava incessante nel piangere, sempre per qualche strano motivo. Incominciai a credere che non mi avesse chiamato più, che fosse uno scherzo e che anche questa volta sarei stato fregato, dalla vita: avviai un film, ordinai una pizza e la birra già l’avevo in casa. Ero troppo teso e avrei dovuto solo rilassarmi. L’unica cosa che volevo fare era assopirmi per arrivare al giorno dopo.

Il film era ormai che finito. Mi mancavano lei e il suo sorriso: non potevo farne a meno. Forse avevo idealizzato tutto, persino l’essere felice, ma sicuramente non avrei potuto costringerla a stare con me. Erano giunte le sette e mezza, mentre ormai il mio intento era farmi una doccia: rilassante per andare subito a dormire. Avviai l’acqua calda, mentre mi spogliai. Mi chiusi in bagno, nel mentre avevo già spento il computer. La doccia andava e v’entrai senza vestiti. Piansi, forse come atto liberatorio. Le fredde lacrime s’unirono alle calde gocce d’acqua ed entrambe toccarono il mio corpo, triste perché non volevo ritornare ad essere dimenticato: morire senza che neanche un cane potesse piangere la mia stessa morte. Desideravo ardentemente che Amber accettasse davvero il mio invito, soltanto per mettermi il cuore in pace, ma divenni persino intento nel rinunciarvi. Presi il cellulare, dopo venti minuti di rilassamento completo, mentre m’asciugai le lacrime e nel volerle disdire l’appuntamento, stava squillando il telefono.

Risposi.

 

«James, ti chiedo di scusarmi. Ho avuto degli imprevisti nel pomeriggio, ma adesso è tutto apposto. Va bene per stasera, ma non facciamo troppo tardi perché domani comunque abbiamo scuola» – Amber, finalmente, mi rispose.

 

Le diedi delle scuse fredde e leggermente distaccate, come il suo messaggio. Ma anche quel poco d’ottimismo, mi sarebbe bastato per scacciare via la momentanea depressione avuta nel pomeriggio.

Erano giunte le otto.

 

Volevo urlare dalla gioia, nel mentre mi stavo vestendo. Il sorriso tornò sul mio volto e pensai di nuovo d’avere qualche possibilità con lei, ma cercai anche di non spingere troppo con la fantasia: proprio per non ritrovarmene deluso; mi ricordai d’estrarre il mazzo di rose rosse dal vaso, ove le avevo riposte nel pomeriggio. Prima del film e della mia depressione iniziale, anche se notai che non mi disse a quali imprevisti si riferiva.

 

«Arriverei lì tra massimo un’ora. Il tempo di finirmi di preparare e d’arrivare da te» – Le risposi al messaggio, appena finì di vestirmi.

 

Terminai la chiamata: agganciai, con molta delicatezza.

Mi vestì elegante, perché volevo soprenderla: a scuola andavo vestito in abiti sopratutto casual e dunque volevo sorprenderla: avevo il suo numero perché ritenevo fosse necessario avere un modo per poter contattare chiunque rientra nei propri interessi. Quando glielo chiesi, me lo diede con molta naturalezza, ma credo che anche lei mi chiese il mio per lo stesso motivo; decisi per andarla a prendere a casa sua per un puro atto di galanteria. Erano giunte le otto e mezza, mentre notai che ero pronto per prendere le chiavi della macchina e andarla a prendere. Salii in macchina, una city car donatami dai miei ansiosi genitori, per evitare che potessi prendere freddo nel camminare a piedi: c’era l’inverno. Avevo anche la patente, cosa importante per guidare: tutto in regola, dunque. Macchina profumata, io pure e le rose erano in macchina: persino la pioggia del pomeriggio, sembrava essersi tolta per far spazio ad una splendida luna.

Partii.

Faceva freddo, tanto che azionai l’aria calda sia per sbrinare il vetro e sia per non tremare. Andai piano, sopratutto per la scarsa visibilità e nel mentre mi ricordai d’avvisarla che ero già partito da casa. Avrei usato un effetto sorpresa.

Ripartii.

Arrivai a casa sua… sempre a velocità moderata, nel mentre il mio pensiero era già proiettato a quando lei sarà entrata in macchina e sarà di fianco a me.

Scesi, carico del calore preso in macchina, senza nemmeno la giacca. Ero di fronte al cancello di casa sua, con il mazzo di rose che appositamente avevo posto dietro la schiena.

Poco dopo, nel mentre rimasi fuori l’auto e la chiusi a chiave. M’incammai verso il portone, passando per il girardino, di casa sua, in cui sentii un buon odore d’erba tagliata; durò poco, perché notai che la porta era già aperta: il mio pensiero era già proiettato nell’aspettativa di vederla. Arrivai finalmente al portone. E appena mi vide, mi fece cenno ad entrare. M’accolse direttamente lei. Un sorriso e già mi sciolsi, tanto che mi trattenni dal balbettare. Un suo sorriso mi fece capire che era felice di vedermi, e anche io lo ero, e glielo feci capire, prendendo un bel respiro e gonfiarmi un attimo il petto. E poi finì il respiro, tutto condito da un sorriso smagliante e positivo. Mi sentivo veramente euforico, nello stare vicino. Anzi, più realizzato che altro. Credevo che saremmo stati bene in coppia.

 

«Cos’hai lì dietro?» – Mi chiese, incuriosita. E allungando il collo verso il mio braccio nascosto dietro la schiena.

«Nella mano posta dietro la schiena?» – Le risposi. O meglio, le chiesi con naturalezza.

«Si» – Mi rispose, piena dell’ovvietà della sua domanda.

«Sono per te, spero accetterai» – Le risposi caldamente ed umilmente.

 

Le accettò, forse perché sapeva quale messaggio volessero trasmettere le rose oppure per chissà quale altro motivo. M’abbracciò subito dopo, stringendomi a se e nel mentre mi baciò sulla guancia destra molte volte, mi ringraziò con zelo e mentre pose le rose dentro un recipiente per contenerle, mi aggiustai bene la camicia, per cercare di non fare brutte figure. Non aveva ancora messo il rossetto, stranamente. Oppure sarà per non lasciarmi l’impronta delle sue labbra sulle guancie: chissà.

Il suo vestito azzurro risaltava tutto il suo corpo: semplicemente un vestito lungo a collo alto e senza maniche. Scivolante sulle proprie curve e il colore le risaltava ancora di più il colore degli occhi. Non mi feci troppe domande: mi vide leggermente accaldato. Stavo sudando in realtà. In risposta, le sorrisi e sorvolai abilmente il discorso, chiedendole d’uscire, porgendole la mano ed accompagnarla alla macchina: solo in quel momento, notai che aveva messo il rossetto.

Chiuse il portone a tripla mandata e finì di mettere la casa in sicurezza, le aprii la portiera della macchina ed attesi che fosse salita per chiudergliela. E infatti, da cavaliere, aspettai fuori, per chiuderle poi la portiera. Ci mise qualche minuto, per il tutto. Entrò in macchina e tirò un respiro di sollievo, sbattè le palpebre e mi rivolse un sorriso smagliante. Finalmente eravamo in macchina, da soli, e mentre l’avviai, la macchina, lei si rilassò e pensai un attimo a dove andare: il mio intento era quello di girare senza una meta precisa, giusto per stare con lei lontano da occhi indiscreti. Anche se il posto, in realtà, ce l’avevo già in mente.

Pensai che un appuntamento leggermente più galante, sarebbe riuscito a farci comprendere quelli che erano i sentimenti d’entrambi verso l’altro e quindi sarebbe stata un’ottima occasione per entrambi. Per schiarsi le idee e i propri sentimenti.

 

«Ti sei allacciata la cintura di sicurezza?» – Le sorrisi e anche il mio tono di voce era sereno.

 

Mi rispose allacciandosi la cintura, posta alla sua destra, inserendo poi il giunto dentro il gancio posto alla sua sinistra. Il rumore del gancio mi fece capire che era tutto apposto e me l’allacciai anche io: in quel momento, premetti sull’accelleratore e scelsi di dirigerci fuori città. Guidai per venti minuti, mentre ero già più rilassato, sapendo che lei era qui con me. Mi fermai, giungendo ad una piazzetta in collina, ove si vedeva tutto il panorama delle città sottostanti, dall’alto. Da cartolina. Infatti, appena ci assicurammo d’essere realmente da soli, spensi la macchina e mi rilassai un attimo. Posai la mano destra sul cambio, nel mentre chiusi un attimo gli occhi, per prendere un attimo fiato. Anche lei, poggiò la sinistra, per cercare del contatto e forse, per farmi qualche strana domanda. Come fece.

 

«Forse so d’essere ovvia, ma perché le rose rosse?» – Mi chiese serena, ma il suo fissarmi complicò la mia risposta.

«Per dirti che ti amo, ma che non posso stare con te» – Il mio tono di voce era frustrato, ma pieno d’amore: malinconico, in poche parole.

 

Rimasi in silenzio, successivamente. Lei chinò leggermente la testa, mentre avevo appena realizzato che non stava riuscendo a capire tante cose di me. Era stata di fianco ad uno sconosciuto, in questi due anni. Ma ero sempre stato sincero con lei, sopratutto per quello che mi chiedeva: per esempio, come mai avessi atteso due anni per confessarle i miei veri sentimenti.

Non lo capivo nemmeno io, forse era soltanto paura del rifiuto.

 

«Non posso semplicemente, perché potrei essere un emerito stronzo: pare che i cupi e i tenebrosi vadino di moda e tutte le ragazze sono infatuate di loro. Io, prima d’incontrarti, non ho chiesto nemmeno un briciolo di tempo per vivere degnamente: ho buttato la mia intera vita dentro il water ed ho scaricato. Sei la mia unica ragione di vita e forse me ne vergogno un po’» – Le dissi, sempre con voce malinconica.

«Perché dovresti vergognarti, in fondo sei un bel ragazzo e come già ti dissi, mi ritengo fortunata ad averti conosciuto: fin da subito, mi sono sentita al sicuro con te. Lo scoprire che sei un’ottima persona anche fuori da scuola, è stata per me un’ottima sorpresa e confermato la mia scelta» – Mi disse lei, con il suo sorrisetto vispo e felice.

 

Le sorrisi, pieno della sua sincerità delle sue parole e mentre mi trattenni anche dal far scendere una semplice lacrima, decisi di riaccompagnarla a casa. Non uscimmo chissà quanto quella sera, ma solo il pensiero di perderla mi faceva stare male. Il mio sorriso era malinconico, forte della botta emotiva avuta pochi minuti prima. Non ero ancora pronto per farlo, mentre strinsi tra le mani i pezzi del volante cui poggiavo le mani. Dentro ero triste, nervoso: le mani tremavano; avevo sempre la stessa reazione alla frustrazione. Non volevo dirle della mia malattia, perché di sicuro non volevo farmi compatire, ma come atto d’amore nei suoi confronti, le sarebbe almeno dovuto. Infatti, aspettai di arrivare di fronte casa sua, per dirglielo.

 

«Sono malato. È il vero motivo per cui non posso stare con te: ho una malattia incurabile. Non posso essere guarito, e per giunta potrei morire da un momento all’altro. Potrei morire domani, adesso, tra tre anni o adirittura non farlo affatto: però non voglio farti soffrire. In poche parole, il sangue nel mio corpo non circola abbastanza e se il cuore dovesse pompare più sangue del dovuto, potrei morire per infarto anche adesso!» – Le dissi, arrabbiato con me stesso.

 

Sgranò gli occhi, mentre ci mise qualche decina di secondi per capire che la mia non era una scusa per rimorchiare, e proprio in quel momento, non riuscii neanche a trattenere l’unica lacrima: scese dal mio occhio destro. Lei s’avvicinò a me e la notò. Ero stato schietto e sincero, dopo tutto. Passò qualche secondo e decise di sedersi sui sedili posteriori, ove s’aveva più spazio per entrambi.

 

«Capisco la tua scelta, ma almeno sei stato coraggioso nel dirmi la verità e nel volermi partecipe della tua vita: non credo che molti altri ragazzi avrebbero fatto la tua stessa scelta. Vorrà dire che m’impegnerò nel non farti soffrire: ti amo anche io e sarei felice nello starti vicino, qualsiasi cosa sarebbe successa. Siamo da soli qui, vero?» – Parlò con calma e con dolcezza, come sempre. Anche se eravamo di fronte casa sua e i suoi non sembravano essere ancora tornati a casa.

 

Mi tese le mani per tapparmi gli occhi e sentii che avvicinò la sua testa alla mia, mentre attivai la chiusura della macchina. Le feci capire che anche io stavo per sedermi sui sedili posteriori.

Feci attenzione: ci riuscii, cercando di non colpirla.

Finalmente ci ritrovammo l’uno di fronte all’altro. Due anni spesi a sognare questo momento e finalmente era divenuto realtà: il mio cuore palpitò molto, nel mentre cercai di non fargli capire che stavo soffrendo. Anche il suo cuore palpitava. Lo notai dal come mi guardava: piena d’amore. Gli occhi d’entrambi erano lucidi, pieni d’amore giovanile, di speranze per il futuro e attratti da non so che cosa. Però volevo, anzi desideravo, che quel momento non finisse mai più.

Ci baciammo, come nei finale dei migliori film romantici: il suo sguardo, desideroso di conferme, s’unì con il mio sguardo desideroso di trovare la pace tanto cercata; le sue mani calde avvolsero le mie e le pose vicino al cuore, che batteva forte. Sarà l’emozione, pensai.

Ci baciammo ancora, sopratutto per realizzare che non era un sogno.

Non persi tempo, perché m’era tiranno e provai ad anticiparla, ma arrivando a soli due centimetri dal suo volto, le sorrisi e mi fermai: volevo che quel caldo momento non finisse mai, ma dovrà arrivare il mio momento e purtroppo dovrò essere pronto a lasciarla andare. Solo che nel frattempo, me la sarei anche potuta godere. La vita, e anche lei.

Lei m’accolse, poggiando la schiena sulla portiera sinistra e protese la testa quasi verso di me. D’altro canto, feci in modo di non farle male e anche se avrei voluto spingermi oltre, il suo sgardo languido mi fece azzardare un tentativo. Le spostai leggermente le mani ed incominciai a spostarle la gamba destra: per le effusioni serviva spazio sufficente. Sentivo il sangue ed il cuore spingere verso la zona erogena, ma ancora stavo bene e lei mi tastò il torace, fino ad arrivare, anche lei, alla mia zona erogena.

Una fitta: il mio corpo stava cedendo.

Stavo avendo un infarto? Non ne ero certo, ma faceva un male cane.

 

«Ascoltami bene. Nel cruscotto ci dovrebbero essere delle pillole e sotto il sedile vi è una bottiglietta mezza vouta: prendimele per piacere: sono dei calmanti per il cuore. Sto avendo un infarto!» – Le dissi, quasi adirato con me stesso. Ma ero stranamente calmo.

 

Seguì le mie istruzioni alla lettera, porgendomi subito quello che le chiesi. Non riuscivo a muovermi, il cuore mi faceva male. Pulsava, tanto. I battiti erano peggio di un pugno in pieno petto: volevo implorare o dare un urlo, ma volevo essere forte per tutt’e due. Capivo che non stavo dando un bello spettacolo, ma avrei dovuto risolverlo lo stesso. Assunsi subito le medicine e chiusi gli occhi. Era visibilmente spaventata, ma anche lei mi diede l’unico aiuto che avrebbe voluto. Altre lacrime scesero dai nostri occhi, mentre sperammo che le pillole facessero l’effetto sperato. M’appoggiò le mani sul viso. Le sentivo calde e ancora tremanti dalla paura: immaginavo che fosse sotto shock e per cercare di farla calmare, vi poggiai anche le mie.

 

«È tutto apposto: sono i rischi e saranno frequenti.Lo so, sarei dovuto essere più previdente» – Le dissi, con voce dolce e tranquilla. Proprio per cercare di tranquillizzarla.

«Non preoccuparti: tu sai che ci sono io per te e io so che tu ci sarai per me. Ti amo anche io e farei di tutto per averti con me» – Mi rispose anche lei con la stessa dolcezza che usai anche io, ma si stava comunque riprendendo da un forte ed evidente shock. Tanto che respirava a rilento.

 

Cercai di farla calmare parlandole dolcemente.

Un momento di pausa.

Partì, subito dopo e da entrambi, una risata nervosa e ci baciammo di nuovo; felici d’esserci spogliati d’ogni insicurezza e dolcemente, senza gli impulsi sensuali a far cornice a una serata tanto fatale e tanto miracolosa. Ero già steso sui sedili posteriori, nel mentre v’era stato tutto il travaglio.

Il petto, il mio, era nudo nel mentre lei si calmò del tutto.

Avrei voluto realmente darle tutto me stesso, ma sapevo anche che se avessi esagerato, non avrei avuto potuto fare più di tanto, perché sia il sangue e sia le mie energie quelle erano e purtroppo di quelle mi sarei dovuto accontentare.

Mi ripresi, mentre pensai che era l’ora di prenderci qualcosa da bere, ma lei era visibilmente e già spossata di suo. L’essere piena d’emozioni, tra lo shock, e il resto degli avvenimenti realizzatasi in poche decine di minuti, mi fece rendere conto che per quel momento, la serata sarebbe potuta finire anche qui. Lei, senza battere ciglio, mi capii al volo e mi ringraziò per averla capita. Un semplice bacio, casto e senza malizia, scattò tra noi e scesi, solo dopo, per aprirle la portiera della macchina e aspettai, fino a che non fossi sicuro che fosse al sicuro. In casa sua.

Scese dalla macchina.

Ero sicuro che l’indomani non ci saremmo alzati, ma proprio per nessun motivo. Anche se l’indomani ci saremmo dovuti ritrovare su quei banchi, ma l’unica cosa che contava, al momento, era che l’avevo riportata, sana e salva, a casa sua. Dopo il casto bacio, non riuscii a dire altro. Non volevo essere troppo prolisso, per non complicare le cose. Volevo piangere dalla gioia, ma mi sforzai a trattenerle. Lei, nel vedermi, si bloccò e vidi le pupille dei suoi occhi allargarsi e aprire leggermente la bocca. Un attimo d’esitazione, passò per la sua mente e poi si recò verso di me e m’abbracciò. Ponendomi le braccia sulla vita. E io feci lo stesso, poggiando il capo sulla sua spalla sinistra. Chiusi gli occhi, nel mentre sentivo il suo cuore battere molto velocemente. Percepii la sua agitazione, ma non sapevo per cosa.

Il tutto, durò per un minuto. Circa. E fu intenso.

Feci un bel respiro e mi staccai da lei, dandole un altro bacio, sulla fronte, però. Ero fiero di me stesso. Tutto era andato per il meglio, proprio tutto.

Anche lei si staccò da me e vidi che aveva gli occhi lucidi. Non riuscivo a capire la sua espressione, nel mentre ero già rassegnato all’idea di doverla lasciare andare, momentaneamente. Mi feci forza e le sorrisi, nel mentre lei si aggiustò i vestiti e s’avviò verso il portone di casa sua.

 

«A domani mattina» – Le dissi dolcemente.

«A domani mattina» – Mi disse dolcemente.

 

Solo al suo chiudersi, decisi di tornare a casa. Con la dovuta attenzione. Con in mente, tutti i momenti salienti della serata, sopratutto il momento in cui, stavo per perderla per sempre. Della serie: ragazzo deceduto durante un accoppiamento furtivo.

M’ero scordato di dire che nell’intera via del ritorno, azionai anche l’aria calda per sbrinare il vetro e ripristinare la visibilità: non siate in macchina a lungo senza essere sicuri di vederci. Soprattutto quando dovrete accompagnare la vostra consorte a casa sua.

Tornai a casa, avendo fatto tutte le accortezze del caso e mi stesi sul letto. Gli occhi non volevano saperne di chiudersi da soli. Rimasi a guardare il vuoto, e con il sorriso a trentaquattro denti: l’adrenalina era troppa, anche se non mi sarei mosso da sotto le coperte. Non avevo neanche fame, ma decisi d’andare a ispezionare, comunque, il frigo. Un panino lasciatomi dai miei, ma tanto non m’avrebbe neanche fatto troppo male: di solito, o mangio con loro, o mangio il giorno dopo. Mangiai e tornai in camera, ma continuavo a non riuscire a dormire: l’adrenalina era troppa, per poterla scaricare in una sola notte. Per me. Finalmente ero legato alla ragazza dei miei sogni e avrei fatto di tutto per renderla felice.

Mi svegliai, ritornando alla realtà e smettendo di ricordare.

M’accorsi anche di dover andare urgentemente in bagno, ma nell’alzarmi non riuscii più a muovere le braccia. Di nuovo la paralisi, pensai. Anche le gambe mi si irrigidirono, più fredde del marmo. Ecco la conferma, pensai. Cercai di non agitarmi, ma non ci riuscii. Non riuscivo più a muovermi. Del tutto. Solo il cervello sembrava funzionare. Infatti, la disperazione vi fece capolino, tanot che pensai d’essere spacciato, che finalmente, o sfortunatamente, la morte m’era venuta a fare visita. Ma anche no, però furono minuti di panico non dimenticherò molto facilmente, tanto sono stati al cardiopalma. Poco dopo, anche le palpebre s’abbassarono. Non capivo il perché mi stava succedendo tutto questo: ci pensai per qualche minuto, ma non incominciai più neanche a sentire quella maledetta musica. Anche l’udito si spense. Più ci pensavo e più mi accorsi che m’era impossibile anche il più semplice ragionamento. Tutto si stava per spegnere: forse. Naturalmente ero ancora nel mio letto a pensare alle mie ultime parole, ma non mi veniva altro che un sordo Hippy hai yié.

Più pensavo che sarebbe stata la mia ora e più mi sbagliavo. Il cervello si riprese e fu tutto un piccolo sollievo: solo un falso allarme.

Ero sempre steso su quel maledetto letto. Più morto che vivo. Immobile, per colpe nemmeno mie: passò un anno preciso dall’incidente che mi conciò per le feste. Il mio cervello divagò ancora tra le poche gocce di memoria, utili soltanto per essere rimpiante. Ero sempre lì, nel cercare di rimembrare ancora il suo volto, quasi sfocato nella mia mente, perché ormai ero quasi nel mondo dei sogni.

Diciassette anni. Avevo. Lì.

Era il mio primo anniversario con Amber.

Era riuscita a sopportarmi per un anno, tu pensa.

In quest’ultimo anno, tutto procedette per il meglio. La malattia sembrava sotto controllo, la scuola era solo il posto folle in cui vi sono persino ragazze che si vogliono suicidare e i miei erano semplicemente i miei. Ormai non si parlavano quasi più e nella mia vita, erano più presenti con i post–it che con i messaggi vocali. E per lasciarmi i soldi per la benzina. E il mangiare: l’avevo dimenticato.

 

Tutto tranquillo, dunque: fino a quel giorno.

Pensai di portarla a cena fuori, con tanta felicità ed amore nell’aria. Quella sera decidemmo, alla fine e per fare uno strappo alla regola, d’uscire a cena fuori: si preferiva studiare la sera ed uscire di più il pomeriggio. Ogni tanto stava da me ed ogni tanto stavo da lei: tutto si viveva serenamente. A scuola era sempre la stessa solfa, ma imparai a mantenere una certa calma, tanto che feci in modo che nessuno ci provasse con lei e cercai anche di fermare qualsiasi avanche nei miei confronti: il tutto era molto tranquillo, in poche parole.

Quella sera ero sveglio, perché avevo dormito il pomeriggio: volevo evitare il sonno durante la guida. Sempre stesso orario: nove da lei. Tutt’e due stavamo crescendo: ero consapevole che non sarebbe stato per sempre, a discapito della mia ovvia impredevibilità ed anche se controllavo il tutto con visite settimanali dal medico, non mi sentivo mai al sicuro. Riuscimmo ad uscire: la portai in un ristorante che sapevo essere in zona: una specie di bisteccheria, che univa i vari metodi di preparazione della carne d’altri paesi. Mangiammo senza interruzione, tanto che il mio stomaco voleva battere le mani a terra, giusto per segnalarmi che s’era arreso, e anche lei si dimostrò una buona forchetta. Quattro bistecche ognuno, tu pensa. E meno male che lì c’era il all you can eat, quella sera. La stessa sera, ero intenzionato nel rinnovarle la promessa d’amore che le feci solo l’anno prima, ma s’era fatto tardi, tra abbuffata e passeggiata in macchina. Si fece tardi: quasi l’una del mattino. Poche ore e ci saremmo dovuti svegliare entrambi per andare a scuola, e non ce l’avremmo fatta se ci fossimo trattenuti. Un bacio delicato, quasi effimero, sancì la fine di quella serata. Sulla via del ritorno, nell’ultimo incrocio a croce prima di casa sua, il semaforo segnava verde. Non c’era nessuno, oltre a noi: troppo deserto e forse era solo una casualità. Era soltanto una mia sensazione, ma avevo come il sentore che qualcosa di storto mi sarebbe accaduto da lì a poco.

 

«Awn, ho sonno» – M’apostrofò, assopendosi quasi sul sedile.

«Tra poco siamo a casa, non preoccuparti» – Le risposi dolcemente.

 

Parole famose, le mie. Attento alla guida, decisi di rallentare, per vedere se qualche idiota si sarebbe divertito a fare pazzie.

Avendo il verde, passai. Osservando anche la strada, nell’intento di capire se vi fosse qualcun altro.

Nessuno, ad inizio della strada in comune.

Un metro più avanti, anzi due. Vidi che alla mia sinistra, due luci procedevano, verso di noi, a tutta velocità. Potenti come fari, accecanti e abbaglianti. Anche quelli stava usando, lo scellerato. Tanto che fu, tutto, veloce e immediato.

 

Boom.

Bastò una botta sulla mia portiera, per farmi perdere il controllo dell’auto e urtare, con la fiancata destra dell’auto, il gard rail posto a poche decine di metri da me e sul lato orrizzontale della strada: calcolai che l’altra macchina stava viaggiando sui centoventi km/h, per un incidente del genere. L’urto era stato potentissimo. Il fragore, m’entrò nelle orecchie. Non riuscivo nemmeno pià a pensare liberamente e anche i timpani s’erano chiusi, da una bolla d’aria e l’unica cosa che sentivo era un brusio. Era tutto al rallentatore, per qualche secondo, nel mentre, la macchina stava slittando verso il gard rail. Non ero in me stesso, con così tanti problemi tutt’insieme e nello stesso momento, tanto che i numerosi testacoda che fece la macchina, prima di schiantarsi, non erano nulla, alla sensazione e al dolore, che avrei provato se l’avessi persa. E infatti, la prima cosa che feci, fu quella di sincerarmi delle nostre condizioni. Il rumore delle gomme, graffianti l’asfalto, il mio lasciare subito l’acceleratore e premere il freno, non impedì alla macchina d’andarsi a schiantare. Già pensavo a tutto quello che sarebbe successo. In quel momento, l’unica cosa che capii, era che ero ancora vivo. Respiravo a fatica, nel mentre cercai anche di capire le condizioni della mia consorte. Temetti il peggio, anche se avessi realmente paura che accadesse il peggio.

 

«Che cavolo è stato… stai bene, Amber?» – La chiamai, agitandomi.

 

Nessuna risposta da parte sua: osservandola meglio, vidi che aveva urtato il cruscotto della macchina ed erano scattati entrambi gli air bag. Nessun livido, ma aveva perso conoscenza. La macchina non voleva saperne di partire, e nel mentre cercavo d’avviare il motore, percepivo anche una strana puzza di bruciato e la lasciai stare. Non ero credente, ma iniziai a pregare che qualcosa risolvesse la situazione: come gesto disperato. Avevo il torace compresso dalla mia portiera e mi faceva male, ma ci chiudemmo dentro per evitare che le cose potessero peggiorare. Ci stavamo trovando dentro uno di quei polizieschi o di paura, in cui sembra essere deciso a tavolino da qualche strano archidetto, ma questa volta, nulla lo sembrava essere. Deciso, intendo.

 

Nel frattempo, eravamo già fermi, mentre riuscii a notare che anche l’altra macchina aveva subito dei danni. Non come i nostri, ma il guidatore ci mise un po’ ad uscire. Giusto tre minuti. Scese dalla macchina una grossa ombra. Non riconobbi nessuno di mia conoscenza, tanto che mi domandai chi diavolo potesse viaggiare, a quella velocità assurda, su una strada molto vicina a un centro abitato: non ci misi molto ad avere la risposta. Non c’era nessun altro sulla strada. Macchine, passanti: nessuno. Infatti eravamo in baliia del nostro stesso destino. Sarebbe stato una perfetta scena filmica, su di un duplice omicidio. Dunque, l’uomo, corrispondente al nostro attentatore, s’avvicinò lentamente verso di noi, mentre non vidi altro perché la poca luce non lo permetteva: feci un calcolo su quello che avrei potuto ancora fare. La paura cresceva sempre di più, in me. L’unica cosa che feci, di nuovo, era quella di chiudere la chiusura automatica, per rimanere al sicuro e dentro la macchina.

Per altro, avrei atteso i soccorsi: insomma, chiunque potesse salvarci in quel drastico momento. Sopratutto perché non stavo bene: la portiera mi premeva sul fianco e respiravo a fatica.

 

«Vi siete fatti male? Non ho visto voi e la luce rossa del semaforo: ero distratto, scusatemi, non volevo farvi del male» – Disse l’uomo, non molto riconoscibile.

 

Non risposi. Aspettai semplicemente che s’avvicinò alla nostra macchina, che non aveva subito molti danni, ma quei pochi erano gravi: il fianco sinistro, ossia il mio, era enormemente danneggiato ed era un miracolo che non si fosse distrutto. Il tettuccio s’era anch’esso ammaccato verso l’interno e m’accorsi che anche la fiancata posteriore era danneggiata per l’urto contro il gard rail: la chiusura centralizzata e i finestrini furono le uniche cose a rimanere davvero integre, in pratica; la macchina del nostro attentatore era una specie di jeep, per cui lui ne uscì indenne. Forse s’era preso uno spavento. Lo stesso cge mi stavo continuando a prendere perché Amber non si stava svegliando e dunque, non ci mise molto a divenire terrore. Il cuore pulsava, tanto. Tra il petto ed il fianco, non sapevo cosa mi facesse più male e nel mentre, lui arrivò di fronte al mio finestrino: sgranai gli occhi.

 

«Cosa… sei qui?» – Dissi sbalordito, quasi incredulo.

«Cosa… sei qui?» – Disse sbalordito, quasi incredulo.

 

Il mio terrore crebbe a dismisura, in quel preciso istante.

Il nostro professore di matematica s’era schiantato contro di noi. Era l’unica cosa che subito capii dell’incidente: dal suo volto, nemmeno lui stava credendo a quello che era appena successo e il mio respiro prese una bella accellerata.

Avrebbe potuto rompere il vetro, ma decise di recarsi immediatamente da lei, con passo veloce e frettoloso, per cui rimasi al mio posto. Gli feci segno di non entrare, lui non m’ascoltò nemmeno. Passando per davanti, ma non riuscendo ad aprire, capì che anche da lei, avevo bloccato la portiera. Provava ad aprirla, ma non riuscì a farlo. Tirò un pugno sulla portiera, ma tentò di nuovo d’aprirla dalla maniglia una seconda volta e sempre senza risultato.

 

«Apri la macchina, maledetto moccioso. Non stiamo a scuola: stavolta sono qui per aiutarti. Apri t’ho detto: lei è in pericolo» – Disse nervosamente e urlante.

 

Non gli risposi.

Rimasi dentro e non ero minimamente intenzionato a farlo entrare. Talmente che negli anni caricò questa sua perversione verso di lei, che in quel momento ebbi paura che potesse realmente abusare di lei: avevo la peggiore immagine di lui. Non aveva mai fatto nulla di buono per noi, oltre all’occupare dello spazio vuoto cronologicamente morto, con delle nozioni altrettanto noiose, e la sua morbosa mania, non mi fece pensare che potesse compiere un atto d’eroismo, nei nostri confronti. Ma solo il contrario: certe persone non cambiano mai.

Cercai di riposarmi un attimo. Non ci riuscii, perché non avrei voluto finire i miei giorni chiuso in una macchina per famiglie.

Il lupo era sempre più arrabbiato, mentre cercava d’inveire contro di me, senza spiegarmi il motivo di così tanta agitazione, ma scelsi di non dirgli che avevo già chiamato i soccorsi e lì aspettai.

 

Era visibilmente infastidito, mentre si passava la mano destra sulla faccia per cercare di capire come entrare senza peggiorare le cose. Andava nervosamente avanti e indietro dalla nostra macchina. A un certo punto, con la follia negli occhi, lo vidi soltanto ritornare verso la sua macchina. Erano già passati circa dieci minuti, dall’incidente: non ce la feci più, tanto che credetti subito nella rottura del vetro da parte del professore e i conseguenti guai.

 

«Ricorda, mi hai costretto tu a farlo… io non vorrei farvi nulla di male, anche se voi mi avete costretto a farlo!» – Disse nevroticamente.

«Lasciala stare!» – Gli dissi allarmato.

«È per il suo bene, lasciala a me!» – Mi disse, sempre alterato… nervoso e un po’ schizzato.

 

Tornò, dopo qualche minuto, con un piede di porco e la follia glielo fece usare per sfondare il finestrino dietro al posto di Amber: forse per cercare poi di prenderla. La tensione raggiunse il massimo quando riuscì a sfondare il vetro e allungare la mano verso Amber, ma qualcosa… o qualcuno, apparve davanti a noi, dal nulla. Come se si fosse teletrasportato qui, non so se vi sto rendendo l’idea.

 

«Ma che cavolo!» – Asserì il professore, colpito da qualcosa.

 

Vidi soltanto un ombra, spingerne un altra verso il nostro attentatore. La luce della Luna me ne rilevò i contorni. Alto sul metro e novanta, massiccio e con un impermeabile nero. Capelli leggermente lunghi: come pelo di un lupo. Il nostro professore ebbe una strana espressione, come se non ne fosse per nulla contento: un’autentica smorfia per un’autentica gatta da pelare. E cadde a terra, con il il piede di porco usato per sfondare il vetro della macchina usato per tagliare la cintura di sicurezza di Amber, finito anch’esso a terra. Il nuovo figuro lo spinse via con un calcio, dato che riuscì a non cadere anche lui. Dopo circa un minuto, anche il suo avversario si rialzò.

 

«Ti conviene stare giù e arrenderti senza opporre alcuna resistenza!» – Intimò al professore, con voce autoritaria, il nuovo arrivato con l’impermeabile nero

«E se non lo facessi?» – Chiese il professore, con voce provocatoria, e mentre raccolse l’arma appena persa.

«Dovrai passare sul mio cadavere, per avere questi ragazzi!» – Asserì il nuovo arrivato, con l’impermeabile nero.

 

Il professore si diresse verso di lui, con animo guerriero e brandente un piede di porco, ma il nuovo arrivato non sembrò scomporsi, anzi si posizionò per combattere. Alzò semplicemente i pugni e lo guardò attentamente. Poche decine di passi, da parte dell’attaccante, ci vollero per raggiungerlo, ma nel cercare di colpirlo, il nuovo arrivato evitò il colpo con una semplice schivata alla sua sinistra e mollò un destro micidiale sulla mandibola del suo avversario. Come una catapulta, o catapugno. E crollò a terra, il professore. Senza battere ciglio, ma si rialzò e usando l’arma come sostegno, incominciò a ridere a crepapelle, e si diresse verso di noi, ma il nuovo arrivato si recò subito da lui e bloccò a terra. Semplicemente prendendolo per il colletto del giubbotto e tirandolo a terra.

 

L’attimo dopo, il nuovo arrivato, si scagliò sopra il corpo del professore e fece per mollargli un pugno in pieno volto.

Però non vidi nulla, perché un altra ombra si frappose tra noi e il sicuro pestaggio, di cui se ne sentì solo il rumore delle nocche schiantarsi contro le ossa della mascella del suo avversario. Un solo pugno, gli bastò per fermarlo del tutto, ma un’altra figura, più slanciata, ma non più alta e massiccia, del primo nuovo arrivato, questo aveva l’impermeabile color cuoio. I suoi occhi mi fecero quasi paura, ma la sua espressione era più di sorpresa nell’essere stato provvidenziale che sorpreso di vederci ancora vivi. Stranamente mi fidai di lui quasi subito, anche perché avrebbe potuto fare quello che voleva, da chiunque parte stesse e qualunque intenzione avesse.

La loro intromissione divina o provvidenziale, mi fece continuare a sperare che i miracoli esistevano, dopo tutto il tempo speso ad odiare la vita. Respiravo ancora, nel mentre decisi di non muovermi e solo ora, cercai di tirarmi il corpo di Amber più verso la parte sinistra della macchina e di pormi in modo da proteggerla.

 

«Scusateci se abbiamo fatto tardi, ma non vi abbiamo trovato negli altri trenta posti dove sareste potuti essere in questo preciso istante. Tu dovresti esssere James e quella svenuta dovrebbe essere Amber. Se si, siamo qui per salvarvi da questo squilibrato e vuol dire che siamo sulla pista giusta.» – Asserì il nuovo arrivato, sprizzando energia ed eccentricità da tutti i pori.

 

Annuii con il capo e riuscii stranamente a tranquillizarmi, ma il mistero di come due tizi mai visti prima potessero conoscermi, sarebbe rimasto irrisolto per molto tempo; cercai d’avanzare qualche ipotesi, ma nessuna arrivò alla reale motivazione. Però capii dalle loro uniformi, che erano dei detective, o qualcosa di simile e pensai che avrebbero potuto portare il professore verso la caserma.

Mentre il tizio con l’impermeabile marrone ci sorvegliava, l’altro teneva fermo il professore e dopo uno scambio di sguardi simultaneo tra i due detective, il nostro sorvegliante prese un cellulare, da una delle tasche. Costavano molto, circa quattromila dollari, per cui presunsi che abbiano molti soldi e che dagli avvenimenti, mi sia trovato in mezzo a qualcosa di gran lunga più grande di noi due. Era solo una sensazione. Chiamarono i soccorsi, sia per noi e sia per la loro vittima e nessuno avrebbe contestato l’aggressione, per difendere chi non può farlo da sé.


 

Dalla macchina di prima, mentre feci in modo di frappormi tra lui e lei, vidi un uomo scendere. Aveva un impermeabile, nero come la notte, ed era illuminato soltanto dalla fioca luce dei lampioni e dalla luna… piena. S’avvicinò al nostro attentatore, mentre lui gli diede un’occhiata cattiva… quasi spontanea. Non si fermò nel cercare di prendere Amber, ma approfittai per posizionarla sui sedili posteriori… lato guidatore, proprio per evitarle altri traumi ed anche io feci in modo di starle vicino, mentre il nuovo arrivato lo stava distraendo.

 

––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Da dentro la macchina, vidi l’uomo con l’oscuro l’impermeabile rimanere fermo davanti al nostro aggressore. Gli intimò di poggiare l’arma a terra, forse era un poliziotto o chissà cosa di simile; mi feci forza, mentre lei si riprese.

 

«Che è successo… dove siamo?» – Mi chiese Amber, ancora frastornata.

«Siamo vicino casa tua… abbiamo subito un incidente. Adesso rilassati, sono arrivati i nostri e ci sono io con te… come ti senti?» – Le risposi dolcemente.

«Mi fa tanto male la testa… i nostri chi?» – Mi rispose dolorante e toccandosi la testa.

«Un uomo con un oscuro impermeabile… capelli corvini e una voce tuonante; adesso sta bloccando il nostro attentatore e ho già chiamato i soccorsi, per cui tra poco sarà tutto finito!» – Le risposi, anche adesso, dolcemente.

 

L’uomo con l’oscuro impermeabile era lì, più inferocito di un cane trovante la preda, mentre il nostro attentatore farfugliava qualcosa di confusionario: forse su di noi o su se stesso, nel mentre si dimenava e gli tremava il braccio; fece per avvicinarsi a lui l’uomo con l’oscuro impermeabile, il professore si scagliò su di lui con il coltello, ma crollò a terra solamente dopo aver subito un pugno in pieno volto dall’uomo misterioso.

 

«Non immaginavo che fossero perfino protetti dalla polizia» – Parlò quasi con disappunto, il nostro attentatore.

 

Il nostro attentatore svenne, dopo qualche decina di secondi successivi al colpo, mentre anche l’ambulanza e un’altra pattuglia della polizia, arrivarono; solo in quel momento, sbloccai la sicura della macchina e ci tirarono fuori senza molti problemi. Ci tirarono fuori dal sedile posteriore, ove eravamo noi e nel mentre vidi che un poliziotto mise le manette al nostro attentatore. Non vidi altro, perché entrammo entrambi nell’ambulanza: da lì non vidi più l’esterno, nemmeno l’alba del giorno dopo.

Ci addormentarono.

 

In ospedale, ci risvegliammo in un letto… io nel mio maledetto e attuale letto. Chiesi di lei, ma i medici mi risposero che i suoi avevano avanzato la richiesta per cui non dovessi più vederla: a loro giudizio, ero molto pericoloso per la loro bambina. Ero frustrato, ma decisi di non rassegnarmi e cercai di guarire, ma non mi fecero uscire per via della mia malattia degenerativa… per lei, soltanto due settimane e uscì.

Non seppi più nulla del mondo esterno per un pò.

Erano passati due mesi da allora: il mio travaglio non era ancora finito. Mi ritrovavo ancora su quel letto, ritornando alla realtà per l’ennesima volta. Giunse la sera, nel frattempo. Le sette erano appena passate… lo vidi sull’orario del cellulare. La porta s’aprì. Nella mia stanza entrò un figuro, esibendo un badge della polizia. Aveva un’impermeabile nero e solo allora focalizzai: era quello che ci salvò dal nostro attentatore. Non era molto espressivo, infatti mi guardò per un attimo e si sedette sull’unica sedia in quella stanza. Mi guardò preoccupato, forse per qualcosa che sicuramente non sapevo, ma di cui provò a parlarmi.

 

«Buonasera James, io sono il detective Foulieur: io so chi sei e tu sai chi sono io e questo credo sia un inizio. Il perchè sia passato da te solo adesso è perché volelo assicurarmi che ti fossi rimesso, prima di una testimonianza valida per un processo… oltre al fatto che il suo avvocato stava rendendo impossibile la sua detenzione e adesso, tramite prove schiaccianti come l’attentato nei vostri confronti: andrà in galera. Vorrei sapere la sua metodologia… come faceva ad adescare le sue vittime… se lei ne è a conoscenza o ne ha avuto soltanto una percezione di ciò, fino a che è stato presente in classe» – Mi chiese il detective, quello che io erroneamente rinominai l’uomo dall’oscuro impermeabile. La sua voce era calda e rassicurante, forse perché ero un povero malato terminale.

«Mi perdoni, so che è il suo lavoro… vorrei farle soltanto una sola ed unica domanda, io a lei: come ha saputo di questo professore?» – Gli chiesi, solo per curiosità e perché sarebbe mancato solo questo elemento a tutta la storia.

«Me l’ha detto una persona che conosciamo entrambi. Non credo che ti abbia parlato prima di me soltanto per non creare incomprensioni tra di voi, infatti si è confidata con me soltanto per il caso. Adesso potresti rispondere alla mia domanda?» – Mi rispose davvero preoccupato.

«Usava battute allusive del tipo: inseminare il seme della conoscenza. Non si sbilanciava… almeno in classe: venni a conoscenza di alunne che ebbero delle ripetizioni private da lui e ottennero voti eccellenti. Per il resto, sono felice che sia finita bene, anche se mi avrebbe potuto accennare che ti conosceva» – Gli risposi sospettoso e rimembrando cose già successe in passato.

 

Il detective mi ringraziò, poggiando anche la mano destra sulla sedia. Non rimembro molto di lui, ma quello che mi sorprese era il suo sguardo ardito e pronto a combattere qualsiasi battaglia che gli si sarebbe posta davanti.

 

«Per qualsiasi cosa, sai dove contattarmi!» – Mi salutò, sembrante andare via quasi di fretta.

 

Lasciò la stanza di fretta, quasi fosse agitato. Non ne conoscevo il motivo, ma quel che contò era fare chiarezza sul caso. Non feci caso all’odore acre che era entrato nella stanza, qualche minuto dopo. Era pesante: appesantiva l’aria. Più che acre, sembrava uguale al brutto odore di uova marcie o dello zolfo e mi sentii strano: improvvisamente non riuscii più a muovermi… anche gli occhi mi si chiusero. Quando li riaprii, notai solo una donna ricoperta vestita con un grande saio nero e brandente una falce… era di fronte a me e m’osservava. Ci misi un po’ di tempo nel capire che mi trovavo al cospetto della morte: la guardai e lei guardò me. Stavo morendo, questo m’era chiaro. M’indicò ed io mi sentii fiero d’ogni mia scelta: giusta o sbagliata che fosse. Ero di fronte alla morte e avevo persino la tenacia di tenerle testa, ma sentivo che non ci sarei riuscito per molto.

 

«Sai cosa devi fare… fallo in fretta!» – Mi dissi, nella mia mente.

«Morire?» – Parlai ancora, pensando ad una risposta della morte.

«Fai in fretta che non ho tempo: adesso ti porto via con me!» – Mi risposi, forse, nella mia stessa mente.

 

Era come se avessi esteorizzato ogni mia preoccupazione nel dover morire e lei fosse arrivata per risolvermeli… non ci stavo capendo più niente… ero ancora bloccato, quasi potessi andare avanti solo con la fantasia ed ero quasi felice di questa mia condizione: non ne potevo più d’attendere; mi sentivo come quel tale che avrebbe voluto raccontare una barzelletta alla morte, ma sapevo che non ne avrei avuto il tempo… la pensai, almeno per non fare brutte figure; non che volessi morire, ma solo per il fastidio dell’attesa: all’improvviso mi ricordai di un libro che affermava che, in punto di morte, se il corpo e l’anima fossero collegate da un rimpianto, l’energia della propria anima non si sarebbe dissolta fino a che non si fosse risolto il proprio compito.

Era sempre lì, a sfidarmi e io ero sempre lì, a sfidarla. Non si poteva fare altro. Era tutto fin troppo strano, per me.

 

«Hai un ultimo desiderio prima di lasciare definitamente questo mondo?» – Mi chiese, con la sua voce cavernosa e raschiante e sempre dentro la mia mente.

«Vorrei soltanto sapere cosa mi lega ancora alla vita!» – La fissai, rispondendole sempre nella mia mente.

 

Sapevo la risposta, in realtà. Non volevo accettare d’andarmene per sempre senza averle nemmeno detto nulla. Non mi sentivo ancora del tutto pronto, in realtà: ecco perché non mi riusciva ad uccidere. Ero io a dirmi di resistere a tutto, forse. Decisi di rilassarmi. Avevo chiuso gli occhi da qualche minuto, sentì la porta aprire e sentì una voce lontana, ripresa da qualche ricordo troppo lucido per essere così tanto importante nel mortal sospiro, che mi chiamava per nome e appena cercai di ritornare con il cervello lucido e con gli occhi aperti… in circa decina di secondi, la vidi che mi stava osservando e capii che forse non ero più pronto per morire.

 

«James? Ci sei?» – La voce di Amber risuonava squillante in quell’antro buio, verso l’interno della stanza.

 

Capii che i miei sentimenti erano davvero puri e sinceri: nonostante fossi solo un moccioso, mi resi conto d’essere realmente capace d’amare qualcuno e che la mia relazione con lei non era solo egoistica, ma aveva un fondamento solido che potevo realmente sentire.

 

«Scusami per il ritardo, ma ho dovuto aspettare che i miei uscissero di casa: lo sai che non mi avrebbero mai permesso di passare da te. L’incidente li ha resi restii a farci incontrare» – Sentenziò, con la sua vivace vitalità e il solito sorriso dolce stampato sul volto.

 

Mi abbracciò senza fare troppe domande, nel mentre mi misi comodo sul letto. Mi sentii vivo, per via del calore umano che mi stava trasmettendo; sentivo di non volermi mai più staccare da lei; perché volevo farle capire che l’amavo, l’ho amata e l’amerò per sempre: persino più di me stesso e non volevo che il mio ultimo e sospirato momento di pace assoluta finisse per colpa della morte. Che rimase lì, intenta nel guardarci… in un silenzio tombale.

Passarono i minuti, nel mentre decisi di voler essere sincero per l’ultima volta.

 

«Prima è venuto il detective Foulieur e mi ha detto che ha conosciuto il caso del pervertito grazie ad una testimonianza anonima… da qualcuno che sia io e sia lui conosciamo. Mi chiedevo se tu ne sapessi qualcosa a riguardo» – Le chiesi, senza fare troppe domande.

«Forse…» – Mi rispose, quasi di getto.

«Quindi… si, no o forse… cosa?» – Le chiesi di nuovo, cercando di capire.

«Aveva un’impermeabile nero e uno sguardo di fuoco: non ci si sbaglia mai nel conoscere uno come lui. Si o no, due sono le risposte» – Le chiesi, in cerca di certezze… stavolta.

«Lui… lo conosco. Lo incontrai alla stazione di polizia due giorni dopo averti conosciuto: mi recai lì perchè sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in tutta la situazione… volevo chiedere. Mi disse solo che ci avrebbe pensato lui, niente di più. Te l’avrei detto, ma non volevo che ci fossero incomprensioni tra noi» – Mi rispose risoluta.

«Non preoccuparti, Amber. Semplice curiosità» – Le risposi senza scompormi, felicemente e senza malizia.

 

Passarono poi cinque minuti d’intimità, ma per il resto del tempo sentivo che il mio corpo stava cedere e non c’era nulla che potessi fare: l’unica cosa giusta da fare sarebbe stata quella di morire e basta: anche se fossi dovuto rimanere nel letto… paralitico o peggio, per chissà quanti anni… sarei rimasto soltanto un morto che avrebbe cercato di vivere solo per rimanerle accanto. Staccai le mie labbra dalle sue e ripresi un attimo fiato: che non è che mi rimanessero chissà quante energie. La guardai negli occhi… color smeraldo, rimembrando solo ora il motivo per cui me ne innamorai troppo velocemente e senza chissà quanti dubbi: credevo potesse salvarmi dal Nirvana, semplicemente bussando alle porte del paradiso.

Approfittai anche per salutarla, sebbene fossi molto affaticato e lei mi guardò preoccupata; non mi lasciava, stringendomi forte a se: senza però farmi male.

Mi sentii addosso un tale senso di malinconia, comparabile soltanto quando il primo giorno di scuola la lasciai per tornare a casa. Le sentii il cuore palpitare molto velocemente. Il mio fisico riuscii soltanto a muovere solo la bocca e i muscoli facciali, così da permettermi ancora di poterle parlare: non c’era molto da dire, ma ancora meno tempo da poter trascorrere insieme. Capendo la mia paura, mi toccò il viso dolcemente e riaccostò il suo viso al mio per cercare di baciarmi, ma questa volta non riuscii a rispondere al suo dolce invito: il mio corpo era bloccato e non si sarebbe mai più mosso. Anche la morte sembrava aspettare e stava quasi per andarsene, mentre avrei potuto solo parlarle: avevo il cuore a mille, ma la gabbia toracita era più piccola e cercava di contenerlo. Ad ogni battito, era una terribile fitta e il sangue non riusciva più a fluire nel resto del corpo per portargli le proprie risorse. Tutto questo faceva male, molto male: avrei voluto un altro finale, ma il mio finale sarà soltanto uno.

 

«Ho due notizie buone e una cattiva… te le dirò in ordine così potresti trovarci anche un buon finale!» – Le sussurrai queste parole, con tono roco e tranquillo.

«Dimmele, ti prego» – Mi chiese, preoccupata e con le lacrime agli occhi.

«Adesso muoviti!» – Mi disse La Morte, sempre parlando nel mio cervello.

 

La Morte reclamò la mia anima, sembrava attendere con ansia.

Amber ebbe un’espressione al quanto preoccupata, per cui mi rese ancora più difficile il tutto: non riuscivo mai a parlarle quando mi fissava, quindi cercai di spiegarle tutto in modo da non dovermi poi ripetere.

 

«Prima notizia buona: io ti amo e ti amerò per sempre. La seconda… la cattiva è che sto per morire. La terza, che è quella più importante di tutte, è che grazie al nostro amore, rimarrò sempre nel tuo cuore!» – Le risposi quasi rassegnato, ma pieno di speranza.

 

Cercai di parlare, ma non ci riuscii: avevo la gola molto secca.

Lei si rattristò. Mi sa che fosse già pronta a lasciare andare, ma la consolazione che sarei stato per sempre con lei, forse le sarà di conforto anche per non sentire l’inesorabile malinconia del momento.

Erano passati già dieci minuti dal suo arrivo… di Amber… mentre l’immobile morte esigeva la mia anima. Le venne da piangere, ravvivando il colore dei suoi occhi: anche a me venne da piangere, ma ne scese soltanto una. Il nostro era un addio, tanto che avvicinò le labbra alle mie e ci demmo l’ultimo bacio.

 

«Ti amo!» – Le asserii sottovoce.

«Ti amo anche io!» – Mi disse tra le lacrime.

 

M’abbracciò… anche per cercare di sentirsi più forte e accompagnarmi verso la morte, in quelli che erano i nostri ultimi minuti insieme: non avrei potuto fare niente per consolarla. Dovevo andarmene e lo feci nel modo migliore. Non ebbi idea di quello che sarebbe successo: desideravo solo stare con lei.

Con questo atto di profonda passione, anche La Morte si accorse che si stava facendo tardi, per me: credo che talmente che credevo nella morte, che le diedi una vita io stesso, ma non saprò mai se esisterà qualcosa di simile alla morte che avevo… purtroppo… davanti. Solo un saluto mi separava da lei, che ormai stava diventando sempre più lontana.

 

«Possiamo andare!» – Dissi alla morte, pieno delle mie facoltà mentali.

Nessuna risposta da parte sua.

 

Prima di lasciarla per sempre, cercai di darle il mio cuore, ma non volevo farla più soffrire: speravo che continuasse la sua vita, in fondo ero e sarò soltanto il suo amore giovanile. Prima o poi, si sarebbe dimentcata di me: preferii dirle tutto la sera in cui ci siamo messi insieme, anche per ripulirmi dalla coscienza dal senso di colpa: volevo soltanto essere sicuro che la ragazza della mia vita mi amasse o meno… peggio, mi considerasse solo un amico fidato: friendzonato, in pratica.

 

«Andiamo, è ora!» – Mi disse la morte, dentro la mia testa.

 

Esalai il mio ultimo respiro. Lei m’abbracciò dopo soltanto un secondo. Le sue lacrime inumidirono il mio volto. Mi baciò sulla guancia. Mi sorrise e anche io le sorrisi.

Chiusi gli occhi.

Finalmente.

 

«Fino a che lei t’amerà, tu starai con lei. Non riuscirei comunque a portarti via con me: si vede che cercheresti di tornare da lei, in qualche modo. Aspetterò che il vostro legame si dissolverà, ma dovrà essere lei a farlo. Ti farò comunque un regalo: ti libererò del corpo, perché dovresti morire comunque» – Mi disse La Morte, nel mio cervello.

«Grazie di tutto e addio, amore mio!» – Mi sussurrò dolcemente nelle orecchie.

 

La morte m’aveva raggiunto: finalmente.

Lei se ne accorse, anche dal suono lineare del cardiofriquenzimetro. Un altro dolce bacio, stavolta sulle labbra, m’accompagnò per la via dello Stige.

Uscì dalla porta.

 

«James è appena morto!» – Urlò, in lacrime.

 

Il dottore con i baffi alla Danny Treyo l’ascoltò e si diresse dentro la stanza, di fretta… era visibilmente agitato, nel mentre chiamò i miei… che ci misero soltanto una decina di minuti ad arrivare: entrarono e addolorati piansero la mia salma. Era evidente il loro dolore, ma non avrei potuto fare niente per alleviarlo. Non ebbi nemmeno il tempo per rilassarli, ma Amber preferì andarsene e ho dovuto seguirla.

 

«Amber?» – Le sussurrai nell’orecchio.

«James?» – Chiese, sicuramente per lo shock.

«Non è un’allucinazione: devo dirti una cosa molto importante!» – Le sussurai, sorridendo.

«Sei tu? Perché ti sento? Cosa sta succedendo?» – Chiese ad alta voce.

«Non urlare, ti sentiranno!» – Le dissi.

«Va bene, ma come mai ti sento?» – Mi chiese, a quel punto.

«Non lo so, ma credo che l’energia spirituale non sia svanita del tutto. Non so come sia successo, ma finalmente sono libero dal mio corpo: me lo ha detto La Morte; in pratica, ha realizzato che avrei fatto qualsiasi cosa per rimanere con te e » – Le sussurrai esaltato.

«È fantastico!» – Mi sussurrò felicemente.

 

Non era necessario che parlassimo con la voce: potevamo parlare tramite il nostro cervello, da quel che capii poco dopo. I suoi genitori non sanno che sono a conoscenza delle cattiverie che dicono… ancora… di me.

 

«La sfortuna è quella che ci aspettiamo sempre, ma guadagniamo molto di più quando accade l’insperabile: la fortuna!» – Asserii, citando un vecchio amico.

 

Amber mi guardò con occhi spalancati. Provai d’abbracciarla e ci riuscii. Provai a baciarla sul collo. Feci dei tentativi, ma senza risultati… fino a che non riuscii a concentrarmi, riuscendoci: solo allora, capii che avrei potuto toccarla. Non ero del tutto inconsistente: raggiunsi la consapevolezza che l’amore vero è una delle poche cose per cui vale realmente la pena di vivere, ma io che ho sofferto di una malattia terminale, ho potuto amare: effimera la vita.

Uscimmo dall’ospedale ed ognuno cercò di ritornare alle proprie vite, ma l’ultimo pezzo della storia avvenne quando entrai nei miei diciotto anni e più precisamente nel giorno in cui si compie la festa prima del periodo d’esame di maturità: un mese dopo la mia morte.

 

Tante cose erano cambiate… neanche tante: il nostro fantomatico professore era finalmente arrestato sia per l’omicidio pretenzionale ai miei danni e sia per gli atti di pedofilia, accertati con delle telecamere nascoste… di cui non sapevo niente… e testimonianze anonime: da quello che capii, rimase fuori dal carcere

fino al processo e alla mia prematura morte… perché prima era imputato solo per l’incidente e l’adescamento minorile, ovviamente accertati. In tutto il corso del processo, non si trovò un giudice che lo volesse condannare per quello che aveva fatto: lo venimmo a sapere entrambi… io e Amber, dal detective Foulieur,

che lavorò al caso. La causa venne gestita, alla fine, da George Eslar: giudice della corte suprema.

 

« Colpevole: con il massimo della pena… ergastolo» – Recitò il verdetto.

 

Il processo avvenne a soli due mesi dalla mia scomparsa, ma nel tempo in cui rimase libero, cercò di denigrare il mio nome, ma non gli servì a molto. Non ho voluto raccontare le discussioni tra noi due, perchè le stesse sarebbero state prolisse al fine di raccontare la mia tragicomica storia: finivano sempre con qualche stupida ammonizione, ma per via della mia ottima condotta con gli altri professori, s’iniziò a notare che il problema della mia strana condotta era riconducibile a lui.

 

Scattò l’omicidio involontario, perché l’incidente risultò come l’accellerante del decesso… oltre alla mia stessa malattia terminale, tanto che il suo odio nei miei confronti fu la scintilla per la sua degenerazione mentale; ma ci fu anche una parte monetaria, che consistette nel risaricimento ai miei per una somma pari alla metà del suo stipendio per cinque anni, oltre a tutte le spese processuali e l’ovvia rimozione dall’albo degli insegnanti; persino i miei stessi compagni di classe, quelli interessati a lei per la risoluzione delle proprie pulsioni sessuali, cercarono realmente di separarla da me… una volta venuti a conoscenza della mia morte… senza alcun risultato: ero morto veramente, secondo loro.

 

Imparai meglio a gestire meglio le mie piccole e nuove abilità; scoprii anche, andandomi a documentare, d’essere diventato un poltergeist e il risultato mi piaceva. Sentvo di doverla ringraziare… Amber… per quello che è stata per me; volevo mantenere… a tutti i costi, l’onerosa promessa che mi feci il giorno del nostro fidanzamento: che tutto quello che avrei fatto, l’avrei fatto per lei.

Fino a che non l’avrei fatta soffrire, sarei rimasto con lei.


V’è un ultimo aneddoto che vorrei portare alla vostra conoscenza: la festa del Mak P della nostra classe. Il tutto avvenne qualche giorno dopo la condanna e l’incarcerazione del nostro professore e infatti divenne uno degli argomenti della serata, ma quella sera, la sera della festa, lei mi rassicurò che sarebbe stata attenta. Per me, c’era qualcosa che non andava; erano fisicamente tutti presenti, tranne me: una ventina in tutto.

Tutti in festa.

Chiunque portò qualcosa: io la mia presenza e cercai di non essere invadente. Glielo promisi, ma rimasi con lei soltanto per assicurarmi che non le accadesse nulla di male.

La festa si fece nella casa di uno dei compagni di classe, fin troppo disponibile nell’ospitarci: mi sembra di ricordare che si chiamasse Harrison… un nome del genere, mi parve; vidi anche delle birre sui tavoli, ma era tutto normale: erano quasi tutti maggiorenni e gli altri volevano dimostrare di saperlo reggere.

Lì avevo già diciotto anni.

 

Mi sedetti e mi iniziai a godere la festa. Tutto era così strano, nonostante non trovavo l’utilità di una festa per cercare d’esorcizzare un esame. Nel frattempo, nel mentre ero in giro per i fatti miei, vidi Amber toccarsi più volte la testa e nel chiedergli il motivo, mi confidò che ogni tanto soffriva di mal di testa ed io mi sentivo malinconico per qualcosa di cui ignoravo la presenza; vidi che qualcuno dei nostri audaci compagni parlare con lei, ma erano abbastanza innocui: le chiedevano del più e del meno: di routine, in pratica. Non era nulla di così serio: tanto che anche lei era visibilmente tranquilla.

Forse, per la prima volta, pensai persino che mi ero sbagliato nel sospettare di loro. Tutto era tranquillo, ma stavo percependo una strana vibrazione attorno a me: non saprei come spiegarla, ma era come se sarebbe dovuto succedere qualcosa quella sera e decisi, per questo motivo, di rimanere a dormire con Amber: era meglio esserne sicuro.

Tra baldorie e pettegolezzi, si fece l’una di notte. Dalla ventina che eravamo, ne rimanemmo una quindicina perché gli altri cinque vollero sfidare la notte nel tornare a casa loro, inebriati delle gioie del dio Bacco. Anche quelli rimanenti lo vollero fare… inbebriarsi delle gioie del dio Bacco, ma nella casa di Harrison. Il padrone di casa era uno di quelli che non mi piaceva, forse per un mio strano pregiudizio personale, l’inserii nella lista dei persecutori di Amber. C’erano delle strane voci su di lui che avrei dovuto verificare, ma non volevo allarmare Amber… nel caso in cui non fossero risultate vere e avessi creato un putiferio, non me lo perdonerei mai: è troppo instintiva, più di me… quindi saprà il fatto suo.

Passsarono pochi minuti e si decise d’andare a dormire insieme. La casa era abbastanza grossa per tutti e quindici: divenne una grossa festa in pigiama, per far capire di cosa starei parlando.

 

«Buona notte, amore!» – Le dissi, prima di mettersi a dormire, dentro la sua testa.

«Buona notte, amore!» – Mi disse, prima di mettersi a dormire, dentro la mia testa.

 

Sonno profondo, il suo e per tanti degli altri partecipanti della festa. Sentii che qualcuno sembrava ancora sveglio. Mi feci un veloce calcolo su tutto quello che sarebbe potuto accadere quella notte e feci in modo che tutto potesse filare liscio: non me lo sarei perdonato, se qualcosa fosse andato storto. Uno dei nostri aveva l’insonnia, lo vedevo vagare, come un morto che cammina e altri che andavano ogni tanto a mangiare, bere ed a urinare. Tutto andava per il meglio: il mio progetto era quello d’attendere la mattina successiva, senza fare chissà cosa, se non starle vicino.

 

Rumore di passi verso di me. Non sapevo di chi fossero.

Preferimmo non dormire con gli altri della nostra classe: la notte giocava brutti scherzi, anche se volette rimanere in quella casa per volermi provare, a tutti i costi, che io mi stavo sbagliando nel riporre poca fiducia nelle persone che avevano accompagnato per cinque anni il nostro percorso scolastico. La feci fare, tanto sapevo che comunque avrei avuto ragione: ma solo per amore.

 

«Fate piano!» – Sentii la voce del padrone di casa, che parlava a bassa voce.

«Va bene, non devono sentirci!» – Sentii la voce di un altro dei nostri compagni, sempre parlante a bassa voce.

 

Non sapevo cosa volessero, ma pensai che non ce l’avevano con noi oppure che non volevano disturbarci, nonostante non si rassegnassero a concedersi alle braccia di Morfeo. Lei, come molti altri, di loro, s’addormentò in una delle stanze al secondo piano, proprio per evitare qualsiasi tipo di scherzo. Eravamo in una delle stanze degli ospiti, su un letto comodo. Non v’era nessuno vicino a noi, forse per misura cautelare o per altri motivi di cui non ero a conoscenza. Una cosa che non ho mai saputo: cosa pensassero le altre ragazze della mia classe degli strani tentativi d’approccio degli altri maschi.

Amber dormiva, quindi pensai che fosse tutto apposto.

Io vagavo per la casa, senza fare chissà cosa.

 

«Ecco, ci siamo quasi» – A parlare, a bassa voce, era sempre Harrison.

 

Sentii dei passi fermarsi alla porta della stanza ove era Amber a dormire. Non feci caso chi potesse essere: nel frattempo, ero a pochi metri dalla stanza e mi ci avvicinai. Volevo capire chi fosse, questa volta. Lei non s’accorse di nulla… il sonno s’era impadronita di lei già da un pò di ore e quindi decisi di controllare, giusto per sicurezza. Forse s’erano dimentcati qualcosa d’urgente e la stavano prendendo, pensai.

Si sentì la porta chiudere.

La strana sensazione di prima si fece sempre più forte e cresceva dentro di me, tanto che sentii vibrare ogni atomo del mio animo: non mi fidai del mio stesso essere, pensando che fosse un problema.

 

«Che fate? Aiuto!» – Diede un urlo, soffocato da qualcosa.

«Quasi cinque anni abbiamo aspettato: con le buone non ci siamo riusciti e adesso che quel bastardo del tuo ragazzo è finalmente morto, possiamo agire indisturbati. Non ti ricorderai nulla, perché ti abbiamo drogato con la pillola dello stupro, mettendole in tutte le bevande sfuse: proprio per essere sicuri. Siamo stronzi… senza dubbio!» – Disse Harrison, pieno di se e cercando di non farsi sentire dagli altri commensali.

 

Notai solamente quattro persone, incluso il padrone di casa… divenni sicuro sul nome: Fred Harrison. La guardavano come quattro fameliche iene. Amber s’agitò. Non avrei potuto fare molto, non avevo più un corpo con cui avrei anche fare il minimo indispensabile: difenderla, come prima cosa. Arrivai nella stanza, ma non avrei potuto fare niente se non assistere.

Mi fecero assistere al mio peggior incubo, purtropppo.

Due la bloccarono per le caviglie… uno per gamba. Il terzo entrambe le braccia, proprio per evitarle la fuga, ma lei continuò a dimenarsi: Harrison le tappava la bocca con la mano destra e le reggeva la nuca con la sinistra. Il suo volto era pieno di rabbia e frustrazione, mentre il nostro pieno di paura e di libertà.

Mi sentii impotente, come al solito.

Nel mentre stava passando il tempo, cercarono di torglierle i vestiti, facendo attenzione a non strapparli. Trovarono la zip dell’abito serale e l’aprirono. Il vestito le cadde ed era in bikini, sotto. Lei incominciò anche a pregare che non le facessero niente, mentre gli altri compagni che non erano implicati nell’atto sessuale erano ancora tutti tra le braccia di Morfeo. Nessuno avrebbe potuto sentirla.

 

«Siete impazziti, toglietemi le mani di dosso!» – Cercò d’urlare, sempre con la mano destra di Harrison sulla bocca.

«Fossimo matti: un’occasione del genere non ci sarebbe mai più capitata, vero ragazzi?» – Le rispose sempre Harrison, pieno di se e dell’aiuto dei suoi amici.

 

Dagli altri, soltanto un mugugno.

Mi concentrai, preso dalla rabbia e dalla frustrazione, mentre sentivo le cellule del mio spirito o aglomerato di pura energia agitarsi. Non avrei saputo cosa fare comunque o potuto fare l’eroe, ma provai nell’aiutarla a salvarsi: sapevo di poter toccare solo lei e l’istinto mi suggerii d’avvicinarmi a lei e d’abbracciarla; cosa che feci e le dissi che era la persona più forte che conoscevo e che avrebbe potuto stecchirli, tutt’e tre: cercai di darle forza, in pratica.

Morse la mano di Harrison, tanto che gli lasciò una bella impronta dentale e gli fece uscire anche il sangue, dalla ferita: il risultato fu che riuscì a fargli mollare la presa, mentre gli altri non riuscirono a fare niente e chi dormiva, continuò a dormire. Sentivo una strana energia scatenarsi dentro di me e quindi decisi io stesso di prendere l’appendiabiti che era dentro l’armadio e di tirarlo fuori. Mi concentrai sul mio istinto di protezione verso Amber e stranamente uscì: ne rimasi sbalordito e quasi affascinato.

 

«Ma che diavolo?» – Dissero tutti e quattro i maschi, increduli e straniti.

«James!» – Asserì Amber sotto voce.

 

Harrison si stava ancora contorcendo dal dolore, mentre notò incredulo il suo attaccapanni librarsi nell’aria: decisi di portarlo a me; mi sentivo un eroe, ma di quelli oscuri e pieni di un passato tormentato: il mio compito era soltanto quello di proteggerla, ma per sbaglio rivelai la bestia in me. Presi l’ormai arma, mentre, guardai dall’alto della mia onnipotenza, i miei ormai avversari e mi posizionai di fronte ad Harrison; avrei potuto maneggiare il bastone, ma decisi di non volermi sporcare direttamente le mani e quindi decisi d’usare l’arma senza nemmeno toccarla.

 

«Si muove da… solo?» – Incredulo, Harrison assunse un’espressione quasi terrorizzata.

 

Se l’assenza d’inibizione e la totale determinazione nel volerla punire, per qualcosa che non aveva mai fatto, li trasformò in animali: da quel momento, li avrei trattati come tali: “cani” da macello.

 

«Purtroppo non sbaglio mai, ma adesso… amore… è tutto apposto. Il tuo James sistema la situazione!» – Asserii ad Amber, parlandole telepaticamente.

 

Uno… due… tre. Colpi. Erano quelli che diedi ad Harrison, usando il suo stesso attaccapanni: il terzo colpo, specialmente quello, decisi di infliggerglelo sul collo… talmente forte che ruppi l’arma, nonostante fosse d’acciaio. Il sangue gli uscì dalla chiara pelle. I lividi divennero subito visibili, ma sapevo che la porta era perfettamente chiusa dall’interno: inizialmente era per non farla scappare, ma adesso gli altri tre non avrebbero avuto via di fuga. Amber vide, purtroppo, lo spettacolo che stavo per mettere in scena: “Il James furioso… atto unico”.

L’arma era ormai rotta e la lasciai cadere a terra.

Sentivo dello strano potere in me, tanto che cercai d’avvolgere i quattro con quest’energia. Non sapevo cosa fosse di preciso, ma sapevo che ero in grado di gestirne una parte. Si coprì gli occhi, la spaventata Amber, mentre vide i loro corpi librarono, subito dopo il letto: ormai erano a ogni mio capriccio, come loro s’erano presi la libertà di rubare anche la vita, oltre alla libertà, di Amber senza nemmeno chiedere un più che onesto appuntamento: frustrazione, che brutta bestia. In quel momento, loro avrebbero capito la mia, di frustrazione nel non voler perdere l’unica persona che mi abbia voluto accettare per quello che ero.

 

«Voliamo anche noi. Aiuto!» – Urlarono tutt’e quattro, con i volti terrorizzati.

«Umph!» – Dissi senz’emozione.

 

Mi bastò alzare il braccio destro verso l’esterno, per schiantare i quattro “cani” verso la finestra. Il muro spoglio evitò la rottura degli oggetti nella stanza, ma i loro corpi ne uscirono visibilmente danneggiati. Tre di loro urtarono la testa e persero subito conoscenza, mentre Harrison fece l’errore di rialzarsi e volermi sfidare… lo rialzai e lo schiantai sopra il soffitto, per poi lasciarlo cadere a terra esamine: come farebbe un vero poltergeist.

Amber mi chiese di smetterla, mentre la mia sete non s’era ancora placata e solo dopo aver capito che nessuno dei quattro si sarebbe potuto rialzare, decisi di placarmi.

 

«Scusami, era una cosa che ho rimandato da troppo tempo: non ho potuto fare altrimenti!» – Asserii ad Amber, parlandole telepaticamente.

 

Non mi disse niente. Cercai d’abbracciarla, ma non replicò. Il suo sguardo era severo: forse era solamente per lo shock. Mi guardò come se fossi una specie di mostro… ero sempre io, però. Mi sentivo in colpa, ma non riuscii a trattenere le lacrime. Piansi. Solo allora, pianse anche lei e l’abbracciai.

Gli altri si svegliarono alle sei del mattino, ma notarono il tutto dopo un pò, proprio per chiamare Amber… forse per tornare a scuola.

La porta s’aprì con Amber sul letto ed ancora sotto shock, ma le vittime stese per terra. Gli altri, solo dopo il tragico ritrovamento, oltre a chiedere ad Amber cosa fosse successo, decisero fosse meglio chiamare la polizia. Lei non seppe cosa rispondere, oltre al fatto che i quattro avevano provato a farle del male e che qualcosa li fece desistere: non avrebbe potuto spiegare cosa avessi fatto. Cercò soltanto di dire che lei era l’unica innocente, in tutta la storia.

Scoppiò un litigio: non per colpa sua, ma per colpa dell’effimera situazione, sopratutto perché nessuno m’avrebbe potuto vedere realmente.

Non avrebbe avuto motivo… Amber… nel chiamare tutt’e quattro ed organizzare qualcosa per dimenticarmi, perché ero con lei e l’avrei fermati comunque; sapevo che nessuno avrebbe potuto sospettare di me, ma volli comunque regalare… al mio pubblico… un piccolo spettacolo, per far capire che Amber non stava dicendo una bugia: sollevai lo stesso bastone di ferro insanguinato e lo feci libbrare un pò in aria… divennero tutti stupiti da quello che stava succedendo, ma solo in quel momento, presero per buone le parole di Amber, che cercava soltanto d’essere sincera. Non mi presi la briga di controllare lo stato di salute dei miei cani, ma notai i lividi che erano davvero vividi e il sangue usciva dalla loro pelle, peggio del pus dei brufoli.

A seguire il caso, trovammo un detective Foulieur sempre più preoccupato per qualcosa di cui non ero a conoscenza, ma avevo sempre una strana sensazione quando mi trovavo vicino a lui. L’unica cosa che capii fu che era più oscuro e tormentato di me, infatti il suo volto spento e distratto, ci mise più del previsto per capire il quadro della situazione. Sentivo strane energie. Non mi piaceva, ma alla fine m’aveva salvato la vita e quindi non avvisai nemmeno Amber: lei sembrava fidarsi davvero di lui.

Interrogò Amber che gli raccontò, supportata poi dall’esito delle prove, che a infliggere quel dolore ero stato io… praticamente non v’erano altre impronte se non appartenenti a Harrison e al suo “gruppo d’amici”. Fui classificato, solo successivamente, come fenomeno paranormale. Non sarei stato incriminato e per Amber… solo per il morso… valse la legittima difesa: di certo non avrebbero potuto arrestare un fantasma; sicuramente non saprò mai come s’evolveranno gli eventi, perché di certo non sono un telepate.

 

Tutto era finito bene, per i buoni s’intende. Non avrei lasciato che nessuno le facesse del male. Nemmeno io. Sapevo d’essere pericoloso… anche per lei… ma non pensai che fossi io il vero problema. In poche parole, i mal di testa l’erano divenuti molto più frequenti e venni a scoprire che l’avevo trascinata con me in un limbo: per stare con lei, stava rinunciando a vivere la sua vita e l’energia che avrebbe dovuta mantenere sana, la stava cedendo per mantenere me in vita e questo lo scoprii subito dopo l’ultimo cedimento… in cui rischiò anche lei la vita: se ero io il problema, l’avrei salvata da me stesso.

Sapevo che, prima o poi, l’amore della mia vita m’avrebbe lasciato andare… ero soltanto il suo amore giovanile ed attesi solo il benestare per riposare in pace per l’eternità… prima o poi.

 

«Forse è meglio così!» – Disse Foulieur.

   
 
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