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Autore: Adeia Di Elferas    14/01/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lorenzo il Popolano strinse con calore la mano a Sandro Botticelli e rimarcò: “Sono convinto che farete un lavoro eccellente.”

L'artista ringraziò di cuore, incapace di esprimere a parole tutta la gratitudine che provava. In un clima di guerra e incertezza, solo quel Medici aveva mostrato ancora amore per l'arte e ciò dava speranza a Botticelli più d'ogni altra cosa.

Giovanni, una spalla drappeggiata dal mantello color oro, a memoria dello stemma di famiglia, entrò nello studiolo del fratello proprio mentre il pittore ne stava uscendo.

Salutò Botticelli con un cenno del capo e l'altro ricambiò allo stesso modo.

Accigliandosi appena, Giovanni si passò una mano tra i capelli di un castano più chiaro rispetto al fratello: “Alla fine gli hai commissionato gli affreschi della villa a Trebbio?” chiese, parandosi davanti a Lorenzo.

Questi incurvò appena le piccole labbra e annuì: “Esatto.”

Il Popolano più giovane fece uno sbuffo, a metà strada tra un segno di impazienza e una risata strozzata: “Hai fatto scolpire un San Giovannino a Michelangelo per metterlo alla prova e poi pagarlo come fanno i grandi mecenati d'Italia. Scrivi a quel Vespucci in modo che ti tenga informato sulle conquiste del Nuovo Mondo, invogliandolo a partire a sua volta e attraversare le Colonne d'Ercole. Vuoi mantenere Alessandro Braccesi, affinché affini le sue arti umaniste. Adesso dai una commissione molto importante a Sandro Botticelli...”

Lorenzo non prese bene le parole del fratello minore, tanto che si adombrò subito e, avvicinandosi a Giovanni, chiese: “Non approvi la mia idea di rifare grande Firenze? Vuoi che tutto quanto muoia come dice Savonarola? Parla chiaro, fratello, perché altrimenti dovrò rivalutare la questione tra noi.”

Giovanni appoggiò conciliante le mani sulle spalle del maggiore, poco più basso di lui e cercò di spiegarsi al meglio: “Non dico questo. Amo l'arte e la letteratura tanto quanto te. Siamo cresciuti alla corte di nostro cugino, era fatale che fossimo sensibili al bello.”

Lorenzo continuò a guardarlo, gli occhi tondi colorati da una certa perplessità.

Il più giovane concluse: “Solo che adesso dobbiamo stare attenti con queste cose. Se vogliamo screditare Savonarola senza ritorsioni, dovremmo farci notare di meno. Se vogliamo davvero che Firenze si schieri contro re Carlo, dobbiamo impegnarci per far cadere il domenicano.”

Con un gesto un po' risentito, Lorenzo si divincolò dalla stretta di suo fratello e ammise: “Lo so, hai ragione, ma se mi lascio scappare questi talenti adesso, non li recupereremo più.”

Giovanni sospirò: “Come dici tu, ma quando parlerai alla Signoria, fai in modo che sia chiaro a tutti che per il bene di Firenze è tempo di schierarsi coi milanesi e i veneziani.”

L'altro fece una smorfia e ammise: “Preferirei che fossi tu a convincere i membri della Signoria e il Gonfaloniere di giustizia.”

“Sei tu il maggiore.” gli ricordò Giovanni: “Io posso solo farti da consigliere.”

Lorenzo annuì un paio di volte, come a convincersi da solo che era esattamente così.

Sospirando, un po' abbattuto e un po' rincuorato dalla vicinanza del fratello, il Popolano più vecchio chiese, con più leggerezza, tanto per cambiare argomento: “Sei uscito anche questa mattina all'alba per andare a cavalcare?”

Giovanni, che aveva rinunciato al suo giro solitario del mattino per via del freddo che riaccendeva i suoi dolori, preferendo leggere un libro al caldo sotto le coperte, sorrise e si schermì: “No, oggi avevo altri impegni.”

Lorenzo gli diede una pacca sulla schiena e commentò, gioviale: “Scommetto che questi impegni portavano la sottana e avevano il viso imbellettato!”

“Non ti si può proprio nascondere niente.” scherzò Giovanni, trovando quella scusa più credibile per il fratello rispetto alla verità.

 

“Dovrai parlarci tu con loro – spiegò il Conte Riario, guardando negli occhi il fratello Cesare – sei tu quello che studia teologia, nessuno si insospettirà, a vederti amico di due preti.”

Il fratello più giovane si grattò la chierica, un po' in difficoltà. Ottaviano parlava molto facilmente, ma quello che gli stava chiedendo di fare era tutt'altro che semplice. Cesare non aveva la sua capacità di persuadere gli altri, né il suo modo sempre velatamente minaccioso di chiedere e rispondere.

“Se nostra madre mi vedesse di punto in bianco mentre mi intrattengo con quei due uomini di Chiesa – continuò Ottaviano, sperando di convincere in fretta l'altro – non credi che si insospettirebbe e scoprirebbe che li ha mandati qui nostro cugino, il Cardinale Sansoni Riario? Non credi che indagherà ancora più a fondo e scoprirà quello che stiamo facendo? Non credi che si vendicherà su di noi, come se non fossimo suoi figli, ma semplici traditori?”

Il tono incalzante delle domande retoriche del fratello fecero cedere Cesare che, annaspando nell'aria tersa di quell'aprile, si sottrasse per qualche momento dalla morsa di Ottaviano, facendo un passo indietro.

Respirando a fatica, schiacciato dal peso di quello che stava accettando di fare, il ragazzino concluse: “Va bene, riferirò loro quello che mi hai detto di dire, anche se ancora non capisco perché abbiamo dovuto coinvolgere anche loro.”

Nemmeno Ottaviano era contento di quell'intrusione esterna fatta da Raffaele, ma il Cardinale non aveva ammesso repliche e gli aveva subito spedito quei due preti 'fidati ed esperti' che avrebbero, secondo lui, dato un apporto notevole alla causa.

Non volendo ammettere di aver piegato il capo davanti a un adulto, il Conte gonfiò il petto e raddrizzò le spalle dicendo: “Abbiamo dovuto perché io ho deciso così. E ora va da loro e fai quello che devi.”

Cesare chinò la testa, mettendo in mostra la sua tonsura, tenuta sempre in ordine e ben rasata, e si allontanò da Ottaviano, camminando a passi lenti e lunghi.

Il Conte osservò il minore incedere in mezzo alla strada un po' fangosa, diretto al Duomo, dove lo attendevano Don Domenico da Bagnacavallo e Don Antonio da Val di Noce, che tutti, a quanto aveva detto il Cardinale Sansoni Riario, chiamavano Pavagliotta.

Con un'ultima occhiata al sole pallido e malato di quell'aprile stentato, Ottaviano si strinse nel mantello di mezza stagione e, scalciando tutti i sassolini che incontrò sul suo cammino, si avviò alla rocca.

 

Giovan Francesco Sanseverino era riuscito a riottenere Caiazzo dai francesi. Vi era subito andato e vi aveva lasciato la moglie, sperando che bastasse la sua presenza a ridimensionare le agitazioni della popolazione.

Era stato abile, fino a quel momento, a nascondere i suoi piani. Tuttavia, da quando era stata creata la Lega Italica, per l'uomo era stato sempre più difficile fingere.

Così, dopo essere passato da Siena, era risalito verso Milano, senza più cercare alcun contatto con l'esercito francese, sperando che re Carlo avesse per testa problemi più importanti che non la sua defezione.

Quando giunse alla corte di Ludovico il Moro comprese che il potere del Duca di Milano si era accentrato sempre di più e che quella Lega, di nomina veneziana e papale, era in realtà nata tra le nebbie gelide della Lombardia.

“I miei cavalleggeri sono al vostro servizio.” disse Sanseverino, quando si trovò al cospetto dello Sforza.

Ludovico ringraziò distrattamente, insuperbito dal potere pressoché sconfinato di cui godeva.

Con il blocco che andava formandosi ad Asti, ormai le nuove posizioni si stavano rafforzando e presto re Carlo avrebbe accettato apertamente la sfida, o almeno questo si auspicava Ludovico.

I suoi generali, in particolare Francesco Gonzaga, avevano esposto piani molto convincenti e il Marchese di Mantova si diceva sicuro di poter dividere l'esercito francese in due tronconi.

“A quel modo – aveva spiegato, passando la mano sulla mappa dell'Italia con una delicatezza sorprendente per un uomo come lui, quasi volesse accarezzarla – saranno più aggredibili e potremo concentrarci sulla parte comandata direttamente dal re, mentre lasceremo ai nostri alleati minori il compito di distruggere e disperdere le truppe meno importanti.”

Persino il domine magister Leonardo era stato coinvolto negli sforzi bellici, ma, per il momento, tutte le mirabolanti macchine da guerra che aveva progettato o migliorato partendo da disegni d'altri non si erano dimostrate affidabili quanto sperato. Certe erano pressoché impossibili da costruire, mentre altre, seppur costruibili, erano intrasportabili o troppo complicate per essere usate in campo aperto durante una furibonda battaglia.

Leonardo si era risentito per gli appunti non proprio cortesi fatti dal Duca di Milano, ma si era lasciato addolcire dalla richiesta della Duchessa, che gli aveva affidato in tutto e per tutto i festeggiamenti di fine maggio, quando Ludovico sarebbe stato ufficialmente nominato Duca dall'Imperatore.

Se infatti il Moro era già Duca di fatto e sulla carta, non c'erano ancora stati i festeggiamenti di rito, in rispetto alla guerra che si stava consumando. Beatrice aveva decretato che il tempo era giunto e che l'investitura di suo marito sarebbe stato il primo tassello del sentiero dorato che li avrebbe condotti alla vittoria su tutti i fronti.

“Non badate a spese.” aveva detto la Duchessa a Leonardo: “Se sarà il caso, faremo riscuotere tasse straordinarie. Basta che tutti gli invitati restino a bocca aperta.”

“Così sarà.” aveva risposto il domine magister, già pregustando tutte le meraviglie che avrebbe apparecchiato per quel giorno.

 

Il grano fiorentino aveva dato un po' di respiro a Forlì e ai suoi abitanti. Scongiurata la carestia che avrebbe portato alla tomba decine e decine di cittadini, la Contessa poteva permettersi di pensare a questioni più sottili.

L'invito alla cerimonia di 'incoronazione a Duca' di suo zio era arrivato da qualche giorno e Caterina stava ancora pensando a come sfruttare a suo favore quell'evento.

L'idea che il trono che sarebbe dovuto essere di suo fratello Gian Galeazzo fosse invece finito nelle mani di suo zio la rendeva furiosa, ma la sua mente politica l'aiutò a raffreddare i bollenti spiriti in favore di un ragionamento più organico e utilitarista.

Da Milano erano arrivati i primi messaggi – veicolati abilmente da Battista Sfrondati, che sembrava essersi ammorbidito molto in quelle ultime settimane – che invogliavano la Contessa a sposare la causa della Lega Italica. Anche se i toni e i modi erano molto pacati e amichevoli, Caterina aveva la spiacevole sensazione che suo zio stesse cercando di trascinarla con la forza in una guerra che lei non voleva.

Era contraria alla sottomissione francese a cui l'Italia sembrava fino a quel giorno non aver opposto alcuna seria resistenza, tuttavia non vedeva come uno Stato piccolo come il suo potesse fare la differenza, ora che tutti gli Stati italiani erano alleati.

Non si trattava più di permettere il passaggio a questa o a quella forza. Quella volta le stavano chiedendo cibo, uomini e denaro, tutte cose che la Contessa non poteva e non voleva più concedere a nessuno.

Inoltre, pur volendo essere ottimisti, era palese che il suo Stato non ne avrebbe tratto guadagno in alcun modo, per quanto la vittoria fosse stata schiacciante.

La flotta francese era da poco stata distrutta a Rapallo, durante quella che era cominciata come una semplice scaramuccia. Con quella mossa, Carlo aveva davanti a sé la via marittima sbarrata e gli restava solo la possibilità di tornarsene in Francia via terra.

Se quell'avvisaglia doveva dare un metro di quella che sarebbe stata la guerra tra i principi italiani e re Carlo, era legittimo sentirsi già l'alloro in testa.

I genovesi, assoggettati a Milano da tempo, erano stati i primi tra gli alleati coatti di Ludovico a far fuoco contro i francesi, e l'entusiasmo che era derivato dalla loro vittoria aveva subito contagiato molti altri membri della Lega.

Caterina, però, quando aveva sentito quello che ne era stato del bottino preso dalle navi, aveva storto il naso e aveva subito avuto riserve nell'allearsi al Moro.

Sulle imbarcazioni francesi non solo c'erano ricchezze, oro e le porte bronzee del Castel Nuovo di Napoli: c'erano anche parecchie donne e monache partenopee.

Su ordine del Duca di Milano, quelle giovani erano state spartite tra i vincitori come fossero oggetti e, con ogni probabilità, molte di loro – probabilmente le più fortunate – erano già morte.

Quell'aspetto dell'idea che aveva il Moro di gestire le vittorie aveva spoetizzato molto la Contessa, le cui riserve circa un'eventuale ingresso nella Lega stavano aumentando giorno dopo giorno.

Giacomo, poi, ci aveva messo del suo, insinuando poco per volta come Forlì e Imola avrebbero potuto chiedere di restare neutrali.

Se il Barone era contrario all'ingresso nella Lega solo perché temeva ritorsioni di re Carlo – prima tra tutte il vedersi levare il titolo nobiliare appena conquistato – Caterina poteva scorgere in quell'idea anche un altro fondamentale vantaggio.

Una guerra, per quanto facile da vincere, avrebbe riportato le sue terre in una condizione di bisogno difficile da fronteggiare. Chiamare una leva generale avrebbe svuotato ancora le campagne e, in caso di presa parte a qualche sfortunato scontro, avrebbe significato perdere gran parte della popolazione maschile in età da lavoro.

Per poter invocare la neutralità, però, sarebbe stato necessario assicurarsi che Ludovico il Moro, il papa e Venezia avrebbero accettato l'ipotesi di battersi con re Carlo molto più a nord o molto più a sud rispetto alle terre della Contessa.

L'investitura di Ludovico, a quel punto, si trasformava in un'occasione più unica che rara per convincere il nuovo Duca a lasciare in pace Caterina e le sue città.

Dopo aver ragionato a lungo circa le mosse da compiere, la Contessa aveva convocato alla sua presenza Antonio Baldraccani e Giovanni Delle Selle.

I due si erano già dimostrati ottimi ambasciatori quando li aveva inviati alla corte del papa, dopo l'elezione al soglio di Alessandro VI. Chi meglio di loro, per rappresentarla a Milano?

Caterina fece accomodare i due ambasciatori davanti a sé. Aveva deciso di farli andare alla rocca, sperando di poter discutere con loro con più tranquillità.

Come sua consuetudine, aveva temporaneamente requisito lo studiolo del castellano e ne aveva fatto per qualche momento il suo quartier generale.

“Dovrete mostrarvi lieti e felici per il successo di mio zio – spiegò la Contessa, mentre Baldraccani e Delle Selle annuivano con solennità, intenti a imprimersi nella mente tutte le indicazione della loro signora – che nemmeno una parola su mio fratello Gian Galeazzo o sulla sua morte sfiori le vostre labbra.”

Caterina, dopo quella raccomandazione, venne colpita a tradimento da un attacco di malinconia.

Ricordò come anni prima fosse scappata a Milano, per sfuggire a suo marito Girolamo e al clima irrespirabile del loro palazzo di Forlì. Quella volta era corsa fino alla sua città natale per tornare 'a casa'.

In quel momento, invece, pensando a Milano e al palazzo di Porta Giovia, la sensazione che la sua casa non esistesse più era tangibile e crudele, come una pugnalata tra le scapole.

Là non era rimasto più nulla della vita che Caterina aveva conosciuto fino al giorno del suo matrimonio. Nulla della sua infanzia e delle persone che aveva amato.

Era riuscita a portare vicino a sé sua madre Lucrezia, ma aveva perso tutti gli altri.

E alle volte le sembrava di aver perduto anche lei.

Riprendendosi dopo un momento di silenzio passato a guardare la luce incerta della sera che filtrava dalla finestra, la Contessa riprese: “Finite le cerimonie, dovrete parlamentare in segreto con mio zio. Lenitelo e riempitelo di complimenti. È molto sensibile a quel genere di cose. Dopodiché strappategli la promessa di lasciarmi fuori dalla sua guerra.”

Delle Selle e Baldraccani ebbero un momento di smarrimento. Quello che la loro signora stava chiedendo non era affare di poco conto. Inoltre nessuno dei due si sarebbe atteso una consegna del genere.

La Contessa Sforza Riario era risaputamente avvezza a impugnare le armi, se necessario, e i due ambasciatori erano certi che, in vista di una guerra dalla vittoria tanto facile, la donna non si sarebbe tirata indietro.

“Voglio il suo impegno chiaro e messo nero su bianco. Per convincerlo, se dovesse mostrare incertezze, ditegli che mi serve mantenere l'amicizia con tutti – disse Caterina, a voce un po' più bassa – perché non si sa chi sarà il primo a tradire. Non devo avere nemici vicini, o rischierebbe di vedere il mio Stato in mano a gente che lui non potrebbe controllare.”

Antonio Baldraccani, quando il silenzio della sua signora si fece abbastanza prolungato si schiarì la voce e domandò: “Possiamo fargli esempi concreti?”

Caterina sospirò e annuendo con forza disse: “Certo. Ditegli che Cesena, se anche si unisse alla Lega, è in mano a Guido Guerra, un uomo difficile da controllare e incline al tradimento. Appena passati i francesi sarebbe capace di sfruttare il nostro indebolimento per conquistarci.”

“E sarebbe così?” chiese preoccupato Giovanni Delle Selle.

Caterina sollevò un sopracciglio, abbandonandosi contro lo schienale della sedia: “Non credo, ma è bene che Ludovico la pensi così. E potete anche fare l'esempio di Faenza. Ditegli che per ora possiamo tenere a bada Astorre Manfredi e il suo tutore, ma se ci vedessero troppo deboli, potrebbero cercare di farci guerra e prendersi le nostre terre. E potete dire altrettanto di Firenze.”

“Ma con Firenze i nostri rapporti sono notoriamente buoni.” intervenne Antonio Baldraccani, con cautela: “Il vostro scambio commerciale con Firenze ha avuto una certa eco...”

La Contessa si mise in piedi, sistemandosi con un unico colpo secco le sottane spiegazzate del suo abito da lavoro – vestito che indossava quando passava la giornata al cantiere del fossato – e tagliò corto: “Citate Firenze solo se necessario e, in tal caso, per convincerlo ricordategli che i Popolani non sono i signori della città. La Signoria ha molti elementi e Savonarola sta macchinando per far rivoltare lo Stato contro i Medici, tutti quanti, Popolani compresi, e che quindi sarebbe facile trovarsi con un'altra famiglia alla guida di Firenze e a quel punto...”

I due ambasciatori fecero segno di aver inteso e così Caterina li congedò.

“Vi darò le ultime direttive domani e nei prossimi giorni. Abbiamo ancora tempo, prima di farvi partire, visto che la cerimonia sarà a fine mese. Nel frattempo, ragionate anche voi su come esporre la questione a mio zio. Mi aspetto che al vostro ritorno da Milano riportiate qui buone notizie, sono stata chiara?” chiese la Contessa.

Baldraccani fece un inchino rapido ed elegante, mentre Delle Selle si trattenne un istante in più.

Prese da parte la donna e le sussurrò: “Faremo del nostro meglio e spero di riuscire, ma che accadrà se dovessimo fallire?”

Caterina si sentì in dovere di essere franca: “Se doveste fallire, vivremo mesi molto difficili e a quel punto ci si dovrà occupare solo di non far scoppiare una guerra civile.”

“Una guerra civile?” ribatté Giovanni, sorpreso.

“Quando si ha fame, non si esita a prendere in mano la spada per uccidere il proprio vicino e rubargli il pane dalla tavola, caro Delle Selle.” decretò la Contessa, stanca.

L'ambasciatore capì l'antifona, cogliendo nel tono stremato della sua signora la tacita richiesta di chiudere il colloquio e così la salutò e se ne andò.

Rimasta sola, Caterina cercò un servo e riferì la sua decisione di non cenare, per quella sera. Aveva solo voglia di ritirarsi nel Paradiso e non pensare a nulla fino al mattino dopo.

“Appena gli ambasciatori saranno tornati con il permesso di mio zio di restare neutrale – disse a Giacomo, quella notte, mentre entrambi erano in dormiveglia – farò partire tuo fratello per Imola.”

 
   
 
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