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Autore: Midnight the mad    13/01/2017    1 recensioni
Jimmy. 20 anni, un fallito. Questo è tutto ciò che c'è da sapere di lui. Almeno fino a quando non decide di andare via dalla città dove ha sempre abitato alla ricerca di... cosa? Neanche lui lo sa.
Ma quello che trova non se lo sarebbe mai aspettato: una periferia piena di parole, una ragazza con lo stesso nome della marjuana e soprattutto una persona senza nome, senza storia, senza vita.
"– Com’è che l’hai chiamata? –
Lei sorride. – Beh, non dice a nessuno il suo nome, tutti se lo chiedono. Dopo un po’, è diventato un soprannome. La cara, stronza, vecchia Whatsername. –"
". – Tu mi guardi e vedi un mistero. Vero? Vedi qualcuno senza storia, senza vita, senza nome. E pensi: “Oh, cavolo, c’è una ragazza capace di nascondere così tanto di se stessa. Stupefacente. Mi piacerebbe tanto capire quali sono la sua vera storia, la sua vera vita, il suo vero nome.” E invece sbagli. Perché c’è una cosa che non ti è mai passata per la testa, ed è che forse non c’è nessuna storia, Jimmy. Non c’è nessuna vita, e non c’è nessun nome. Per questo non riesci a vederli. Perché non esistono. –"
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jesus of Suburbia, St. Jimmy, Whatsername
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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L'ho scritto di getto, neanche riletto. Una conclusione frenetica per un racconto troppo lento, una conclusione nuova per un racconto troppo vecchio. La cosa buffa è che, più di un anno fa, sapevo già che sarebbe dovuto finire così.
Arrivederci, o forse addio
Whatsherface (Mezzanotte)



Waste another year flies by, waste a night or two; you taught me how to live in the streets of shame. 

Mi sveglio urlando.
Non so dove sono, non so cosa sia successo. Mi sembra per aver dormito per un anno intero, sono stordito, mi gira la testa. Batto le palpebre più volte. Il soffitto bianco sporco sembra muoversi sopra di me. Sto morendo di fame ma comunque mi viene da vomitare. Cerco di ricordarmi qualcosa, qualsiasi cosa. Una macchina. Qualcuno che mi appoggia sui sedili posteriori. La strada mezza distrutta, l’imbottitura che attutisce appena le botte dovute alle buche nell’asfalto.
Poi un ago nel braccio, e di nuovo buio.
Non so dove sono, ma so dove non sono. Questo è un letto, non il divano di casa di Whatsername.
Whatsername.
Mi tiro su di scatto, ho un giramento di testa, crollo sul materasso e vomito bile. Quelle ultime parole. Lei... lei è...
- Jimmy? –
La voce è familiare, ma non capisco di chi si tratti. Tento di rispondere, ma non ce la faccio. Sento qualcosa, delle mani che mi tirano su. – Jimmy... –
La voce è preoccupata. Anzi, terrorizzata. Le mani mi tirano su, mi appoggiano alla testiera del letto. Ed è allora che, guardandola da sotto le palpebre socchiuse, riconosco la stanza. La mia stanza, quella della mia vecchia casa.
E la donna che mi sta aiutando è mia madre.
“Ma che...”
- Jimmy? – chiede lei. Io batto di nuovo le palpebre. Mi rendo conto che sto piangendo. Attraverso il velo delle lacrime osservo la sua espressione preoccupata, la sua paura, i suoi occhi azzurro chiaro che si muovono rapidi dalle mie labbra sporche di vomito ai miei vestiti sudici.
- Whatsername. – mormoro.
Mia madre corruga la fronte. – Cosa? –
- Whatsername. – ripeto. Ho la voce roca, che brucia in gola insieme alla bile. – Dov’è? –
- Cosa stai dicendo? –
Tento di rispondere, ma non ci riesco. Mi si chiudono gli occhi e crollo di nuovo.
 
Quando mi riprendo, mia madre è ancora qui. Non so quanto sia passato, se qualche ora o pochi minuti. Ho freddo. Mi tiro addosso la coperta e lei mi guarda. – Stai meglio? –
Annuisco. Lo stomaco sembra stabile, se non altro. Il mio cervello no. Il mio cervello sta impazzendo.
- Dov’è? – chiedo.
- Chi? –
- La ragazza. –
Mia madre scuote la testa. – Non lo so, Jimmy. Ti ho trovato svenuto per terra fuori dalla porta. Dove cazzo sei stato per tutto questo tempo? –
Io scuoto la testa. Non ci riesco, a raccontare. Non posso farcela. L’unica cosa di cui mi importa è lei. Lei... che è morta.
- C’era qualcosa? – chiedo. – Un messaggio, qualsiasi cosa? –
Lei scuote la testa di nuovo. Poi mi prende la mano. – Non te ne andare più. – mormora. – Non così. –
Io non rispondo.
 
I giorni passano. Ho cercato, sia tra i miei vestiti che fuori dalla porta, ma non c’era niente. Nessun messaggio, neanche una parola. Non mi resta niente, neanche la certezza che sia stato tutto vero. Forse sono pazzo. Probabilmente sono pazzo.
Le notti le trascorro a piangere. Non riesco a non farlo, non appena la mia testa tocca il cuscino scoppio in lacrime, lacrime amare per lei, per noi, per la sua morte, per essere stato così stupido. Mi chiedo perché, mi chiedo come accidenti ho fatto a farmi ingannare così.
Eppure, in qualche modo, la vita funziona. Lo dicono tutti, che è così, e io non ci avevo mai creduto prima di ora. Mangio, dormo. Di giorno, ma dormo. Mia madre mi racconta ciò che è successo in mia assenza.
Passa un mese, ne passano due.
Do una mano in casa, vado a fare la spesa. Incontro un vecchio amico, mi invita a bere qualcosa insieme. Ci vado, ma non tocco alcol. Non lo faccio più, da quando sono tornato. La sera piango più del solito, ma la mattina mi sveglio lo stesso. E’ così che funziona, a quanto pare. Ci si sveglia lo stesso.
Ma Whatsername no. Whatsername non si sveglierà, non più.
Potrei cercare di dimenticarla, fingere che sia stato un sogno. Dopotutto non ho prove che non sia così. Eppure lo so, che è vero. E adesso lo so, cosa era l’inferno. L’ho visto, quella sera in quella casa. La pazzia, l’alcol, le scritte sul muro. A volte non riesco a levarmelo dalla testa. E allora resto fermo, paralizzato dove sono, ad aspettare che passi.
Ma succede sempre meno stesso. Passano altri mesi, a manciate, i giorni che scivolano uno dopo l’altro come granelli di sabbia in una clessidra. La notte diventa giorno e il giorno notte. Io vivo, almeno credo, chiedendomi se lei davvero pensasse quello che ha detto. Che non aveva mai creduto nella possibilità di salvarsi.
Non ha salvato sé stessa ma forse, adesso, ha salvato me. Lo penso mentre assaporo l’alba, mentre sento l’acqua della doccia scorrermi addosso, mentre cammino in giro per questa strana città. Ho visto l’inferno, ma sono vivo. Non sono finito nell’abisso. Posso andare avanti, posso farlo. Me lo ripeto col sole che brucia sulla pelle, con le stelle sopra di me, col sorriso di un conoscente, nei primi giorni di lavoro. Sento una canzone, alla radio. Si chiama Still Breathing, ed è dannatamente vera. Respiro ancora. Respiro ancora, forse grazie a lei.
 
Succede di notte, all’improvviso. Il rumore di un motore, dei pneumatici sulla ghiaia. Io non dormo, come sempre. Vado alla finestra, e vedo lo sportello di un’auto nera aprirsi. Ne esce fuori una testa dai capelli neri, tagliati a caschetto, poi il corpo di una ragazza in jeans e maglietta nonostante in freddo della notte. Ci metto un po’ a riconoscerla. Vedo gli occhi. I suoi occhi. Il suo sorriso storto. Il mio cuore accelera.
Lei mi vede, si avvicina. Mi fa cenno di alzare il vetro. Lo faccio, e l’aria fredda mi investe. Potrebbe essere un sogno. Probabilmente è un sogno.
- Stai bene, Jimmy? – mi chiede.
Annuisco. Non riesco neanche a parlare. E’ assurdo, totalmente assurdo. Lei è morta. Non è possibile.
- Avevo pensato che fosse l’unica maniera. – dice.
- Sei viva. –
Ride. – Già. Strano, no? –
- Strano. – ripeto. Davvero? Tutto qui? Strano? – Ero distrutto, cazzo. – La mia voce si alza, è quasi un urlo. – Pensavo che ti fossi uccisa! –
- L’idea era quella. – risponde Whatsername. – E poi non sei distrutto. Stai bene. Hai visto? –
Quelle parole mi zittiscono. E’ vero, questo. Sono vivo, sto bene, come non stavo da anni. Mi ha salvato, lasciandomi andare, riportandomi qui.
- Avevi bisogno di starmi lontano. – dice. – Almeno finché non sarei stata capace di tenere la cosa sotto controllo. –
- E adesso puoi? –
Scrolla le spalle. – Non saprei. Ho semplicemente chiuso. Con tutto. Ho cercato di ricominciare. –
- E ci sei riuscita? –
- Così mi dico. Ma forse non è così vero, se sono venuta a cercare te. –
- E adesso che succede? – chiedo.
- Cioè? –
- Che... che farai? –
Esita. – Non saprei. Penso che ci proverò. Se vuoi. –
- A fare cosa? –
- Beh, a... a vivere. –
Non so perché mi viene da sorridere. – Sono felice per te. – mormoro.
- E io per te. – ribatte. – Forse siamo salvi. –
- Forse. – ripeto.
- Non si sa mai. – concorda. – Ma magari per un po’. –
- Non sembra male. –
- No, infatti. – Si morde il labbro. – Beh, volevo solo passare a salutarti, insomma. Parto. –
- Per dove? –
- Non saprei. California, probabilmente. Non so bene per quale motivo, ma ne ho voglia. –
- E se ti chiedessi di restare? –
Mi è uscito quasi senza che me ne rendessi conto, ma non mi pento di averlo detto.
- Vorresti davvero che lo facessi? –
- Ho come l’impressione che saresti pronta ad autodistruggerti in qualsiasi momento. Magari ti salvo. –
- L’ultima volta non ci sei riuscito. –
- Dall’ultima volta è cambiato qualcosa. –
Annuisce. – Sì, questo è vero. Ma sai benissimo che non è così. Che devo andare. –
La guardo, e capisco che ha ragione. Che lei è una bomba a orologeria. Che, in ogni caso, non sono io che posso impedirle di esplodere. Fa male, ma è strano, perché è così ovvio che non provo a controbattere. Devo lasciarla andare.
Sospira. – Beh, insomma, tutto qui. Cerca di vivere, Jimmy, andrà tutto bene. –
- C’è sempre il rischio che crolli tutto. –
- Ma mai la certezza. –
Le porgo la mano. Sembra una strana scena di un film ma lei, invece che aggrapparcisi, me la stringe, in uno strano segno di rispetto. Amicizia, forse.
- Tornerai mai? – le chiedo.
- Non penso. Buonanotte, Jimmy. –
Non riesco a rispondere. Ho come un groppo alla gola, anche se non mi sembrava di dover piangere.
Lei si volta, si avvicina all’auto. Un attimo prima che ci salga, riesco ad urlarle: - Addio, Whatsername. –
Si gira. Mi guarda. Esita, poi dice: - Gloria. – Sorride. – Mi chiamo Gloria. –
 
  
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