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Autore: antigone7    14/01/2017    1 recensioni
Delia ha sedici anni, un carattere sfrontato e solare, una parlantina un po' eccessiva, un mucchio di nuovi amici e un solo acerrimo nemico: Matt Patterson è l'unica persona che fa uscire il suo istinto omicida. Crescendo, però, si accorgerà che l'odio è un sentimento troppo spesso sottovalutato e che, a volte, le cose non sono esattamente come potrebbero sembrare a prima vista.
Avevo davanti due occhi grigio-azzurri che mi scrutavano sospettosi; e io, dannazione, avevo un debole per gli occhi grigi. Inoltre, il portatore di questi occhi era un ragazzo alto, biondo e davvero, davvero molto bello. Mi sembrava di avere di fronte il Principe Azzurro in persona: mancavano il cavallo bianco e il mantello celeste e, forse, gli avrei detto di chiamarmi Cenerentola.
Come ho già specificato, però, questa mia prima impressione durò un attimo. Il tempo che lui aprisse bocca e avevo già cambiato totalmente idea. Probabilmente avrei dovuto capirlo già dal suo modo di guardarmi, sdegnato e infastidito, o dalla posizione svogliata con tanto di mani nelle tasche dei jeans, che era un completo stronzo.
Genere: Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Marie's and surroundings'
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10. I'll take you away


Cercare di stare zitta durante il viaggio in macchina con Patterson fu per me un autentico supplizio. Mi venne spontaneo aprire la bocca per dire qualcosa almeno una dozzina di volte, anche perché non sapevo dove eravamo diretti e non conoscevo la strada che avevamo imboccato quando eravamo usciti dal centro di Winthrop. Ma sentivo lo sguardo divertito di Matt su di me ogni volta che sospiravo per lo sforzo di non dire nulla, quindi, per orgoglio, mi morsi la lingua e riuscii a restare più o meno in silenzio per quasi tutto il tragitto.
Rassegnata e obbligata a tacere, quindi, mi misi a fare delle considerazioni su ciò che era appena accaduto, dal momento che ero ancora vagamente scossa.
Innanzitutto, quel coglione di Petrovic aveva messo in giro voci false sul mio conto e ora mezza scuola credeva che fossi una poco di buono. Se lui andava a letto con tutte le ragazze della scuola era da considerarsi un eroe, ma io, che tra l’altro non avevo fatto nulla di ciò andava in giro a raccontare, ero stata fatta passare per la sgualdrina della situazione. Robe da pazzi.
Non ero una persona vendicativa, non lo ero mai stata, perlomeno, ma se Petrovic pensava che gliel’avrei fatta passare liscia si sbagliava di grosso. Aveva pestato i piedi alla ragazza sbagliata, decisi in quel momento, e alla prima occasione se ne sarebbe pentito.
E poi c’era l’altra questione, la questione con due occhi grigi e una spiccata tendenza a irritarmi di proposito. La questione che mi sedeva di fianco in quel momento. Guardai Patterson con la coda dell’occhio e mi domandai per l’ennesima volta cosa diavolo ci facessi seduta nella sua macchina.
Era vero, negli ultimi mesi, da quando lui aveva cominciato a uscire col mio gruppetto di amici, avevamo iniziato ad avvicinarci anche noi due, seppur a modo nostro, ma non potevo ancora considerare Matt un amico, né era una persona che mi ispirava particolare fiducia. Nonostante i passi in avanti compiuti da entrambi durante il precedente anno scolastico, l’estate ci aveva allontanati di nuovo e subito dopo mi era sembrato di dover ricominciare da zero, con lui. Poi però quella mattina era venuto a cercarmi – o forse no, forse mi aveva trovata per caso, non gliel’avevo nemmeno chiesto ­– e mi aveva quasi consolata per la storia del mio armadietto. Diamine, mi aveva addirittura detto che con l’alcol cominciavo a piacergli di più.
Cosa accidenti significava quella frase, poi? Lì per lì non ci avevo dato peso, ero troppo presa dalla situazione per soffermarmi su quel particolare, ma ora che ci riflettevo… Beh, non sapevo davvero cosa pensare.
Lanciai una seconda occhiata a Matt, che guidava in silenzio. Probabilmente intendeva solamente dire che quando beveva un paio di birre riusciva poi a trovare la mia compagnia più tollerabile. Era una cosa che accadeva anche a me: tutto sommato, a partire da quella volta alla festa di Ramirez, ogni volta che bevevamo qualcosa insieme Patterson sembrava diventare più umano e meno insopportabile.
Ma si trattava davvero solo di questo? Aveva detto che con l’alcol cominciavo a piacergli di più e che la cosa non andava bene. Che intendesse che gli piacevo da un punto di vista… Romantico? Fisico? Naah, era impossibile, non l’avrebbe mai spifferato con tutta quella tranquillità.
Sbuffai, frustrata da quell’enigma. La verità era che in genere ero brava in queste cose, capivo al volo quando un ragazzo stava flirtando con me e che cosa volesse ottenere. Ero sveglia e maliziosa al punto giusto, non ero un riccio come Jude né ero ingenua come Audrey; ci sapevo fare, a detta di tutti. Eppure quando si trattava di Patterson diventavo insicura e mi riempivo di dubbi, mi sembrava che lui cambiasse atteggiamento nei miei confronti ogni due per tre e non capivo il suo gioco. Non credevo che ci avesse mai provato davvero con me e, anche se ogni tanto mi aveva dato l’impressione di flirtare, era sempre talmente enigmatico che era impossibile dirlo con certezza, pure per me.
Tornai a guardarlo, concentrata nei miei pensieri. Era un po’ corrucciato, aveva una leggera rughetta tra le sopracciglia e, forse, delle occhiaie appena più marcate del solito, ma era comunque carino da far schifo. Teneva gli occhi fissi sulla strada, ma sembrava sciolto alla guida, sicuro come io non sarei mai stata, anche perché mio padre mi permetteva di usare la macchina solo per brevi tratti.
Quando Matt parlò, ovviamente, la sua voce mi colse di sorpresa e tornai subito a fissare un punto davanti a me.
“L’hai presa piuttosto seriamente la faccenda del non dire più una parola,” disse, con un tono vagamente ironico.
“Potresti ricambiarmi il favore con la stessa moneta.”
“Avanti, Gray, ho notato come mi fissi. So che ti stai facendo violenza psicologica per non chiedermi dove stiamo andando.”
Era da un po’ che non stavo pensando a quello, in realtà, ma era meglio che lui continuasse a crederlo. Sperai di non essere arrossita e puntai gli occhi fuori dal finestrino, notando che in effetti non avevo idea della nostra ubicazione in quel momento. Di sicuro eravamo usciti da Winthrop, ma non mi pareva ci stessimo dirigendo verso Boston, la città più vicina, perché conoscevo la strada per arrivarci.
“Non mi interessa,” mentii spudoratamente.
Lui mi fissò la nuca per un paio di secondi, ma non commentò ulteriormente.
Qualche minuto più tardi eravamo in aperta campagna e Matt imboccò una strada sulla destra, alla fine della quale c’era un grande spiazzo in ghiaia con qualche macchina e un camion parcheggiati. Ci fermammo lì anche noi, Patterson parcheggiò in un posto a caso, si slacciò la cintura di sicurezza e mi guardò, indeciso se dire qualcosa, prima di scendere dall’auto.
Lo imitai e mi guardai attorno, stranita. Dal parcheggio partiva una stradina, sempre in ghiaia, che portava a una serie di edifici bassi ed estesi in lunghezza, dietro i quali vedevo solo campagna, prati, qualche recinto e degli animali non meglio identificabili da quella distanza.
Patterson non disse niente, si limitò a chiudere la macchina e incamminarsi con sicurezza verso gli edifici, io lo seguii con qualche titubanza, non sapendo che altro fare. Eppure a quel punto ero decisamente troppo curiosa per riuscire ancora a tacere, quindi, nonostante le mie intenzioni, alla fine cedetti.
“Dove siamo?” gli domandai, cercando di stagli dietro.
“Appena fuori Beachmont,” rispose lui senza nemmeno girarsi.
“Questo l’avevo intuito, dato che non siamo andati verso Boston. Ti domandavo cos’è quel posto dove siamo diretti, genio.”
“Sei cieca o cosa?”
“Senti, Patterson, posso anche capire che tu…” iniziai mentre acceleravo il passo per raggiungerlo, ma bloccai da sola il fiume di parole che stava per uscirmi dalle labbra quando riconobbi l’edificio davanti a noi. “Mi hai portato in un maneggio?”
C’era il tipico odore delle stalle, che di sicuro non era il massimo ma che avevo imparato a riconoscere come familiare quando avevo fatto equitazione per qualche tempo, anni prima, e ora che ci eravamo avvicinati potevo anche notare i recinti e diversi cavalli che trottavano allegri al loro interno.
Matt nemmeno mi rispose, ma io ricordavo bene il prom dell’anno precedente, quando gli avevo confessato che tra la miriade di attività che avevo provato da bambina l’equitazione era l’unica che mi aveva appassionata davvero. Non credevo fosse un caso che mi avesse portata proprio in un maneggio.
“Io non ho soldi con me,” mi ricordai all’improvviso.
“Non è un problema,” rispose lui con distacco.
“È un problema, sì! Non voglio che mi paghi qualcosa tu, poi ti rifiuti di accettare che ti torni i soldi e non va bene. E comunque…”
“Placati, Gray. Non ti pagherò assolutamente niente, ma non è un problema se non hai soldi.”
Sbuffai e continuai a seguirlo, decisa a rifiutare altri regali da parte sua. Ma, già quando superammo la hall del maneggio e ci incamminammo verso le stalle con i cavalli, capii che in quel posto Patterson conosceva chiunque e che con ogni probabilità era per quel motivo che aveva assicurato che non avrebbe pagato per me.
“Sono tutti tuoi amici qui?” chiesi a Matt mentre lui prendeva con sicurezza la strada per un box davanti al quale ci fermammo.
“Più o meno,” rispose, senza spiegarsi ulteriormente.
Poi entrò nel box lasciando la porticina semi aperta, e io cominciai ad agitarmi di nuovo.
“Ma puoi entrare?” domandai guardandomi intorno nervosa.
“Direi proprio di sì.”
“Perché? Conosci il proprietario del cavallo? Nessun dipendente del maneggio ci ha detto che potevamo venire fin qui, non è che magari…”
“Rilassati, Gray, non stiamo facendo niente di illegale,” mi interruppe lui.
“A parte bigiare la scuola,” mormorai io a bassa voce. “Allora, chi è quell’incanto?” feci poi, indicando il cavallo che Matt aveva preso a carezzare amorevolmente sul muso mentre, addirittura, gli sussurrava qualche parola dolce a mo’ di saluto.
“Lei è Amber,” spiegò lui sottolineando il sesso dell’animale. “Ed è mia.”
Rimasi a bocca aperta per qualche istante prima di trovare le parole per rispondere. “Tua nel senso che… Vieni spesso qui? A trovarla?”
“No, mia nel senso che i miei genitori me l’hanno comprata e,” fece una smorfia, come se gli costasse ammettere ciò che stava per dire, “la mantengono in questo maneggio da cinque anni.”
“Ah,” asserii solamente, senza sapere cos’altro aggiungere.
Stetti qualche minuto in silenzio, fuori dal box, solo a osservarlo mentre dava qualcosa da mangiare ad Amber e recuperava una spazzola per strigliarla. Dopo un po’ Matt alzò gli occhi e mi guardò serio.
“Non entri?”
“Posso?” chiesi, già elettrizzata all’idea.
“Da quando ti fai così tanti problemi, novellina?”
Alzai gli occhi al cielo mentre aprivo la porticina ed entravo nel box. “Non conosco il suo carattere, magari è buona solo con te.”
Lui mi passò la spazzola e, prima di cominciare a usarla, carezzai dolcemente il muso dell’animale, attenta a non fare gesti bruschi che la spaventassero.
“È un test,” disse Patterson divertito. “So già che è buona, ma se sopporta la tua presenza significa che è davvero una santa.”
Lo fulminai con gli occhi prima di contrattaccare. “E comunque non volevo disturbarti. Eri così carino mentre parlavi con lei, sembravi quasi umano.”
Lo stavo prendendo in giro, ma sapevo che c’era un fondo di verità nelle mie parole: non avevo mai visto Matt così dolce e remissivo.
Lui fece un mezzo sorriso e mi distolse dai miei pensieri aprendo la porticina del box. “Visto che fai tanto la spiritosa, vediamo come te la cavi fuori di qui.”

Passammo la mattinata così, a prenderci cura di Amber e a farla passeggiare fuori dal suo box. Matt chiamò uno dei dipendenti del maneggio e fece in modo che io avessi dei pantaloni adatti a cavalcare, così quando uscii dagli spogliatoi vidi che avevano già sellato e preparato la puledra.
Erano diversi anni che avevo smesso con l’equitazione, perciò mi sentivo un po’ in ansia, ma cercai di non darlo troppo a vedere mentre mi avvicinavo al recinto. Patterson, non so come, lo intuì comunque.
“Sei nervosa?” mi domandò non appena fui abbastanza vicina.
Decisi di non mentire. “Un pochino.”
Charlie, il ragazzo di nemmeno trent’anni che lavorava lì al maneggio e che ci stava dando una mano, mi fece un sorriso incoraggiante. “Puoi stare tranquilla,” mi rassicurò. “Amber è davvero buonissima, e comunque starò qui con voi.”
Dopo appena pochi minuti, ad ogni modo, mi ricordai il motivo per cui avevo amato così tanto andare a cavallo quand’ero più piccola. Amber era intelligente e molto sensibile, nonostante fosse Charlie a seguirla e dirle cosa fare, lei percepiva ogni mio movimento e lo assecondava. All’inizio ero preoccupata, avevo paura di non ricordarmi e di non essere in grado di stare in sella, ma dopo i primi istanti mi resi conto di essere perfettamente a mio agio. Se ne accorse anche Charlie e, forte della sicurezza di Amber, ci spinse ad accelerare il passo e a muoverci al trotto: corsi più veloce per qualche tempo, il vento sulla faccia, la sensazione di libertà che finalmente ritrovavo dopo anni.
Finita la corsa, mio malgrado, dovemmo riportare Amber nel suo box e sistemarla, prima di dirigerci al piccolo bar del maneggio: ormai era ora di pranzo e noi non avevamo minimamente pensato all’eventualità di dover mangiare fuori dalla mensa scolastica, quindi prendemmo due panini e dell’acqua lì. Poi, mentre io mi cambiavo per rimettere i miei vestiti, Matt andò a recuperare un asciugamano da mare che aveva ancora in macchina, lo stendemmo su un prato che si trovava non lontano da dove avevamo parcheggiato e ne usammo un pezzetto a testa.
Alla fine, dopo aver mangiato, ci ritrovammo stesi per metà sull’asciugamano e per metà fuori, entrambi con le gambe poggiate sull’erba tagliata di recente. Chiusi gli occhi e forse sonnecchiai anche un po’, non lo ricordo. Quello che ricordo bene, invece, è che quando riaprii gli occhi Matt aveva tirato fuori un libro dal proprio zaino e lo leggeva completamente risucchiato da esso.
Non avevamo parlato molto fino a quel momento, prima la mia attenzione era stata assorbita da Amber e dalla cavalcata, poi avevo chiacchierato con Charlie di cavalli e del suo lavoro lì, infine ci eravamo messi a mangiare e Patterson mi era sembrato poco propenso a spiccicare parola. D’altro canto io restavo una chiacchierona di natura, perciò non potevo trattenermi a lungo e, quando riuscii a vedere la copertina del libro, gli domandai spiegazioni.
Madame Bovary?”
Lui alzò gli occhi dal testo e mi guardò stupito. “Lo dobbiamo leggere per Francese,” spiegò celere, senza però chiudere il libro.
“Quindi è la versione originale?”
“No, è tradotto. È per Letteratura. La Chastain vuole farci leggere un libro a semestre.”
Annuii piano e Matt tornò a posare gli occhi sulle pagine del libro, ma io non avevo ancora finito.
“In effetti ti facevo più tipo da Hemingway o cose così,” dissi in uno sbadiglio, mentre mi mettevo più comoda, stesa a pancia in su con la testa appoggiata alla mia borsa.
“Faccio un po’ fatica con Hemingway, a dire il vero,” rispose lui senza spostare l’attenzione dal libro.
“Davvero?”
Lui sentì il mio stupore e si affrettò a spiegarsi. “Non intendo che faccio fatica a leggerlo, solo che trovo le sue tematiche lontane dalla mia visione. Ma è soggettivo, immagino.”
Ci riflettei un attimo prima di replicare. “In quel senso, allora, faccio anch’io un po’ fatica con Hemingway. È stato un grande scrittore e so che dovrei leggere tutto quello che ha prodotto, ma devo essere dell’umore giusto per mettermici.”
Patterson annuì senza dire niente e restammo in silenzio per qualche minuto. Per sua sfortuna io non avevo niente da leggere, mi annoiavo e, quand’era così, non riuscivo proprio a trattenermi dal parlare per troppo tempo di fila.
“Immagino che la tua famiglia paghi un sacco per tenere Amber in un posto come questo,” buttai lì senza malizia, solo con l’intento di chiacchierare.
“Immagino di sì,” confermò lui senza sbilanciarsi.
“Non lo sai? Io so solo che comprare e mantenere un cavallo sarebbe stato proibitivo per la mia famiglia. Sei fortunato.”
Matt mi guardò per la prima volta da qualche minuto, poi dovette decidere che era inutile intestardirsi a leggere quando io volevo così caparbiamente rovinargli i piani, così chiuse il libro e lo ripose nello zaino alle sue spalle, prima di stendersi nella mia stessa posizione e rispondermi.
“È quasi l’unica cosa che mi faccio ancora pagare dai miei, con il solo stipendio estivo non potrei mai permettermela.”
Stavo per domandargli il perché, curiosa di sapere che tipo di rapporto avesse coi suoi genitori per arrivare a dire cose del genere, ma mi trattenni all’ultimo per non risultare troppo invadente e Patterson ne approfittò per cambiare argomento, evidentemente ansioso di non parlare più di se stesso.
“Non ti manca la California?” mi chiese quindi, dal nulla. “Qui dev’essere tutto così piatto rispetto a una città come Oakland.”
Feci una smorfia seguendo i movimenti di una nuvola sopra di me. “Non tanto. Tutto sommato viviamo non troppo lontano da Boston, ho sempre pensato che fosse un buon compromesso il trasferirsi qui.”
Lui sbuffò piano e io ridacchiai, decidendo quindi di essere sincera.
“No, non è del tutto vero. All’inizio l’ho odiato, il trasferimento, ho odiato tutto di Winthrop: la scuola, le persone, persino il mare, l’oceano, che mi ricordava tanto il mio oceano, il Pacifico della West Coast. Poi Oakland è attaccata a San Francisco, ti puoi immaginare il tipo di vita che c’è lì.” Presi fiato, ma non mi fermai. “Alla fine mi sono adattata. Sono piuttosto brava, sai, ad adattarmi. Col tempo Winthrop ha finito per piacermi.”
“Perché un compromesso?” mi domandò Matt.
Non capii subito quello di cosa stesse parlando. “In che senso?”
Lui ne approfittò per prendermi in giro, ovviamente. “Parli talmente tanto che non ti ricordi neanche tu quello che dici,” ridacchiò divertito.
Gli tirai un pugno fiacco sul fianco e lui continuò. “Hai detto che è stato un buon compromesso trasferirsi qui.”
“La vita non ci andava troppo bene a Oakland. Alla mia famiglia, intendo.” Sospirai, incerta se continuare o meno, ma alla fine non riuscii a trattenermi. “Mia madre è stata fortemente depressa per degli anni, prima che ci trasferissimo a Winthrop. Ebbe un brutto aborto quando io avevo all’incirca otto o nove anni, e da quel momento alternò momenti di umore stabile a periodi di depressione nera, in cui non si alzava nemmeno dal letto per giorni interi. Sembrava una situazione senza via d’uscita e inoltre mio padre aveva problemi sul posto di lavoro. Così, mentre mia madre sembrava pian piano riprendersi, papà decise di licenziarsi e trasferirsi. Qui c’è mia nonna materna, ci ha aiutati tantissimo. Credo sia stata la scelta più giusta e, anche se avrei preferito per mille motivi restare in California, non rimpiango quei bruttissimi momenti. Fu un incubo anche per me vedere mamma stare così, ed ero solo una ragazzina. Per questo non ho mai contestato la scelta di papà, né ho dato a vedere come la pensavo, in una situazione del genere mi sembrava stupido mettermi a fare i capricci.”
Mi ero decisamente lasciata andare: non sapevo perché gli avevo raccontato tutte quelle cose, lui non mi aveva chiesto niente di specifico e comunque non aveva insistito perché entrassi nei particolari. Evitai di spostare lo sguardo su di lui e mi zittii per diversi minuti di fila, convinta di averlo messo in imbarazzo e di avergli dato un ulteriore motivo per starmi alla larga: la pena. Non volevo che le persone provassero compassione per me e per la mia storia, stavo bene ora.
Stavo quasi per alzarmi e cercare una scusa per chiedergli di tornare verso casa – ormai non mancava molto all’orario in cui saremmo dovuti rientrare, ad ogni modo – quando Matt mi stupì parlando per primo.
“Conosco Thomas Petrovic da quando eravamo piccoli,” confessò all’improvviso, come se gli avessi chiesto spiegazioni sulla faccenda.
Non me l’aspettavo e per qualche secondo non seppi come reagire, era un cambio d’argomento talmente repentino che rasentava la follia. Ma alla fine, come sempre, la curiosità ebbe la meglio.
“Siete amici d’infanzia?” domandai, senza muovermi di un millimetro.
“Per niente. Non ci siamo mai stati molto simpatici, ma i nostri genitori si frequentavano. Si frequentano ancora, in realtà, fanno parte della stessa cerchia di ricconi snob.”
Parlava senza usare un’intonazione particolare, come se fosse una storia da niente che raccontava tutti i giorni, col suo solito modo di fare un po’ annoiato e casuale; eppure era impossibile non notare l’amarezza – la malinconia? – che traspariva dalle sue parole. Ormai mi aveva interessata, quindi lo incitai a continuare.
“Perché non frequentate la scuola privata? La Saint James, si chiama così, no? Come gli altri ricconi snob, dico.”
“La frequentavamo entrambi. Io ho scelto di cambiare scuola per fare il liceo pubblico, lui è stato espulso per dei motivi che non ho mai saputo bene. Non si comportava granché bene, adesso sembra essere migliorato, ma non con le ragazze, a quanto pare.”
“È per questo che… Beh, che mi hai consigliato di non uscire con lui?” chiesi, un po’ indecisa su come porre la domanda.
Sentii Matt sistemarsi lo zaino sotto la testa prima di rispondere. “Anche, sì. Ho presente il personaggio, diciamo.”
“Perché hai lasciato la scuola privata?”
Ormai ci avevo preso gusto con le domande e anche se Matt non era un fiume di parole come la sottoscritta avevo notato che stava cominciando a rispondere. A modo proprio, usando meno sillabe possibile, ma rispondeva.
“Non mi piaceva più quell’ambiente. All’inizio ero anch’io il tipico rampollo snob dell’alta società, ero un principino.”
Ridacchiai quando, con il sorriso nella voce, usò di proposito il termine che io avevo coniato per prenderlo in giro neanche troppo amichevolmente.
“Io l’ho sempre detto,” commentai infatti. “E poi?”
“Più vivevo in quella bolla, più mi rendevo conto che non era il posto per me. Forse con un po’ di pelo sullo stomaco avrei potuto finire le scuole lì e uscire pronto per qualsiasi college del paese, ma non ho retto.”
“Perché eri troppo snob anche per gli snob,” lo presi in giro, sapendo di poter scherzare con lui, a quel punto.
“Esatto,” rispose Patterson con tono fintamente altezzoso. “Almeno alla Winthrop High posso trattare tutti per ciò che sono: plebaglia.”
Ridacchiai appena, poi tornai seria per fargli un’altra domanda, una ancora più personale, a cui non sapevo nemmeno se avrebbe voluto rispondere: si basava su di un’ipotesi che avevo costruito in base a ciò che mi aveva detto in precedenza, magari stavo per fare un buco nell’acqua. Non mi tirai comunque indietro.
“È stato il trasferimento il motivo della rottura coi tuoi genitori? Insomma, il fatto che vuoi mantenerti e tutto il resto…” blaterai, gesticolando senza rendermene conto.
Matt rifletté qualche istante sulla possibilità di darmi o meno una risposta, poi sospirò. “No, i problemi c’erano da prima. Mio padre era sempre assente per lavoro, mia madre era anaffettiva. Sono ancora così, entrambi. Mi ci sono staccato per necessità, non voglio diventare come loro.”
Trattenni quasi il fiato, colpita dalla durezza delle sue parole. “È una decisione… coraggiosa. Insomma, a nemmeno diciotto anni.”
Lui rispose come se fosse una cosa da nulla. “Cerco solo di mantenermi per quello che posso, con lavoretti part-time ed estivi. E da qualche mese sono andato a vivere nella dependance della nostra villa. Non è molto. Sono sempre a casa loro.”
Era da qualche tempo, ormai, che immaginavo degli strani equilibri nella famiglia Patterson: mi ero ritrovata a fantasticare sulle poche informazioni racimolate in giro e sulle pochissime parole dette da Matt in proposito, pensando che ci dovesse essere qualcosa di non troppo chiaro. Eppure mai avrei pensato a una situazione simile. Matt era ricco, poteva avere tutto ciò che voleva, ma aveva deciso di allontanarsi da quell’agiatezza e dai propri genitori perché, probabilmente, non si sentiva abbastanza amato da loro.
Improvvisamente, senza sapere come fosse successo, mi ritrovai a essergli grata. Mi ero sbilanciata troppo raccontandogli la storia di mia mamma, gli avevo parlato di cose che non avevo mai confessato a nessuno, mi ero mostrata a lui per la prima volta senza quella corazza che ero solita mettere di fronte a quasi tutti. Matt doveva averlo capito e, anche se con qualche difficoltà, aveva deciso di raccontarmi a sua volta qualcosa, per togliermi dall’imbarazzo. Era come se non volesse mantenere quella posizione di vantaggio che io gli avevo consegnato rivelandogli la mia situazione familiare: senza rendersene conto mi aveva restituito quel vantaggio e, così facendo, mi aveva dato una fiducia che non sapevo nemmeno se era meritata.
Perciò sì, gli fui grata, sentii il mio cuore riempirsi di una strana sensazione di leggerezza che interpretai come riconoscenza. Ma non riuscii comunque a ringraziarlo.
“Mi dispiace,” dissi invece, girando appena la testa per guardarlo.
Durante quella conversazione eravamo rimasti stesi sul prato, con le teste appoggiate ai rispettivi zaini, guardando il cielo pur di non far incontrare i nostri sguardi. Quando mi girai verso Matt anche lui si voltò, si mise su un fianco puntellandosi su di un gomito e mi guardò dall’alto.
Fece una smorfia e poi un sorriso stiracchiato. “Ci sono cose peggiori,” commentò pragmatico.
“Già,” risposi io, stranamente a corto di parole.
Aveva ragione, c’erano cose decisamente peggiori al mondo, e anche se a nessuno di noi due la vita stava riservando un trattamento facile, non potevamo certo dirci sfortunati nel vero senso della parola. Anzi, forse Matt era messo pure peggio di me: io avevo avuto i miei problemi in famiglia, ma almeno avevo dei genitori che mi volevano bene e che me lo dimostravano ogni giorno.
Fu di nuovo lui a rompere il silenzio, facendo un’espressione pensierosa. “Siamo un bel duo di sfigati.”
Drizzai la schiena per sembrare più altezzosa e mi alzai appena appoggiandomi a mia volta all’indietro sui gomiti, avvicinandomi inevitabilmente a lui che continuava a guardarmi dall’alto.
“Pensa per te, principino, io sto benissimo,” gli risposi, fingendomi offesa. “E poi oggi sarei io quella lagnosa,” aggiunsi a voce più bassa, per sottolineare che mi ricordavo ciò che mi aveva detto appena qualche ora prima.
Matt scoppiò a ridere alla mia espressione oltraggiata ed io, non so perché, rimasi totalmente incantata dall’immagine di quella risata, dai suoi occhi per una volta così luminosi, dalla piccola fossetta che gli si formava sulla guancia mentre sorrideva in quel modo. Così, quando notai quanto fossimo vicini, di riflesso mi sporsi verso di lui e socchiusi le labbra, ancora confusa per tutto ciò che stava accadendo. Lui smise immediatamente di ridere e mi guardò perplesso, ma fu solo quando vidi i suoi occhi diventare da stupiti a esitanti che mi resi conto di quello che stavo facendo e mi allontanai di scatto, mettendomi seduta.
Mi ero avvicinata a Matt Patterson aspettandomi che si sporgesse per baciarmi. Come se fosse una cosa naturale, che succedeva tutti i santi giorni. Come se non mi ricordassi che lo odiavo, che mi odiava, che un bacio tra noi due probabilmente avrebbe causato la distruzione del mondo e lo sgretolamento dell’intero universo. Merda.
Il cuore mi batteva talmente forte nel petto che pensavo sarebbe uscito per fuggire – almeno lui – da un momento all’altro, ma finsi indifferenza, mi schiarii la gola e parlai per prima.
“Andiamo? Si è fatto un po’ tardi, non vorrei che i miei si insospettissero. Anche se in realtà devo andare da mia nonna oggi pomeriggio, forse lei non sa nemmeno a che ora finisco scuola. O magari sì, non saprei. Non mi ricordo se gliel’ho detto.”
Mentre blateravo mi alzai in piedi e mi lisciai la gonna per pulirla dall’erba, ma non guardai mai nella direzione di Patterson, anche se sentivo il suo sguardo su di me. Alla fine decise di non rispondere, si alzò a sua volta e raccolse l’asciugamano da terra, poi lo sbatté e lo piegò, si caricò lo zaino sulle spalle e mi lanciò un’altra occhiata.
Annuii, piuttosto stupidamente visto che non mi aveva posto alcuna domanda, e mi incamminai verso la macchina.
“Immagino che valga di nuovo la regola del non parlare,” biascicai una volta entrata, mentre mi allacciavo la cintura.
L’idea di fare un altro viaggio silenzioso con lui di fianco che controllava ogni mio movimento con la coda dell’occhio mi metteva addosso un’agitazione incredibile, a maggior ragione visto ciò che era appena accaduto, ma non potevo fare altrimenti. Anche volendo non avrei saputo cosa dire e avevo paura che iniziando a parlare mi sarei messa a sparare cazzate a raffica come al mio solito.
“Veramente la regola dice solo di non usare frasi troppo lunghe,” puntualizzò Matt, mettendo in moto l’auto.
Non riuscii a trattenermi. “Per te non c’è pericolo, mi sa,” borbottai a bassa voce, quasi indignata dalla sua non-reazione fino a quel momento.
Lui prese fiato per rispondermi, ma alla fine si limitò a sospirare piano senza dire niente, per non smentirsi. Non aveva intenzione di dire alcunché per provare a togliermi – toglierci – dall’imbarazzo, sembrava assolutamente impermeabile a ogni mio commento. Però notai che teneva un’andatura più veloce dell’andata, anche se non avevamo davvero fretta di arrivare, dal momento che eravamo abbondantemente in anticipo sul suono della campanella: forse anche lui voleva accorciare quel viaggio il più possibile, dunque.
Eravamo ormai su un rettilineo nelle campagne fuori Winthrop ed eravamo in silenzio da un buon quarto d’ora, quando Matt si fece prendere da un’eccessiva smania di arrivare e accelerò più del dovuto. Il secondo successivo avevamo una volante della polizia alle spalle con i lampeggianti accesi, a intimarci di fermare la macchina a bordo strada.
“Cazzo,” imprecò Patterson rallentando e accostando sulla destra, le mani strette sul volante con tanta veemenza da avere le nocche bianche.
“Non è una macchina rubata, vero?” domandai con tono piatto, non sentendomi nemmeno in grado di fare battute di spirito.
Lui mi lanciò un’occhiata furibonda, come se fosse davvero, davvero incazzato con me, ed era la prima vera reazione emotiva che gli vedevo avere da quando avevamo lasciato il maneggio, da quando mi aveva guardato le labbra con aria indecisa, per la precisione. Il mio cuore accelerò in protesta: non aveva il diritto di essere arrabbiato con me.
Non facemmo in tempo a dire nient’altro, perché l’agente che era sceso dalla volante batté sul finestrino di Matt, che si voltò sospirando e abbassò il vetro.
“Documenti, prego,” fece serio il poliziotto dopo aver guardato bene dentro l’auto.
Patterson si sfilò il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e gli diede la patente, poi si sporse verso di me e io sussultai appena prima di rendermi conto che voleva prendere le carte della macchina dal vano portaoggetti davanti al mio sedile. Mi spiaccicai allo schienale per non sfiorarlo nemmeno per sbaglio, ma sentivo comunque il profumo dei suoi capelli e la cosa mi destabilizzava vagamente. Per fortuna la ricerca finì in fretta e, trovati quei dannati documenti, Matt si rimise dritto al proprio posto.
Chiusi brevemente gli occhi, sospirando, mentre l’agente controllava ciò che gli aveva passato Patterson.
“E lei, signorina?”
Riaprii gli occhi di scatto e notai che, com’era prevedibile, il poliziotto stava parlando con me.
“Cosa?” domandai sentendomi estremamente stupida per la milionesima volta quel giorno.
“Posso vedere un documento?”
Sentii distintamente un brivido corrermi lento lungo la schiena nell’istante in cui realizzai che, non avendo con me il portafoglio, non avevo alcun documento da esibire.
“Io veramente… Cioè, vede, oggi non ho con me il… E quindi… No-non pensavo che, insomma…” balbettai senza ritegno.
Matt alzò gli occhi al cielo e provò a rispondere al posto mio. “Sta cercando di dire che ha dimenticato il portafogli a casa. Ma può vedere da lei che non è molto pericolosa, agente, al massimo è pericolosamente sbadata.”
Quindi il principino sapeva ancora bene come parlare: mi indignai, ma non ero certo nelle condizioni di rispondergli per le rime.
Il poliziotto ci scrutò serio prima di iniziare la ramanzina. “Non farei tanto lo spiritoso, se fossi in lei. Stava correndo ben oltre il limite di velocità concesso in questo tratto, è minorenne, immagino che lo siate entrambi, e la sua amica è senza documenti. Potrei anche pensare che siate fuori da scuola senza il permesso dei vostri genitori.”
Trattenni il fiato, nel panico più totale: eravamo spacciati. Mio padre si fidava di me, me se avesse scoperto che avevo saltato la scuola avrei fatto la muffa per sei mesi in camera mia prima che mi concedesse nuovamente il permesso di uscire.
L’agente, infatti, non aveva ancora finito. “Non ho intenzione di perdere tempo portandovi in centrale, ma se poteste darmi un recapito telefonico cada uno per verificare se…”
“Foreman?”
La voce maschile che aveva interrotto il predicozzo proveniva dalla spalle del poliziotto, che si voltò per rispondere. Mi attaccai istintivamente al braccio di Matt, in ansia, e lui fissò perplesso, senza commentare, le mie mani aggrappate al suo bicipite. Lo mollai e mi misi a stritolarmi le dita; Patterson scosse la testa e guardò fuori dal finestrino. Non potevamo vedere chi aveva parlato, ma intuimmo che si trattava di un altro agente che era uscito dalla macchina dallo scambio di battute successivo.
“Tutto okay?”
“Sì.”
“Ci stai mettendo più del previsto, c’è qualche problema?”
“Sono due minorenni, volevo verificare che avessero le carte in regola per essere fuori da scuola a quest’ora.”
“Ah.”
Il poliziotto numero due, di cui vedevo solo il busto, si piegò per lanciare un’occhiata dentro la macchina, si rialzò e poi si riabbassò strabuzzando gli occhi mentre mi guardava meglio.
“Porca troia,” imprecai a bassa voce, riconoscendolo all’istante.
Era Chris, il ragazzo che avevo conosciuto qualche mese prima al Platinum. Notai che la sua divisa era leggermente diversa da quella del suo collega e pensai che magari non aveva ancora finito l’Accademia di Polizia. In realtà non sapevo se fosse un bene o un male il fatto di aver trovato proprio lui, ma cominciai in cuor mio a sperare di non finire in carcere o, più verosimilmente, in punizione per il resto della mia vita.
“Conosco la ragazzina, Foreman,” disse infatti Chris all’altro, e io sbuffai per quel ‘ragazzina’.
Quando Patterson mi guardò interrogativo, mi limitai a scrollare le spalle, ascoltando il resto della conversazione.
“Bene,” fece Foreman. “È senza documenti, almeno adesso potremmo identificarla.”
“Conosco anche i suoi genitori,” mentì Chris, con un tono talmente deciso da risultare più che credibile. “È una brava ragazza, sono sicuro che non sta facendo niente di male. Se la cosa ti fa sentire più tranquillo stasera faccio una chiamata a sua madre per verificare che sia tutto a posto.”
L’altro tentennò, era un vero osso duro. “Sei sicuro?”
“So che tecnicamente non sono ancora un agente, ma… Lascia fare a me, va bene? Gli do una bella strigliata per l’eccesso di velocità e li rimando a casa. Credo ci fosse qualcosa di più importante alla radio, poco fa, prova ad andare a controllare.”
Alla fine l’aveva convinto: il poliziotto annuì e si diresse verso la volante, mentre Chris si abbassò sul finestrino e mi lanciò un’occhiataccia.
Graziegraziegraziegraziegrazie,” lo investii non appena fui certa che ci fossimo liberati del collega rompipalle, sporgendomi persino su Patterson per la foga senza rendermene conto. “Non ti ringrazierò mai abbastanza.”
“Il che mi fa pensare che stavate facendo davvero qualcosa di poco lecito,” rispose lui, ma la sua intonazione non era dura, era quasi scherzosa.
A quel punto intervenne Matt, silenzioso fino a quel momento. “Io ti ho già visto,” commentò, indeciso, guardando Chris. Poi si girò verso di me ed ebbe l’illuminazione. “Mi ricordo! Ci hai provato con lui al pub, vero?”
Gli mollai un pugno sul braccio, stavolta non molto scherzosamente. “Sei un idiota.”
“Beh, mica ti sto giudicando. Anzi, vista la situazione attuale hai fatto bene a provarci,” ribatté lui abbassando la voce e facendomi un sorriso gelido.
Evitai di mandarlo a quel paese solo perché Chris ci stava ancora osservando, perciò mi voltai verso di lui e lo ringraziai di nuovo.
“Figurati, il mio collega è sempre troppo pesante in questo genere di cose,” rispose lui. “Ma è la prima e l’ultima volta che ti paro il culo, Delia, ricordatelo.”
Abbassai la testa e annuii contrita. “Va bene,” mormorai.
Chris puntò un dito verso Matt. “E tu, ragazzino, stavi correndo un po’ troppo. Datti una regolata, non è una cosa su cui scherzare.”
Patterson fece un cenno col capo, ma mantenne la proprio espressione altezzosa e annoiata che, ormai, avevo imparato e riconoscere come una maschera.
“Dico sul serio,” lo redarguì infatti l’altro.
Mi premurai di intervenire per evitare altri problemi: era evidente che a Matt non andasse troppo a genio Chris, forse perché aveva chiamato anche lui “ragazzino”.
“Sì, ha capito. Scusalo, è che questa è proprio la sua solita faccia da schiaffi,” improvvisai, togliendomi la soddisfazione di prenderlo in giro a mio volta.
Chris sospirò e poi mi sorrise. “Okay, ragazzi, potete andare. Stammi bene, Delia.”
“Ci vediamo in giro?” gli chiesi prima che se ne andasse.
Matt sbuffò quasi impercettibilmente, mi ero sporta di nuovo su di lui.
“Tu cerca di non metterti nei guai,” ribatté lui allontanandosi.
Quando ripartimmo mi accorsi che, nonostante tutto, l’atmosfera nell’abitacolo non era migliorata di molto: entrambi eravamo silenziosi e poco propensi a scherzare l’uno con l’altra. Pigiai qualche tasto a caso sulla radio finché non trovai una stazione decente, alzai il volume e mi misi più comoda sul sedile. Patterson non commentò e quasi mi dispiacque di non averlo infastidito con quel gesto. Un quarto d’ora dopo, grazie a qualche indicazione data da me a mezza voce, eravamo davanti a casa di mia nonna.
Mi slacciai la cintura di sicurezza e mi allungai sui sedili posteriori per recuperare la mia borsa.
“Vado,” dissi quindi, aprendo la portiera. “Grazie per… Beh, per avermi fatto conoscere Amber.”
Matt fece il solito cenno con la testa e io, che nonostante tutto avevo fatto una fatica incredibile per riuscire a ringraziarlo, mi indispettii di nuovo per la sua totale mancanza di uno sforzo di gentilezza.
“Ci vediamo a scuola,” ringhiai mentre uscivo dall’auto.
“Ciao,” si degnò di rispondere lui.
Per tutto il pomeriggio mia nonna fu costretta a subirsi il mio malumore ingiustificato, ma sopportò con uno stoicismo tipico della sua età.
Alla fine mi chiusi in camera e parlai un’ora al telefono con Audrey, mentendole spudoratamente su tutta la parte che riguardava la presenza di Patterson nella mia gita al maneggio. Se la mia amica si insospettì non lo diede a vedere, forse anche perché era ancora preoccupata per la faccenda dell’armadietto, cosa che io avevo completamente dimenticato; infatti parlammo soprattutto di quello e dei mille e uno modi per vendicarmi su Petrovic.
Riuscì comunque a distrarmi e quando andai a dormire, decidendo per quella notte di restare a casa di mia nonna, ero un pelino più tranquilla, almeno finché non realizzai, un attimo prima di addormentarmi, che avevo lasciato il motorino a scuola e che il giorno dopo mi sarei dovuta alzare prestissimo per prendere l’autobus. L'ultimo pensiero di quella giornata costellata di alti e bassi fu quindi una nuova e poco fantasiosa maledizione nei confronti di Patterson.













Eccomi! Solo poche righe, perché vorrei riuscire a pubblicare subito e non ho molto tempo.
Il capitolo non mi convince molto. È una parte importantissima e ho paura di non averla resa al meglio. Commenti, please. <3
So che alcune speravano in un bacio, per lungo tempo sono stata indecisa se inserilo o no, ma ho già ben chiari nella mia testa i tempi della storia e non sono riuscita a modificarli. Spero di non avervi fatto imprecare troppo!
Non sono un esperta di cavalli, ho cercato (sigh) di stare sul vago, ma se ci fossero castronerie da correggere fatemelo pure sapere.
Il titolo del capitolo l'ho preso da questa canzone (click per il link): Take you away
Okay, chiudo qui! Un bacio grande grandissimo a tutte, grazie a chi commenta, a chi ha aggiunto la storia nelle varie liste e a chi mi segue. Alla prossima.
  
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