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Autore: Nirvana_04    18/01/2017    3 recensioni
"All’inizio furono creati per servirli, e per un po’ di tempo lo avevano fatto anche bene. Poi una strana luce si accese nei loro occhi; la malvagità, simbolo della razza umana, si riversò anche sulle loro parti metalliche e iniziò a scorrere lungo i cavi e fili che li componevano. Infine scoppiò la guerra, e il mondo si spaccò ancora una volta."
Aisha e Kamul crescono insieme, ma le loro scelte e le differenze di classe li portano ad allontanarsi e a perdersi di vista.
Quando, però, il sedicesimo squadrone cade preda del nemico, il giovane non esita a correre incontro a una regione ostile e a una città, nascosta dal ghiaccio, che nasconde una strana forza racchiusa tra i suoi freddi androni. E, chissà, forse è proprio quel segreto che manca a Kamul per comprendere fino in fondo il potere dello strano pugnale che conserva gelosamente al suo fianco.
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 4
I capricci dell’acciaio
 
 
 
 
 
 
 
 
 
In principio c’era stata la magia.
Era una forza indomabile, che scorreva nei fiumi e al centro della terra; si addensava nelle nuvole e scaricava la sua ira come un fulmine incandescente che infiamma un tronco secco. Poi l’uomo aveva deciso di domare quel potere e lo aveva racchiuso nell’elemento più forte su cui poteva contare: l’acciaio. La potenza del fulmine e il clangore di un tuono erano prigionieri di un’arma che ora un essere poteva brandire e usare come meglio credeva.
Ma, si sa, ogni cosa ha il suo punto di rottura: l’acciaio può essere fuso, e il potere nuovamente liberato.
 
 
 
 
Gli androidi non sentivano freddo, non erano soggetti ai capricci della temperatura. Eppure era un processo che trovavano interessante e per il quale si erano attrezzati.
Aisha stava tremando, chiusa in una cella frigorifera fatta di lastre di vetro; le imponenti macchine si trovavano al di là di esse, non le vedeva ma sapeva che erano lì. Da quelle che parevano ore, i denti sbattevano senza controllo, le sue dita si erano atrofizzate e anche lo spostamento d’aria causava sulla pelle stilettate di dolore. Le labbra le si erano spaccate, ma non sanguinavano. All’inizio aveva cercato di combattere il gelo camminando e tentando di accumulare calore. Le fitte di ghiaccio, però, l’avevano lentamente irrigidita, fin quando il suo corpo aveva ceduto ed ella era crollata al suolo. Ora i suoi occhi erano semichiusi: desiderava solo chiuderli una volta per tutte. Le pareva di sentire la brina formarsi sulle sue dita, i piedi e le gambe scossi da convulsioni. Quanto poteva ancora mancare alla fine?
Riaprì gli occhi sul giaciglio della sua cella, freddo ma sopportabile. Qualcuno le aveva buttato una coperta termica addosso e, forse sempre la stessa persona, si era premurato di far circolare il sangue nelle sue vene.
Si sentiva spossata e sfibrata. Fece fatica a tirarsi in posizione accoccolata e a stringere le braccia intorno alle gambe, per saggiare la sensibilità del suo corpo: a un primo controllo, pareva ancora avere tutte le estremità ancora attaccate a esso.
Kamul era inginocchiato ai suoi piedi, lo notò solo in quell’istante. Lo sguardo accorato, la guardava con timore, quasi temesse di poterla consumare con i suoi occhi. Aisha serrò i suoi e si tirò indietro, sotto la coperta frusciante e i lunghi capelli sporchi. Stranamente furono le labbra a riacquisire calore per prime, seguite subito dopo dalle orecchie. Aisha sentì il rossore propagarsi ancora una volta sulle sue guance e lo stomaco rimestarsi, in agitazione. Sussultò quando la mano dell’amico iniziò a scorrere avanti e indietro sulle sue gambe gelate; imbarazzata, si ritrasse da quel semplice contatto.
“Non essere stupida” s’infervorò lui, masticando le parole nel tentativo di non alzare la voce. “Non è questo il momento.”
“E quale, allora? Non ci hanno ancora uccisi, ma è comunque la nostra unica certezza.” La sua voce era carica di odio, rammarico; e il tutto era velato da quel senso di torpore che le saliva dal petto.
Kamul strisciò vicino la sua testa, verso il riverbero della luce che filtrava dalle lampade a led del corridoio asettico, la quale evidenziò i tagli e le escoriazioni sul suo viso tumefatto. Aisha scattò seduta, la coperta che scivolava sui suoi fianchi smagriti.
“Che ti hanno fatto?” sussurrò, una mano tremante che si tendeva verso le ferite.
Egli fece spallucce. “Non sono stati loro. Me li sono fatti da solo.”
“Perché?” La voce acuta raschiò la pietra della sua cella, isterica.
“Credi che sia facile…” Kamul afferrò convulsamente la coperta e, con gentilezza, la posò sulle sue spalle, scoperte a causa dei buchi nella sua divisa. I suoi occhi fissarono intensamente il tessuto sfrigolante. “… restare lì fermo, costretto a guardare, mentre ti congeli?”
Passarono alcuni minuti di silenzio. Nella cella accanto, la voce di Marty mugolò una supplica, anche lui era stato appena riportato dentro.
“Eri oltre il vetro?!” si sconvolse, adagiandosi nuovamente sulla piastra di metallo.
“Ogni santo giorno… Sono interessati a studiare entrambe le forme di dolore.”
“Perché? Perché li hai parlato di queste stupide emozioni? Avrei preferito una morte veloce! Invece…” Le lacrime, che aveva trattenuto in quelle settimane di prigionia, sgorgarono come fiumi sulle sue guance, irritando di sale gli angoli della sua bocca. Tirò su col naso. “Che se ne fanno, poi? Provare sentimenti fa schifo!”
Kamul le voltò le spalle e si appoggiò contro il bordo del suo giaciglio. Alzò il capo, poggiando la nuca sulla sua pancia, e sospirò. Mormorò un paio di parole incomprensibili, e quando Aisha gli chiese di ripetere, egli scosse la testa.
Invece, spiegò: “Gli umanoidi… hai presente le macchine sotto la cupola di vetro, con la pelle e i vestiti e tutto?”
“Come scordarli?!”
“Credo siano i primi. Pensaci: gli Intellettuali non ne avevano creati così tanti; i registri parlano di una dozzina di androidi giganti, sufficienti a sbaragliare un intero esercito. Qui sono a centinaia, una vera razza che prolifera. Hanno ripopolato Northia…”
“Nurthìa! La città del nord!”
“Cosa?” si accigliò lui.
“Ero cosciente quando siamo giunti qui. La città si chiama Nurthìa, ed è immensa. Era scritto sul metallo, nell’arco all’ingresso” si giustificò.
“Visto?” la squadrò lui, tornando a battere laddove gli interessava. “Hanno storpiato il nome, ma è comunque la vecchia città, sede della prima Accademia. Una città, un popolo. Scrittura, nomi… Quelli umanoidi stanno creando la loro specie.”
“Come?”
Gli scappò uno sbuffo tra le labbra infreddolite. “Possiedono la stessa conoscenza degli Intellettuali. Possono fare quello che fecero loro agli inizi. E non è tutto” continuò. “Hanno padronanza della nostra lingua, a contrario dei loro sottoposti.”
“I giganti di ferro” mormorò Aisha, iniziando a comprendere.
“Esatto… es-esatto! Vogliono sostituirci, diventare umani, con ge-geraa-rchie...”
Ella lo vide rabbrividire e strofinarsi le mani sulle gambe. Solo allora notò che Kamul aveva ceduto la sua coperta termica a lei. Aisha schizzò per terra al suo fianco e buttò i teli fruscianti addosso a entrambi.
“Stai cercando di farti ammazzare?” lo redarguì, di nuovo scossa. Rise amaramente, in un tentativo di sorridergli e ringraziarlo.
Kamul la guardò, restando serio. “Sono stanco di vederti soffrire.”
Aisha sgranò gli occhi e deglutì. Il suo tremore s’irradiò sul suo corpo. Allontanando gli stupidi pensieri, si stese accanto a lui, stringendolo in un disperato abbraccio.
Affermò, le labbra a soffiare sul collo di lui: “Sono macchine, non avranno mai quello che abbiamo noi.”
“Un cuore” asserì Kamul.
Lentamente, uno tra le braccia dell’altra, si addormentarono.
 
 
 
 
Furono le urla isteriche di Marty a metterli in guardia. Si destarono dal loro sonno e, un po’ instabili, scattarono verso le sbarre, in tempo per vedere uno di quei giganti di ferro portare via Valter.
“Marty!” gridò Aisha. “Che sta succedendo? Dove lo portano?”
“Chiedilo a quell’idiota del tuo uomo” sbraitò con un tonfo sordo.
Confusa, si girò, ma Kamul scosse la testa, interdetto quanto lei.
“Ci stanno uccidendo come ratti da laboratorio, uno dopo l’altro” piagnucolò ancora, facendo riferimento alle celle ormai vuote tra loro. “Non voglio essere il prossimo. Non voglio morire come un topo…”
“Marty, calmati! Calmati!”
“NO! A che serve calmarmi? Sono stanco di loro, sono stanco di questo.”
Aisha lo sentì gettarsi di peso contro le sbarre e scuoterle con violenza inaudita, imbestialito.
“Mi sentite? Non mi userete, non mi avrete mai. AVETE CAPITO?”
“Marty…”
“Lascia stare, Ais” la fermò Kamul, poggiandole una mano sulla spalla. Il suo viso era contrito. “Non puoi aiutarlo da qui.”
“Marty è un membro dello squadrone. È addestrato a combattere…” Aveva l’impellente bisogno di credere che loro ce l’avrebbero fatta, che insieme avrebbero trovato un modo per uscire vivi da lì.
“Sì, ma tutti hanno un punto di rottura. E Marty non era pronto a tutto questo.” La presa sulla sua spalla le impedì di cedere allo sconforto.
Tornarono a sedersi, i visi mesti. Le loro orecchie rischiavano di sanguinare per le urla e i singulti del giovane, rinchiuso a un paio di celle di distanza da loro. Aisha portò le mani al viso e lo strinse, nel disperato tentativo di scacciare quel nuovo dolore dal petto, che la stava dilaniando come gli artigli di una belva famelica.
Un luccichio bluastro attraversò la difesa delle sue palpebre. Alzò lo sguardo e, sorpresa, vide che Kamul aveva tra le mani il pugnale rinvenuto molto tempo prima.
“Come hai fatto a nasconderlo?” si stupì.
“Non l’ho nascosto. Gli androidi non l’hanno ritenuto pericoloso, a quanto pare. Dopotutto” ghignò, ripetendo le sue parole, “cosa pensi che possa fare una lama contro quei giganti di ferro?”
Aisha tirò su col naso, più triste di prima. “Vorrei tanto che compisse un miracolo, adesso.”
Kamul le passò una mano sopra le spalle e l’avvicinò a sé. Pose il mento sulla sua testa e le diede un bacio: era freddo, ma ebbe il potere di riscaldarle il cuore.
“Prendi!” disse d’un tratto.
Aisha socchiuse gli occhi e vide che le stava porgendo il pugnale che tanto odiava.
“E cosa me ne faccio?” chiese, sospettosa.
“Guarda!”
Kamul ruotò un po’ la lama in modo che le loro immagini si riflettessero sul piatto lucido. Aisha guardò la sua immagine sporca e deperita, i suoi occhi abbattuti e la sua bocca piegata all’ingiù; e poi vide le labbra di lui dischiudersi sulla sua guancia, in un casto bacio. Le sue gote arrossirono, ed ella abbassò lo sguardo.
Una mano tiepida le accarezzò il volto, vellutata e leggera come una piuma. Alzò gli occhi per incrociare il suo sguardo, e nelle sue iridi vi trovò ardere fiamme di pietra.
“È tuo. Così come il mio cuore. Qualunque cosa accada” le promise.
Nuove lacrime scivolarono lungo la sua faccia, ma stavolta Aisha non si ritrasse e cercò il viso di lui; lo tenne delicatamente tra le mani e si sporse per baciarlo.
Un rumore di lamiera che strisciava sulla pietra ghiacciata li fece voltare all’unisono.
All’inizio non capì: c’era una carcassa sopra il ferro che fungeva da barella; sembravano pezzi di carne avariata e fumante, quasi quel povero animale fosse finito sopra una rete elettrica ad alto voltaggio. Sperò che non fosse il loro cibo. A trascinarlo era una delle macchine inferiori, ma uno degli umanoidi li precedeva lungo il corridoio. Superarono la cella di Marty, oltrepassarono quelle ormai vuote e si avvicinarono alla loro. Kamul intuì un attimo prima di lei e provò a intercettare il suo sguardo, ma la ragazza venne attirata da un bagliore in mezzo al mucchio carbonizzato, e riconobbe la spilla del sedicesimo squadrone.
Il suo viso impallidì e le sue gambe cedettero; un conato di vomito le ghermì la gola e le vertigini la fecero pericolosamente ondeggiare. Sarebbe crollata se Kamul non l’avesse stretta a sé.
L’umanoide femmina si fermò davanti alla loro cella e indicò il cadavere sviscerato di Valter.
Con tono flemmatico, espose la questione, per lei di poco conto: “Abbiamo provato ad attivare un cuore morto, ma una volta spento non è possibile farlo tornare a battere; così abbiamo provato con un cuore vivo. Ma anche questo si rifiuta di riattivarsi.”
Il malessere crebbe: quell’essere non dava alcuna inflessione alla voce; se avesse usato un tono graffiante e denigratorio avrebbe fatto meno male di quella sua incapacità di trasmettere una qualche emozione, seppur negativa. Erano macchine addestrate alla guerra, tutto ciò che sapevano fare era distruggere.
La voce di Kamul proruppe a singhiozzi, disgustata e incerta. “Non potete… nessun cuore umano potrebbe… voi…” Pose una mano sulle sbarre per tenersi, ma mancò la presa e barcollò. “Un corpo umano non è un assembramento di pezzi da poter scambiare e sostituire!”
L’umanoide rimase in silenzio. Poi aggiunse: “Il metallo è freddo, ma può essere riscaldato: cambia temperatura. I cavi di drenaggio fanno fluire il carburante in ogni parte del corpo: lo fanno respirare. Serve solo un cuore abbastanza forte da reggere il nostro potere.”
Mormorò qualcosa nella loro lingua fatta di suoni e ticchettii, e le due macchine sparirono oltre la loro visuale.
“Dobbiamo andarcene di qui. Ora” disse Kamul quando l’eco dei loro passi si spense in lontananza.
“Come?”
“Troverò un modo, te lo giuro.”
“Nurthìa sorge tra la neve” gli ricordò lei, ancora la testa vorticante. “Anche se volessimo fuggire, non riusciremo mai a tornare a Solear. Sempre se c’è ancora qualcuno laggiù.”
“Stai dimenticando che sono un Intellettuale.” Il suo viso era duro, ma trovò lo stesso la forza di sorriderle. “Posso rielaborare i cip delle macchine in costruzione, usarle per portarci via da qui.”
“Non sai dove si trovano.”
“Lo so io” li raggiunse la voce annoiata di Marty. Aisha rabbrividì: le parole del suo compagno d’armi sembravano giungere da dietro veli di disperazione e torture; ella poté immaginare i suoi occhi fissarsi su un punto, apatici e spalancati. “Io ero lì, quando hanno cercato di collegare il cadavere di Derek a quelle spine. Gliele hanno infilato ovunque, anche nel culo. Attraverso quelle che perforavano la scatola cranica hanno provato ad assorbire i suoi pensieri e le sue esperienze. Ce n’erano tanti, come lui” mormorò con un risolino sadico. “Parevano tante marionette messe in fila. Alcune pendevano anche… ahah!” La voce si spense in un lamento ovattato. “Vi ci porto io. Tanto è lì che devo andare, comunque. Sono il prossimo.”
Aisha aprì la bocca, ma rimase in silenzio a fissare le sbarre. Gli occhi pungevano nel tentativo di sfogare il suo rammarico, ma la stretta di Kamul l’aiutò a rimandare tutto giù, in un singhiozzo rabbioso.
“Ci muoviamo stanotte” decise lui.
“Le macchine dormono?”
“Non credo, ma loro sanno che gli umani hanno bisogno di riposare, e… se ho visto giusto… loro chiuderanno comunque gli occhi.”
“Non sbattono mai le palpebre” rise Marty. Sentirono la sua mano sbattere contro le sbarre, scorrendole a una a una, in un gesto annoiato. “Sono buffi.”
Nessuno parlò più.
 
 
 
 
La lega delle sbarre era fatta di cadmio e zinco, in modo che non si ossidasse con il tempo: era impossibile aprirla o segarla. Ma le giunture erano di nitrosil, ed erano chiuse da chiavistelli rozzamente pressati per fare presa.
Aisha, tenuta in alto dal compagno, usò il coltello per fare leva e allentare la prima; e così fece con le altre tre, fin quando il metallo non tornò dritto. Kamul la mise giù e, con uno sforzo immenso, sollevò le sbarre in modo che i chiavistelli uscissero dai cardini. La porta scivolò e Aisha lo aiutò a poggiarla di lato.
Corsero a liberare il compagno che, quatto quatto, se ne stava con gli occhi spalancati a guardare davanti a sé: pareva con la mente lontana, lo sguardo di un bambino innocente che guarda fiducioso all’adulto. Quando anche la sua porta fu scardinata, però, le sue palpebre sbatterono velocemente e lui schizzò in piedi, fremente e saltellante.
“Da questa… da questa parte, presto!” cantilenò con un tic che li faceva scattare la testa da una parte e dall’altra.
Aisha lo guardò con commiserazione. Tese una mano verso di lui. “Marty, va tutto bene.”
“Tutto bene, sì. Però non toccarmi, eh?” Rise istericamente. “Sennò, woof, prendiamo fuoco, eh? Presto, presto!”
Saltellando e sbattendo i denti, li guidò lungo il corridoio e oltre la prima porta di ferro. I corridoi erano sempre illuminati, notte e giorno; le mura azzurrognole erano fredde e sterili, prive di qualsiasi tipo di calore. Non c’erano guardie; e in effetti, a cosa avrebbero mai potuto fare la guardia?
“Volete vedere una cosa, eh?” sussurrò a un certo punto.
“Cosa? No, Marty, devi portarci dai giganti di ferro” cercò di fermarlo lei, terrorizzata.
Ma il suo vecchio compagno schizzò oltre una porta e scivolò, in un gran fracasso e risa sguaiate, lungo una scala ripida che si perdeva nel buio del vano senza luce. Aisha scambiò uno sguardo accorato con il suo compagno, poi si fiondò giù per i gradini, con il fiato corto e il cuore a mille.
Finirono su un nastro trasportatore, che fortunatamente non era in funzione. Le luci d’emergenza erano accese, il rosso soffuso che illuminava a intervalli regolari le nicchie incassate nelle pareti di pietra. La stanza era stata scavata nella roccia, lì sotto c’era più tepore e il ghiaccio era solo un lontano ricordo. Gli aloni circolari delle lampade sanguinolenti proiettavano grandi ombre intorno a loro, giganti di latta dormienti, ancora legati a fili elettrici e grossi cavi di carburante.
Aisha sentì Kamul trattenere il fiato, e anche il suo respirò raschiò rumorosamente: gli androidi stavano creando un vero esercito, nulla a che vedere con i loro visi umani o quelli tutti muscoli e capillari di ferro dei loro sottoposti. In quella caverna c’erano i soldati, androidi alti più di quindici metri che erano stati collegati a corpi umani o a cervelli immersi in strane sostanze colorate.
“Kamul” soffiò.
Il ragazzo si avvicinò titubante a una di quelle macchine e ne osservò gli ingranaggi, la fronte corrucciata. Aisha rimase alle sue spalle, diffidente di ogni cosa in quel luogo tetro e così discostante dal resto di quella città. Dopo tanta luce, sia di giorno che di notte, in quella semioscurità, dove le ombre potevano proliferare in tentacoli indefiniti e spaventosi, il suo animo si agitò, a disagio. Ella poteva sentire un refolo gelido provenire dall’alto di quella costruzione, dal tetto di cui non riusciva a scorgere alcun dettaglio, se non i cavi che, dallo sfondo nero, cadevano come pioggia e si collegavano ai macchinari silenziosi. L’unico rumore proveniva dal fondo della caverna, dove Marty stava rimestando alcuni fili, borbottando uno strano garbuglio di parole insensate, mentre con faccia schifata cercava di districarsi dagli intrecci elettrici. Collegato ai cavi, c’era il corpo senza vita di Derek.
Aisha represse un conato di vomito e si tenne il ventre stretto tra le braccia.
Uno strattone violento per liberarsi, e la vasca con le sostanze chimiche si ruppe in un boato fragoroso, di cui l’eco si propagò verso il soffitto e le pareti, senza fine.
Aisha corse dal compagno e lo aiutò ad alzarsi.
“Non toccarmi, stupida” le urlò in faccia. “Non vedi che sono attratti come mosche dal calore dei corpi?”
I passi affrettati di Kamul si avvicinarono ai due. “Ais, guarda” la tirò indietro, frettoloso.
Ancora sbigottita, la ragazza si lasciò trascinare sul nastro trasportatore, verso una macchina a cui non era collegato alcun corpo. Il gigante di ferro era assopito nel suo sonno sempiterno, nell’attesa che qualcuno attivasse i suoi meccanismi: la sua struttura ferrigna era rozzamente lavorata a formare una fisionomia umana, un bipede con una maschera ovale fornita di valvole di sfiatamento sul volto, fatta da zigomi bianchi attraversati da due strisce rosse, come lacrime di sangue; da essa partivano due antenne d’acciaio, tese come le orecchie di un cane da guardia, dando l’impressione che l’essere fosse già percettivo verso il mondo. Il petto possente era rivestito da un’armatura rossa fiammante, dotata di gadget d’emergenza tenuti saldamente legati da due cerniere d’acciaio a scatto; e il tutto finemente lavorato su uno scheletro dalla vita sottile, che si poggiava su robuste gambe del medesimo colore. Le pompe gialle di drenaggio lo stavano velocemente rifornendo del suo sostentamento primario, ma le sue spie erano spente, e il mostro non si mosse.
“Cosa devo guardare?” si spazientì, guardandosi intorno, allarmata.
“Guarda i due sensori di propulsione sul petto. Vedi come riflettono la luce?” Aisha aveva l’espressione interdetta, e allora Kamul esclamò: “Sono fatti della stessa lega del pugnale.”
“Non ora, Kami, ti supplico. Metti via quell’aria da Intellettuale, e andiamocene da qui” sussurrò tra i denti.
“Non capisci? Quella lega è indistruttibile. È dappertutto in queste mura. Io e Xan l’abbiamo studiata a fondo, messa alla prova… solo il fuoco può fonderla” ammiccò.
E finalmente Aisha comprese. “Stanno costruendo un esercito immortale, e neanche lo sanno.”
“Non ci saranno altre occasioni per eliminarli.” Il suo viso si rattristò. “Dobbiamo farlo noi, adesso.”
Aisha guardò il giovane uomo ritto davanti ai suoi occhi, il portamento fiero e il dolore nei tratti del suo candido viso, e sentì la morte nel cuore.
Allungò una mano e gli regalò una carezza. “Ti sta crescendo la barba, Kami.”
Che commento sciocco!
Kamul rise sommessamente, trattenendo le sue dita fredde tra le sue ancora un po’. Si avvicinò e la strinse forte, in un abbraccio disperato; poggiò la fronte contro la sua e il suo fiato le scaldò la faccia gelata.
“Ti amo” disse semplicemente.
“Sono felice di non averti messo catene, Kami” sussurrò lei, la voce vellutata dall’amore. “O adesso non sarei qui con te.”
“Avremmo avuto più tempo…” si avvilì lui, facendo scorrere le sue mani sulla sua schiena.
“Ne abbiamo ancora un po’” sorrise lei, un sorriso sereno sulle labbra, ormai certa del loro fato.
“Cosa vuoi fare?” la stuzzicò lui, conoscendo la sua risposta.
Già, mi conosci bene. C’è una sola cosa che mi diverte…
“Ricordi quando facevamo correre un intero reparto militare con i petardi per tutta la periferia?”
“Come dimenticarlo?!” Aspirò il suo profumo. “Facciamolo.”
Si separarono lentamente. Mentre Marty girovagava tra i cavi elettrici, lei e Kamul seguirono il nastro, prendendo ognuno un lato. Aisha tirò fuori la lama, l’argento adamantino che le sorrideva adesso tra le mani secche, e iniziò a tagliare i cavi di drenaggio; staccò i fili di propagazione del combustibile e iniziò a liberare il composto, spargendolo ovunque, in un fiume oleoso e puzzolente. Dall’altra parte, Kami faceva lo stesso.
“Spruzzalo sulle pareti, Ais. Ci sono venature di zolfo” la istruì la voce dell’amico, dal fondo della caverna.
Ella corse tirandosi dietro i cavi e imbevette gli spuntoni di roccia e ogni nicchia della camera con quello strano intruglio infiammabile.
“Oh, oh… è il mio turno!” urlò Marty, agitato.
Aisha sudava freddo, e faticava a tenere salda la pompa. Marty bofonchiò ancora parole insensate; poi, impazzito, iniziò a correre. Spaventata che potesse attirare l’attenzione, cercò di fermarlo ma i suoi occhi spiritati furono l’ultima cosa che vide di lui prima che una piattaforma di metallo gli finisse addosso, schiacciandolo.
Si voltò, cercando di deglutire, ma aveva la gola troppo secca; il cavo le scivolò di mano e, impulsivamente, iniziò a indietreggiare davanti all’umanoide che stava varcando l’arco d’acciaio della caverna. Iniziò a correre e a chiamare l’amico, la mente che cercava di scacciare l’orrenda fine del suo compagno d’armi.
“Kami!” urlò, il pugnale in mano.
La lama s’illuminò e lei, attratta come una falena dalla luce, sbandò di volata verso destra e inorridì: Kamul era stretto nella morsa d’acciaio dell’umanoide uomo.
“Donna” vociò l’essere, atono, “il tuo cuore vibra potente nel tuo petto.”
“Nooo!” gridò il giovane. “Scappa, vattene.”
Aisha non si mosse.
“Lascialo andare, mostro!”
“Io sono Mahis” la corresse.
“Una macchina è solo una macchina, non ha nome, non ha cuore!” sbraitò lei, stretta alla lama.
Mahis guardò il giovane, incurante delle sue parole. “Ora capisco” disse rigidamente, continuando quello che nella sua mente sembrava un discorso appena interrotto, “alla fine sono questi i sentimenti. Lei è arrabbiata, il suo cuore pompa sangue alla testa. Ma il tuo sangue confluisce verso il tuo. Sei preoccupato per la sua vita!” Si azzittì un solo istante. “Mi chiedo quanto il suo cuore abbia bisogno del tuo per continuare a battere.”
Stranamente, era la prima volta che la macchina prestava la voce a un tono ironico.
Il suo indice roseo si puntò verso il petto del giovane, quasi volesse pungolarlo capricciosamente. Ma era una macchina, e l’unghia era una lama che, a un suo impulso cibernetico, s’allungò perforando il cuore del giovane e strappandoglielo dal petto.
“NOOOOOOOO!” Gli occhi spalancati, il corpo deperito, Aisha crollò, liberando un lamento acuto di straziante dolore.
Impresse nella sua memoria il corpo dell’uomo amato rovinare ai suoi piedi, come un involucro senza peso, e lì restare, immobile, gli occhi vitrei spalancati in un cielo nero che stava piangendo per la sua perdita.
Faceva male! Il vuoto nel suo petto era una voragine che la stava risucchiando. La lama s’inzuppò del suo sangue, così come i suoi pantaloni verdi e i suoi capelli rossi, che come un velo funebre ricoprirono il suo bellissimo viso; i riccioli scuri si intrecciarono alle fiamme lisce dei suoi, luce e tenebra che si toccavano senza potersi più stringere con passione. La bocca fredda di lei saggiò il suo sapore, il tepore che sulle sue labbra sapeva ancora di giorni felici e sguardi rubati; l’inebriante essenza della sua tenerezza e cura, che riservava solo a lei, stavano velocemente svanendo. Aisha non avrebbe mai conosciuto i segreti del suo amore né avrebbe sperimentato le complicità di quel rapporto, appassito tra le gioie represse della loro breve vita, come un bocciolo di rosa tardiva in mezzo a una bufera di neve; erano cresciuti e avevano attraversato le vicissitudini di quelli anni, separati o silenziosamente uniti, e con lentezza esasperante si erano scoperti, cercati e ricreati insieme.
Il tepore del corpo caldo lasciò presto il posto alla fredda immobilità della morte, il gelo invase il suo migliore amico, e la luce che aveva visto nei suoi occhi, il tempo di un attimo prima, corse laddove ella non poteva più riacciuffarla.
Le macchine erano ancora lì, e la stavano studiando: auscultavano, senza saperlo, gli spasimi d’angoscia e desolazione del suo animo, invadendo e dissacrando la sua memoria e il suo lutto. Quei freddi ammassi d’acciaio avevano ucciso ciò che le dava vita e speranza, e lo avevano fatto per mera curiosità.
Per un capriccio, ora lei era dannatamente sola!
Mahis aveva ragione: il suo calore era fuoco denso di rabbia repressa e cieca disperazione.
Prostrata dal dolore, afferrò la lama e, con un balzo, la conficcò nello stinco dell’essere. La lama non sembrò incontrare resistenza: perforò e recise il cavo di drenaggio inferiore, facendo barcollare l’androide.
“Donna” esclamò minacciosa la voce metallica.
Aisha affondò di nuovo la lama, ma stavolta la mano dell’umanoide le assestò un manrovescio; il pugnale volò in un ampio arco in aria e si conficcò nell’armatura del gigante rosso, ancora inattivo, sparendo dentro il sensore di propulsione sinistro.
Aisha rotolò e si parò dinanzi ai due umanoidi, incurante della sua vita e della sua missione. Tutto ciò che contava per lei era la vendetta e gli artigli che stavano lacerando le sue stanche membra.
La presa inaspettata che si chiudeva intorno a lei la tramortì, ingabbiandola in una presa d’acciaio. Del suo aguzzino, vedeva solo i rivestimenti rossi fiammanti: alla fine, il gigante rosso si era destato. Non riuscì più a muoversi, costretta a guardare negli occhi l’essere immondo che con un gesto aveva cancellato il suo futuro. Così, quando la creatura si parò davanti ai suoi creatori e diede fuoco alla caverna, Aisha sussultò, i suoi capelli che prendevano vita dalle fiamme sanguinolenti.
Una voce, nella sua mente e nel suo cuore, disse solo: “Ais…”
   
 
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