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Autore: Milla Chan    15/01/2017    3 recensioni
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi.
[KuroKen + altre coppie secondarie] [Tokyo Ghoul!AU, ma non è necessario seguire l'opera]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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My hands are of your colour, but I shame to wear a heart so white
 
Kuroo aveva cominciato a lavorare al Nekoma da poco più di una settimana. Si svegliava presto, si preparava e usciva dall’appartamento senza far rumore per non svegliare Kenma.
All’inizio era stato strano, per il più piccolo, svegliarsi e rendersi conto di essere completamente solo. Si sentiva un po’ in colpa, un po’ inutile, forse. Pervaso da una nostalgia sconfortante, si faceva una lunga doccia durante la quale, puntualmente, finiva per perdersi nei suoi pensieri e fissare il vuoto.
Quando saliva poi al piano di sopra più in fretta che poteva ed entrava nel Café, si sedeva in un angolo e si lasciava circondare dai gatti. Un po’ lo tranquillizzava guardare Kuroo fare su e giù tra il bancone e i tavoli, e salutarlo di tanto in tanto. Erano nella stessa stanza, sapere che lui era lì era rassicurante, poteva giocare tutto il giorno al Nintendo e lasciarsi scivolare tra i cuscini mentre un paio di gatti strusciavano la testa contro il suo braccio, senza dover per forza pensare ad altro.
Avrebbe potuto dire che quello era il paradiso, ma non ce la faceva. Non riusciva ad ignorare il peso che gli comprimeva il petto, non riusciva a strapparsi via dagli occhi l’immagine dei suoi genitori riversi a terra.
Faticava a dormire, perché non appena le barriere della coscienza si abbassavano per lasciarlo scivolare nel sonno, subito nella sua mente prendeva luogo una dettagliata rievocazione di tutto ciò che era stato costretto a vedere e rivivere le stesse sensazioni, con la stessa intensità, era insopportabile.
Pensava che avrebbe potuto comportarsi diversamente, che se magari fosse tornato a casa prima non sarebbe successo, per qualche motivo che non sapeva spiegare neanche lui. Lo distruggeva risentire la voce di sua mamma nel dormiveglia e a volte gli sembrava di provare ancora quel calore infernale, in realtà dovuto alle troppe coperte con cui cercava di dormire. Gli sbriciolava il cuore rendersi conto che non ricordava l’ultima volta che aveva detto ai suoi genitori che voleva loro bene.
Si sentiva come se dovesse costantemente tornare a casa, ma casa sua non c’era più e non avere un luogo a cui appartenere e sentirsi così perso era destabilizzante.
Erano passati solo dieci giorni dall’ultima volta che aveva mangiato e aveva paura di quando, da lì a qualche settimana, si sarebbe stufato di bere solo caffè e avrebbe iniziato a sentire il bisogno di mangiare. Pensare a quel giorno gli metteva una certa paura, perché non aveva mai provato quella sensazione, abituato com’era alla sua vecchia vita. L'idea di dover cacciare lo spaventava.
Lui e Kuroo avevano delle maschere, ora: erano stati accompagnati da un uomo sulla trentina, in piena notte, in una specie di strana sartoria. Era stato suggestivo entrare in quella stanza dall’aria pesante e nella quale aleggiava un pungente odore di pelle e di resina, farsi prendere le misure, decidere il design. Un po’ per abitudine, un po’ per dimostrare gratitudine al Nekoma, sia Kenma che Kuroo avevano deciso di attenersi al tema del gatto.
Appena vide la sua nuova maschera, appena la ebbe tra le mani, a Kenma piacque subito. Ciò lo sorprese, perché non pensava che sarebbe mai riuscito a trovare qualcosa che potesse superare quella vecchia. Aveva fatto realizzare un ovale bianco per coprire completamente il viso, sul quale spiccavano tre occhi gialli, felini, posti in verticale, e in alto sbucavano un paio di orecchie di gatto, grigie e appuntite. Quella di Kuroo, invece, era nera, e ricordava nella forma le maschere tradizionali delle kitsune. Aveva dei ricami rossi che ricordavano degli squarci sulla parte destra, dove ricadeva il suo ciuffo di capelli, mentre a sinistra era stato dipinto un grande occhio giallo.
Sapere che presto avrebbe dovuto iniziare ad usarla davvero, e non solo per bellezza, non per andare in un costoso ristorante, aveva un che di angosciante.
A quel punto c’erano davvero troppi fattori che disturbavano Kenma e lo rendevano inquieto.

Quella mattina si era svegliato con la gola chiusa dall’ansia. Non riusciva a muoversi, né a deglutire, e lo stomaco sembrava essersi fatto di pietra. Davanti ai suoi occhi, l’altro letto, quello di Kuroo, sfatto e vuoto.
Non seppe come riuscì a scendere dal suo materasso, gli sembrava di non potersi reggere in piedi, ma quando dopo due passi si stese e si avvolse tra le lenzuola di Kuroo, provò una sensazione di sollievo che non credeva possibile. In quello stato letargico, gli sembrò di essere sprofondato in un nido accogliente, una culla salvifica. Riuscì a inspirare e, come quel profumo familiare gli entrò nei polmoni, tornò a chiudere gli occhi. Si rannicchiò più che poté, la faccia quasi completamente affondata nel cuscino morbidissimo e il lenzuolo tirato fin sopra la testa. Era un bozzolo incredibilmente piacevole, tiepido e profumato.
Si era riaddormentato, e si era svegliato che era ormai pomeriggio. Si era stropicciato gli occhi e aveva tenuto le mani premute sulla sua faccia per qualche secondo, come se avesse voluto nascondersi, provando una sorta di vergogna nel rendersi conto che si era infilato nel letto di Kuroo.
Si era alzato, si era lavato, aveva frugato nel cassetto per prendere quello che era avanzato dei soldi che Nekomata aveva anticipato per permettere loro di acquistare il minimo indispensabile, ed aveva sceso le scale senza esitazioni, con il cappuccio alzato e le mani nelle tasche dell’enorme felpa di Hajime mentre camminava per le vie di Akihabara.

Il Nekoma era tranquillo e silenzioso, ma ben presto Kuroo si era trovato ad invidiare i gatti stesi sul parquet a godersi uno squarcio di sole che entrava dalla finestra, a rotolarsi sui tappeti o tra i cuscini.
Non era facile riuscire a stare dietro a tutto. Lavorava otto ore, fino alle quattro di pomeriggio, e c’erano sempre cose da fare e controllare, una certa qualità da mantenere per rendere quell’ambiente accogliente e rilassante per i clienti. Maneggiare il cibo degli umani era forse la cosa più rivoltante che avesse mai dovuto fare e sforzarsi di non assumere espressioni disgustate era una vera impresa. Gli altri camerieri sembravano esserci abituati e gli ripetevano che un giorno anche lui avrebbe fatto tutto con facilità, ma Kuroo non era stato del tutto persuaso da quelle parole e preferiva rimanere appiccicato alla macchinetta del caffè.
Ormai erano quasi le tre e Kenma non si era ancora visto, e una parte di Kuroo aveva iniziato a preoccuparsi, salvo poi essere sovrastata dalla mole di lavoro che doveva svolgere e dall’idea che, probabilmente, stava ancora dormendo, considerato fino a che ora indecente era rimasto sveglio la notte precedente per giocare.
 
Kuroo sentì la porta del Café aprirsi e, come sempre, si girò istintivamente per vedere il cliente, questa volta però sperando intimamente che si trattasse di Kenma. Smise di asciugare il bicchiere che aveva in mano e dovette sbattere gli occhi un paio di volte.
Una creatura dai capelli mossi e neri come il carbone e l’espressione neutra sembrava aver fermato il mondo per qualche secondo.
Appoggiò il bicchiere accanto agli altri e continuò a guardare quel ragazzo mentre prendeva posto ad un tavolino e appoggiava la tracolla sulla sedia accanto a sé con un sospiro stanco.
Kuroo si asciugò le mani nel grembiule dopo averlo cercato a tentoni e si stupì nel rendersi conto quanto fosse difficile smettere di guardarlo.
Aspettò qualche minuto prima di raggiungerlo per chiedergli cosa avrebbe voluto ordinare.
-Solo un caffè.- disse quello, tenendo gli occhi fissi su un quaderno pieno di appunti.
Kuroo strinse appena le labbra e ripose il taccuino nella tasca senza appuntarsi niente. Inspirò e fece una breve pausa prima di provare ad attaccare bottone.
-Vieni spesso qui? Sai, io sono stato assunto da poco.-
-Ogni tanto.- rispose l’altro senza particolare sforzo, alzando le spalle e sfogliando una pagina.
Avrebbe voluto guardarlo in faccia, più per curiosità che per altro, e gli dava fastidio la sua immobilità.
-Mi chiamo Kuroo, se hai bisogno di me sono dietro il bancone. Il caffè arriva subito.- disse, internamente scoraggiato, voltando la schiena per tornare indietro.
-Kuroo.- disse l’altro e, sentendosi chiamare, Kuroo si voltò.
Finalmente aveva alzato la testa, e vedere così da vicino l’armonia di quel viso e la forma allungata dei suoi occhi l’aveva ammutolito. Era la prima volta che non trovava ripugnante un essere umano. Anzi, lo trovava decisamente piacevole alla vista, tanto che più di una volta si chiese se i suoi sensi lo stessero tradendo: era un umano, davvero?
-Io mi chiamo Akaashi.- concluse prima tornare a leggere, mentre un gatto saltava con leggerezza accanto a lui e si accoccolava vicino alla sua borsa.
 
Akaashi mise via il quaderno solo quando Kuroo gli portò il caffè.
-Sembri preoccupato, tutto a posto?- chiese il cameriere.
L’altro alzò gli occhi su di lui, chiaramente riluttante a parlare.
-Sì.- mentì istintivamente, mentre avvicinava la tazzina a sé. Sembrò poi pensarci su, e Kuroo decise di aspettare. -… Credo sia solo un po’ di agitazione.- pensò a voce alta.
-Sei preoccupato allora, ho visto bene!- esclamò Kuroo ridacchiando e incrociando le braccia al petto. -Per cosa?-
Akaashi gli rivolse uno sguardo di disappunto e sorseggiò il caffè. -Non sono preoccupato, ho solo detto che… No, in tutta sincerità non ho alcuna voglia di parlarne con un estraneo.-
-Ascolta, non voglio farmi gli affari tuoi, ma questo è il posto giusto per rilassarsi: sei circondato da gatti, qui non si sente neanche tutto il rumore della folla, prendi un bel respiro e ricaricati.-
-Sono venuto qui perché l’intento era quello…-
-Qualsiasi cosa tu debba fare, andrà benissimo.-
Akaashi appoggiò un gomito al tavolo e posò le dita contro la tempia, abbassando gli occhi in silenzio. Kuroo non poté fare a meno di chiedersi a cosa stesse pensando.
-Quanti anni hai? Ho visto che leggevi degli appunti, se è qualcosa che riguarda la scuola, allora davvero non devi preoccuparti così tanto!-
-Sedici.- rispose Akaashi, lapidario e conciso, prima di tornare a bere il caffé. -Se la tua prossima mossa è chiedermi il numero di telefono, puoi anche tornare a servire gli altri clienti.-
-Cosa!?- gracchiò Kuroo con una smorfia, allontanandosi di mezzo passo: non voleva dare quell’impressione, e chiedergli il numero non era nelle sue intenzioni. -Stavo solo cercando di essere gentile! E per tua informazione, ce l’ho già una ragazza.-
Solo la seconda parte della frase era una bugia, ma sperò che non se ne accorgesse. Notò il vago sorriso che era apparso sulla faccia di Akaashi e il suo broncio si affievolì un poco, contento di essere riuscito a scalfire il suo nervosismo.
-Ad ogni modo, per oggi il caffè te lo offro io.- continuò Kuroo con un sospiro. -Sempre che il gesto non ti metta a disagio.-
-E tu non ci staresti provando.- asserì sarcastico Akaashi con un sopracciglio alzato.
-No. Sei carino, ma la mia è pura benevolenza.- rispose l’altro a denti stretti, schietto, chinandosi appena in avanti con gli occhi socchiusi.
Akaashi lo guardò per qualche secondo prima di scuotere la testa e ridacchiare sommessamente, coprendosi la bocca con le dita. Appoggiò la tazza vuota nel piattino e prese un lungo respiro.
-Spero solo che tu non faccia così con tutti i clienti.- commentò chiudendo la borsa e alzandosi in piedi.
-Eh? Te ne vai di già?-
-Sono in ritardo.-
Kuroo lo guardò con un velo di dispiacere mentre si avvicinava all’uscita.
-Buona fortuna!-
Akaashi stava per chiudere la porta dietro di sé, ma si fermò e indietreggiò quel tanto che bastava per guardarlo in faccia.
-Grazie.- disse con un’espressione tranquilla, prima di sparire.
 
-Hai già la ragazza, mh?- disse una voce con una nota di scherno.
Kuroo si voltò e vide Yaku che ridacchiava sotto i baffi mentre liberava il tavolo a cui fino a poco prima era seduto Akaashi. -E chi sarebbe?-
Kuroo si imbronciò e assottigliò lo sguardo per guardarlo in cagnesco. -Non sono affari tuoi!- strepitò afferrando uno straccio e iniziando a pulire il bancone con energia.
Yaku era suo coetaneo e, assieme a lui, era il cameriere più giovane del Nekoma. Era un ragazzino biondo e minuto, molto caparbio, ma spesso con idee totalmente contrapposte alle sue: da come fare il caffè a come prendere gli ordini, non sembrava che ci fosse qualcosa su cui andassero veramente d’accordo. Nonostante ciò, Kuroo non poteva affatto dire che gli stesse antipatico. Non aveva una brutta personalità, e sentiva che il conflitto tra loro  non era altro che un modo scherzoso di vivere una convivenza forzata.
-Non sarà mica il tuo amico silenzioso?- chiese con una cantilena, avvicinandosi a lui e rimboccandosi le maniche per sciacquare le stoviglie.
Kuroo si bloccò e lo guardò di sfuggita. -Chi? Kenma?- ridacchiò nervosamente, per poi tornare al lavoro. -Cosa te lo fa pensare?-
-Insomma, non sono qui per giudicarti, ma dal modo in cui lo guardi tutto il giorno, quando è qui, mi ha fatto pensare che magari… Non so, in tutta sincerità ho l’impressione che lo metteresti in una campana di vetro, se potessi.-
-Lo tengo solo d’occhio.- borbottò l’altro, sulla difensiva. -Siamo cresciuti insieme…-
-Kuroo.- Yaku sospirò sconfortato e continuò a tenere gli occhi fissi sulle tazzine che stava pulendo. -Non ci crede nessuno alla storia del “fratellone”.-
 
Akaashi Keiji era al secondo anno dell’Accademia per Investigatori di Ghoul. Camminava lungo la strada, verso la stazione, a passo spedito, ora con un po’ più di coraggio nel cuore.
Quel giorno era stata fissata per gli studenti del suo corso una visita speciale nella Sede Centrale della CCG. Il professore gli aveva spiegato cosa avrebbero fatto e visto, e Akaashi era rimasto a bocca aperta. Studiava per diventare Investigatore di Dipartimento, per lavorare negli uffici, non per avere contatti diretti con i ghoul.
Per quello, ciò che lo aspettava lo intimoriva.
 
“Io sono Bokuto Koutarou.”
Lo pensò chiaramente, scandendo le parole nella sua testa, la schiena appoggiata al pavimento duro e le palpebre chiuse. Le aprì, e l’accecante luce al neon gli fece restringere le pupille.
Sapeva contare solo fino a venti, ed erano trascorsi troppi anni perché riuscisse a tenere il conto dei giorni che aveva passato in quella gabbia: il tempo non era più una certezza. Giorno o notte, non lo sapeva. Non c’erano finestre, in quella grande stanza bianca piena di macchinari. Aveva contato fino a venti molte, molte, molte volte.
“Sono Bokuto Koutarou. Sono un ghoul. Se io sono un mostro…”
La sua unica certezza era il suo nome, e se lo ripeteva ogni giorno, perché sapeva che non doveva dimenticare, non doveva perdersi, non doveva annullarsi.
“… Gli umani allora sono mostri peggiori.”
Si mise a sedere e guardò senza emozione la griglia della gabbia che lo circondava da tutti e quattro i lati.
“Cose che sono: Bokuto Koutarou.”
Si sentiva pietrificato, cementato in un eterno incubo.
“Cose che non sono: esemplare 150410.”
 
-Gli è stato assegnato il numero 150410 perché non è altro che la data del suo ritrovamento. Qualcuno sa dirmi cosa è successo il 15 aprile 2010?-
-La Notte di Sangue.- risposero quasi in coro gran parte degli studenti.
Akaashi era agitato mentre camminava lungo il corridoio con i suoi compagni, il professore e alcuni Investigatori della CCG, diretto verso il laboratorio in cui veniva custodito e studiato quell’esemplare di ghoul.
-È importante che sappiate che una volta diventati Investigatori di Dipartimento, non vi occuperete solo della parte burocratica, ma anche di progetti come questi. Sono molte le informazioni che possiamo ricavare dallo studio di esemplari di ghoul vivi, ma riuscire a catturarne uno è un’impresa più unica che rara.-
Le porte di spalancarono e Akaashi entrò a passo sicuro, pervaso da una certa impazienza, con il quaderno e la biro in mano, pronto a segnare ogni appunto, mentre il professore invitava gli studenti a contenere il brusio che si stava facendo un po’ troppo forte. Davanti a lui c’era ancora troppa gente perché potesse vedere con chiarezza cosa ci fosse nella stanza.
-Questo è l’esemplare 150410. Non lasciatevi intimorire, la gabbia è stata costruita con una lega speciale in modo da impedire che il ghoul, con la sua forza, possa abbatterla. Resiste anche al suo kagune, ma spesso non ha abbastanza forza per usarlo.- spiegò un Investigatore che non rientrava nel campo visivo di Akaashi.
La ressa davanti a sé ancora gli impediva di vedere il ghoul, ma intravedeva una porzione di gabbia. All’improvviso, quella si mosse con un rumore metallico, e un ringhio fece indietreggiare tutti gli studenti con un verso di spavento e sorpresa.
-Ecco, questa è una reazione istintiva: alla vista degli umani, il suo impulso è quello di attaccare. Dal momento che i ghoul possono mangiare solo carne umana, e il loro corpo rigetta qualsiasi altro sostituto, è stato deciso e approvato di dargli in pasto i cadaveri non identificati degli obitori ogni tre mesi.-
Akaashi aggrottò le sopracciglia e alzò la mano per fare una domanda.
-Ogni tre mesi? Non è un periodo di digiuno un po’ troppo lungo?- chiese alzandosi sulle punte per cercare di stabilire un contatto visivo con l'interlocutore. Il capitolo sull’alimentazione dei ghoul era ancora ben chiaro nella sua testa.
-Come ben sapete, i ghoul possono sopravvivere anche fino a due mesi senza mangiare. Il nostro obiettivo è di mantenerlo in vita, certo, ma anche di non fornirgli troppe energie, onde evitare spiacevoli ripercussioni.-
I suoi compagni di corso riuscirono pian piano a disporsi circolarmente attorno alla gabbia e Akaashi sgranò gli occhi quando, finalmente, riuscì a vedere quello spettacolo che il suo cervello registrò automaticamente come raccapricciante. Sentì tutta la fibrillazione sparire, tutta l’emozione scivolargli sotto i piedi.
Forse avrebbe potuto immaginarlo, ma vederlo con i suoi occhi era tutta un’altra cosa.
Non si aspettava un ragazzo come lui, seduto in un angolo, con la schiena appoggiata alla gabbia e i gomiti sulle ginocchia piegate. Non si aspettava che quegli occhi tinti di nero e di rosso, quel respiro affannoso e quella smorfia che mostrava i denti digrignati potessero lasciar trasparire paura, piuttosto che incuterne.
Tutt’a un tratto, si sentiva come uno spettatore allo zoo.
-Purtroppo il cibarlo poco e a distanza di molto tempo può portare a comportamenti autodistruttivi per il ghoul, che talvolta potrebbe tentare di praticare autocannibalismo. Per contrastare questa evenienza, gli è stato messo un collare che rilascia scariche elettriche su comando.-
Akaashi non aveva staccato gli occhi da lui neanche per un attimo. Sentiva la gola secca e una sensazione di incredulità gli arpionava il petto. Non riusciva a vedere solo un mostro, una cavia. Certo, sapeva che i ghoul avevano capacità di sopportazione superiori a quelle degli umani, ma pensare che era sopravvissuto per cinque anni in quelle condizioni, in quella gabbia completamente vuota, gli sembrava impossibile.
-Perché ha i capelli grigi?- chiese, forse a voce troppo bassa, quasi in trance, continuando a fissarlo.
Qualche ragazzo si girò verso di lui per fissarlo e assicurarsi che stesse bene, oppure chiedendosi il perché di quella domanda inusuale.
Uno degli investigatori si aggiustò gli occhiali sul naso.
-Domanda interessante. Ti dirò la verità, le teorie sono contrastanti. Alcuni di noi credono che sia una condizione dovuta ad un disturbo post-traumatico da stress. Io, personalmente, assieme a molti altri, sono scettico riguardo a questa decisione di proiettare disagi psicologici umani sui ghoul. Stiamo studiando anche questo. Ora, ragazzi, continuiamo con il nostro percorso. Da questa parte, prego.-
Ad Akaashi sfuggivano alcune cose. Non capiva, in primis, perché si riferissero a lui come se non fosse lì, come se non fosse anche lui una creatura degna di considerazione. Era un ghoul, era ovvio che avesse una componente estremamente pericolosa, ma i ghoul vivevano a stretto contatto con gli umani, spesso avevano gli stessi loro stili di vita, allora perché avevano deciso di riservagli quel trattamento disumano, come se fosse una bestia?
Akaashi seguì con titubanza la folla, che si spostava verso un’altra stanza. Provava vergogna.
Fu uno degli ultimi ad uscire, e prima di farlo si voltò a guardarlo. Anche il ghoul lo guardava, sempre con quella sua espressione all’erta e i kakugan attivi.
Deglutì e affrettò il passo per andarsene.
-Per la prima volta, quest’anno l’Accademia mette a disposizione la possibilità di collaborare al Progetto 150410, quindi se siete interessati potrete passare in segreteria a ritirare i moduli per l’iscrizione al test: le persone col punteggio più alto saranno selezionate per lavorare con noi.-
Akaashi alzò la testa e strinse le labbra, mentre il suo cervello iniziava a lavorare.
 
Quando Kuroo sentì la porta dell’appartamento aprirsi, balzò in piedi e corse verso l’entrata.
-Kenma!- gridò sollevato. -Ho finito il turno ma quando sono tornato qui non c’eri, non mi hai scritto niente ero preoccupat…-
Si bloccò quando se lo ritrovò davanti. Kenma abbassò il cappuccio della felpa e lo guardò in faccia con le guance tinte di un lieve rossore.
-…Oh.-
I capelli che incorniciavano i suoi occhi dorati non erano più scuri, ma biondi.
-Ero ispirato.- si giustificò Kenma, togliendosi le scarpe. -Ho preso i soldi dal cassetto.-
-Stai benissimo…- mormorò Kuroo incredulo, seguendolo con lo sguardo.
La faccia di Kenma si fece un po’ più rossa.
-Grazie.- disse, non proprio convinto. In realtà, ne aveva disperatamente bisogno: appena uscito dal parrucchiere, era stato colto da una sorta di panico. Non era sicuro che avesse fatto la scelta giusta, anzi, se ne era pentito non appena si era visto riflesso in una vetrina. Sentire quel complimento da parte di Kuroo gli aveva fatto tremare leggermente il cuore.
-Siete tutti così carini!- si lamentò Kuroo con un lungo sospiro, reclinando il capo all’indietro, sconsolato.
Kenma lo guardò interrogativo.
-Intendo… Oggi è venuto un cliente che aveva la tua età e… sembrava finto? Insomma, sembrava tipo una bambola, hai presente la pelle delle bambole? Sai quelle persone perfette, così tanto che un po’ fanno paura? Ecco, così. E ora tu ti presenti a casa così e sei davvero carino e…- Kuroo gesticolò e aprì e richiuse un paio di volte la bocca, rendendosi conto di essersi impegolato in un discorso che non aveva ne capo né coda. Andò in salotto, seguito da Kenma, e si sedette sul divano sbuffando.
-Ah! Per non parlare di Oikawa poi. Ma dico, l’hai visto? I suoi denti perfetti me li posso solo sognare.-
-A me piacciono i tuoi canini sporgenti…- commentò Kenma con semplicità, accendendo la tv.
-Eh?- Kuroo lo guardò come se avesse appena detto chissà quale mostruosità.
-Sono carini.- annuì l’altro, mostrandogli i denti e imitando con le mani due piccole zanne. -Ti fanno assomigliare a un gatto, e direi che così è perfetto.-
Kuroo rise perché quel gesto, che celava qualcosa di infantile e tenero, cozzava in modo quasi esilarante con lo sguardo socchiuso e un po’ distante di Kenma.
Kenma si circondò le ginocchia con le braccia e sorrise a sua volta nel sentire la sua risata.
-Sarà strano doversi abituare ai tuoi capelli biondi. Non te li sei fatti tagliare, già che c’eri? Arrivano quasi alle spalle…-
-Mi piacciono di questa lunghezza. Me li hanno solo spuntati un po’.-
Kuroo appoggiò una mano sul suo capo e lo spettinò per bene. -Sono rimasti morbidi. Meno male, se te li avessero rovinati non li avrei mai perdonati.-
Kenma chiuse gli occhi e si appoggiò contro la sua spalla, mentre un calore ormai familiare si irradiava nel suo petto.
Kuroo gli passò con delicatezza un braccio attorno al collo e pensò che lo trovava davvero bello. Non riusciva a compararlo ad Akaashi o Oikawa: quella di Kenma era una bellezza che non avrebbe saputo spiegare, forse anche perché dipendeva indissolubilmente dal loro legame, e pensava che niente e nessuno sarebbe mai riuscito ad eguagliarlo.
Forse Kenma non era canonicamente perfetto, non aveva le labbra di Akaashi, o la forma dei suoi occhi, né il sorriso splendete o gli zigomi di Oikawa, ma Kuroo trovava bellissimo ogni dettaglio che gli appartenesse. Gli piaceva seguire con l’indice la curva del suo naso, e avrebbe pagato tutto l’oro del mondo per vederlo sorridere o per sfiorargli le labbra. Sussultò e quasi si strozzò col nulla quando si accorse di aver pensato quelle parole.
-Stai bene?- chiese Kenma, vedendo la sua faccia che andava a fuoco.
-Sì.- Kuroo lo guardò tra un colpo di tosse e l’altro. -No.-
-Non hai mangiato il cibo degli umani, vero?- chiese Kenma, preoccupato per quel comportamento strano e temendo forse qualche strana forma di avvelenamento.
-No!- si affrettò a dire. -Non è niente, mi stavo solo… non lo so.-
Kenma emise un verso non troppo convinto, ma tornò a guardare la televisione senza porre altre domande. Era in momenti come quelli che Kuroo ringraziava che Kenma non fosse una persona insistente.
Yaku aveva ragione. Erano cresciuti insieme, ma Kuroo non percepiva Kenma come un fratello. Kenma apparteneva a quel periodo che aveva segnato la sua rinascita, la sua fioritura, e a un certo punto non era più riuscito a farlo rientrare né nelle amicizie, né nelle parentele.
Kuroo gli aveva insegnato tanto e, allo stesso modo, aveva imparato tanto da lui.
Gli sarebbe piaciuto ringraziarlo senza sembrare stupido, imbarazzante o fuori luogo, perché in quel momento Kenma incarnava tutto ciò che voleva proteggere, e ciò in cui aveva riposto tutte le sue speranze.
Dirgli grazie non sembrava davvero essere abbastanza. 

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Note e chiarimenti

Eccomi arrivata col settimo capitolo! Quando mi sono accorta che in questo capitolo sarebbe apparso Akaashi e sopratutto Bokuto, mi sono un po' pentita di non aver aggiornato prima, perché so che tutte voi bruciavate dalla voglia di rivederlo, povero piccolo.
Il titolo è, come quello del primo capitolo, una battuta di Lady Machbeth da Macbeth di Shakespeare, Atto II: sia gli umani che i ghoul si macchiano di omicidi (hanno le mani dello stesso colore, rosse di sangue), ma Akaashi si rende conto che gli umani non hanno alcun diritto di farsi portatori di un "cuore puro", come se i loro fossero gli unici valori validi, come se la distinzione tra giusto e sbagliato fosse così netta, e se ne vergogna.
In tutto questo, Kenma ora è biondo Kuroo si rende conto in modo molto poco lowkey di essere parecchio gay: informazioni rilevanti, ma che comunque passano in secondo piano in confronto al resto, presumo.
Vi lascio con le bellissime fanart che mi ha fatto Vittoria (seguitela sul suo art blog di tumblr!): una scena dal tremendo capitolo 5 e le nuove maschere di Kenma e Kuroo!
Ringrazio tutte le persone che leggono, seguono la storia e la recensiscono.
Non posso assicurarvi che sarò puntuale con gli aggiornamenti, quindi mi raccomando state sempre pronte!
A presto!
   
 
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