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Autore: Himenoshirotsuki    18/01/2017    7 recensioni
[Seguito di "Fuoco nelle Tenebre"] [La stori è un pausa un mesetto, ma non sospesa. Finisco Fighting Fire e riprendo ad aggiornare!]
Dopo gli ultimi eventi, il destino di Esperya sembra ancora più incerto. Lyssandra muove i fili da dietro le quinte, Mirya e i bambini sono rintanati ad Alabastria, mentre Ledah è stato catturato. Sembra che il ritorno di Aesir e della sua era dell'oscurità sia inevitabile, ma c'è ancora qualcuno che si oppone, qualcuno che ha pagato un prezzo di sangue per diventare ciò che è. Con un nuovo corpo e un solo anno a disposizione, Airis dovrà adempiere al suo compito di Guardiano affinchè i drow e il dio dell'oscurità non facciano di nuovo piombare Esperya in un caos di morte e distruzione.
Battaglia dopo battaglia, incontro dopo incontro, in un lungo viaggio attraverso lande desolate e città e regni meravigliosi, Airis scoprirà così i dettagli di una macchinazione destinata a cambiare le sorti del mondo, ma, soprattutto, la verità sul suo passato, una verità che potrebbe distruggerla.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Guardiani'
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Fuoco 2

1

Rinascita

Camminava attraverso il lungo corridoio di pietra nera, con la polvere e la cenere che turbinavano nell’aria immobile ad ogni suo passo. Una fitta foschia ammantava ogni cosa, stemperando e come assorbendo la luce calda delle torce appese alle pareti.
Airis non sapeva come fosse arrivata lì, né cosa di preciso la spronasse a proseguire, ma stranamente non le importava, non in quel momento. In quel luogo, dove riposavano coloro che nel corso delle ere avevano compiuto la sua stessa scelta, estranei partecipi del futuro del Mondo Nato dal Nulla, nessun pensiero poteva perturbare la pace eterna.
Continuò ad avanzare nel silenzio più assoluto, sotto lo sguardo spento dei guerrieri nelle alcove, uomini e donne in armatura che sedevano su troni d’onice e ossidiana. Percepiva i loro occhi sulla pelle nuda delle spalle e, anche se una parte di lei sapeva che non volevano farle male, non riusciva a non provare timore. Airis cercò nelle loro figure la presenza di una scintilla di vita, ma nessuno di loro batté ciglio, cristallizzati, pietrificati in un limbo in cui il tempo aveva cessato di scorrere. Alcuni indossavano sontuose cappe d’ermellino, di velluto scarlatto, di morbida seta; altri portavano armature istoriate d’oro e d’argento, impreziosite con gemme ed elaborati arabeschi. I loro volti non erano noti ad Airis, ma sapeva chi erano, poteva indicare il nome di ognuno di loro, raccontarne le gesta, gli errori, gli atti eroici. Forse anche lei un giorno avrebbe seduto in mezzo a loro, su un trono uguale, in quel posto dove solo a quelli che avevano abbracciato il suo stesso destino era possibile riposare.
Dopo qualche passo percepì una specie di sussulto alla sua destra. Si fermò e girò il capo nella direzione di quel timido suono, eppure così forte da incrinare l’eterno silenzio che impregnava la pietra. Uno dei dormienti, un umano seduto su uno scranno di lame smussate e narcisi sbozzati nell’alabastro, sollevò le palpebre e incontrò il suo sguardo. Per un fugace momento la guerriera ebbe la sensazione che la vedesse, che i suoi occhi di un indaco liquido l’avessero osservata mentre avanzava a testa alta in mezzo al corridoio. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma il suono si congelò nell’aria stantia prima di poter prendere forma. Provò di nuovo a parlare, ma, ancora, quello che giunse alle orecchie di Airis fu solo un mormorio inudibile. Decise di proseguire, lasciandosi alle spalle quegli occhi sempre più offuscati e la loro disperata invocazione.
Non seppe per quanto impose alle sue gambe di muoversi, forse un’ora, forse qualche minuto: lì il tempo perdeva di significato. Di tanto in tanto guardava dietro di sé cercando di penetrare l’oscurità che, come un essere vivo, inghiottiva la luce delle torce. Ormai, delle cinquanta che l’avevano accolta quando aveva cominciato a camminare, ne erano rimaste accese solo venti. Venti, come i guerrieri allineati lungo i due lati del corridoio. Un’altra sfrigolò e si spense in un fruscio quando oltrepassò il trono dove era seduto un nano, sulle ginocchia un arco d’oro tempestato di gemme preziose.
Il buio strisciò sul pavimento, allungandosi fino a sfiorarle i piedi. Airis gettò appena un’occhiata alla lunga ombra, rendendosi conto di non averne paura. Non c’era niente, in quel luogo, che le facesse paura.
Un’altra torcia si spense dietro di lei, in risposta a un altro passo, e la nebbia si sfilacciò come il tessuto di un vecchio abito, per poi avvolgersi in volute fumose attorno a un trono di ebano e acero, con venature di ferro e bronzo che si attorcigliavano sullo schienale, compenetrandosi e allontanandosi in una danza di rune e disegni intricati. Osservando quelle linee, Airis sentì l’impulso di sedersi, di abbandonarsi al sonno che le pesava sulle palpebre, ma sapeva che non era per quello che le era stato mostrato.
Spostò lo sguardo davanti a sé, sulla nebbia che le ostruiva la visuale. Ancora una volta, senza che nessuno glielo avesse detto, capì che non doveva procedere oltre, che non c’era ragione che lei vedesse quello che si nascondeva al di là di quel muro grigio. Così si avvicinò al trono, pulì il seggio dalla polvere e vi si sedette. Non c’era altro suono se non il suo lento e quasi inudibile respiro.
- Guardiana. -
Una voce rimbalzò sulle pareti di roccia. Il timbro era insieme maschile e femminile, come se un uomo e una donna avessero parlato in coro.
- Figlia mia, finalmente sei qui. -
Airis chiuse appena gli occhi. L’armatura – quando l’aveva indossata? Non aveva sentito il suo peso mentre camminava – le gravava sulle spalle, sulle braccia, sulle gambe, una gabbia aderente d’acciaio e ferro da cui non poteva scappare. Non fu facile trovare la forza di parlare, dare corpo a quella domanda che premeva prepotentemente sulla lingua.
- Chi… chi sei? -
- Sono colui che diede respiro a Vita e Morte. -
Una stretta gelata le avvolse le tempie, mentre una mano invisibile le accarezzava delicatamente la guancia. Era liscia e ruvida al tempo stesso, in qualche modo le ricordava quella di suo padre e di sua madre al medesimo tempo.
- Dove ci troviamo? -
- Nel luogo che ti appartiene, dove un giorno, se vorrai, potrai riposare. - un refolo d’aria tiepida le fece turbinare i capelli sul viso, - Ora ascolta ciò che coloro che hanno accettato il tuo stesso destino hanno da dirti. Ascoltali e poi bevi, abbandonati tra le braccia dell’oblio. -
Nel corridoio di pietra calò di nuovo il silenzio. Airis attese un momento, il tempo di un battito di ciglia, prima che una miriade di echi si riverberassero nell’oscurità, nella sua stessa mente.
“Caillean.”
Sentire pronunciare il suo vero nome la riscosse dal torpore. Sbatté più volte le palpebre, mentre apriva e chiudeva i pugni ritmicamente, combattendo contro l’istinto di alzarsi dal trono.
- Chi… -
La sua voce era poco più di un bisbiglio roco, flebile persino alle sue stesse orecchie. Perché parlare era così difficile?
- Chi siete voi? Cosa volete? - formulò con più forza.
“Noi siamo te.”
Le ombre si agitarono e la nebbia alla sua destra si avvolse in spirali sempre più intricate.
“Siamo i tuoi antenati. Sei qui per ricevere la Verità, per vedere i giorni che ancora non esistono e le cicatrici di quelli che ora non sono più.”
Airis scosse debolmente la testa: - Non capisco… -
“La comprensione è figlia della conoscenza, Guardiana. Tu hai accettato il destino che era già stato scritto per te e noi ora ti renderemo partecipe di quello che fu e di quello che potrebbe essere. Chiudi gli occhi e ascolta, guarda, ricorda.”
Le voci le martellavano nella testa, si alzavano d’intensità, senza che nessuna bocca si muovesse nell’aria immobile, senza che nessun respiro incrinasse il silenzio che regnava attorno a lei, mentre il suo cuore rallentava sempre più, così come il suo respiro.
“Questo è il nostro dono per te.”
All'improvviso, davanti ai suoi occhi si spalancò una visione. Assistette a una battaglia sanguinosa tra due eserciti, uno capeggiato da un elfo dalla corona d’argento e l'altro da un uomo dagli occhi di bragia. Udì il loro grido bellico e subito dopo le prime file si schiantarono le une sulle altre, e il primo sangue venne versato. Ricordò il nome del condottiero delle terre libere, Arawan di Llanowar, e per un istante pensò di sbagliarsi, che quello fosse Ledah. Ma non era così. L’uomo che cavalcava sul possente baio aveva i lineamenti delicati dell’elfo, ma i suoi occhi erano azzurri come il ghiaccio perenne dei picchi a nord, non verde muschio.
Lo scenario cambiò repentinamente. Vide un uomo dalla pelle bronzea e gli ispidi capelli neri seduto su un trono d’oro e gemme preziose. Alle sue spalle, ricamato su un arazzo sdrucito, c'era il vessillo di un leone di fuoco. Udì il suo respiro greve diventare un gemito gorgogliante, mentre la sua vita si spegnava sotto le pugnalate di dodici uomini incappucciati, con indosso tutti delle vesti riccamente decorate, nobiliari. Quando il corpo si accasciò in una pozza di sangue, Airis ricordò il suo viso. Era lo stesso dell’uomo che aveva tentato di parlarle.
“Caillean, Figlia della Morte e Guardiana dell’Ordine, ascolta le nostre parole.”
La visione mutò di nuovo. Nella penombra di una cripta, Airis distinse i lineamenti di un vecchio seduto in mezzo a un cerchio magico, i viso pieno di rughe, i capelli radi e le vene bluastre che emergevano da sotto la pelle tirata. In mano, stretta tra le unghie così nere da sembrare marce, teneva una piccola sfera blu. Risuonarono nel buio dei rumori di passi, un ticchettio seguito dal rumore strascicante di piedi, e d'un tratto un giovane elfo venne buttato ai piedi del vecchio. In quel momento, la guerriera associò gli occhi di bragia del dio delle tenebre a quelli di quell’essere.
“Venti leghe al sud dovrai andare, oltre il Grande Mare la nave dovrai condurre fino all’Oceano di fuoco e ghiaccio. La tua meta è persa oltre l’orizzonte, nel castello avvolto dalle nuvole e stretto dall’illusione di un imperituro inverno.”
Sempre più rapide arrivarono le visioni, un vorticoso caos di voci, suoni, ricordi che la violentavano e la stordivano.
Una bambina con i capelli blu e gli occhi più scuri della notte correva nell’erba alta.
Un atrio tratteggiato nella calda luce del tramonto risuonava del canto delle arpe e dei flauti, accompagnando in un valzer fin troppo sensuale uomini e donne dalle ali sottili come farfalle.
Un drago con le squame lucide e gli occhi come tizzoni ardenti spiegava le ali, vomitando un inferno di fuoco su due eserciti in lotta.
Airis era lì in mezzo e combatteva senza né scudo né elmo, armata di una spada dalla lama scintillante di rune e vene rosse.
“Procedi attraverso il Ponte che unisce i due Mondi e giungi alla rocca dove giace la principessa eterna. Raccogli le lacrime dello sposo e inginocchiati al cospetto della Madre della Montagna. Prega con lei, danza con le sue figlie, odi e ignora il loro canto da sirene.”
- Basta… basta! -
Provò a tapparsi le orecchie, ma le sue braccia erano incollate al trono, pietrificate come se fossero anch’esse delle sculture di legno. Gemette e un’ondata di calore le percorse la pelle, riducendo le parole a un rantolo affannoso.
Vide un lupo e un falco che percorrevano una rorida prateria, col sole dell’alba che dorava i pistilli delle neonate primule. Udì il gracchiare iroso di un corvo e un forsennato battito d’ali agitò l’aria immobile nella volta stellata. E, negli occhi verde muschio del falco accoccolato vicino alla lupa ormai morta, prima che un turbinio di piume nere lo avvolgesse, rivide lo stesso sguardo disperato di Ledah.
- Ledah! -
Il suo urlo si spense in un gemito di dolore.
“Segui il percorso che scende nel ventre della Madre, prosegui oltre le paure, oltre i fantasmi. Paga il più atroce tributo e spendi il sangue di quanto più amavi dopo che il Cigno ha deposto il suo scudo e prima che la Cerva fugga nel firmamento.”
Il lezzo di sangue le penetrò nelle narici, invadendole la gola, il petto. I cadaveri giacevano a mucchi sulla radura del Rashaar, riversi in laghi di sangue che andava raggrumandosi. Molti erano mutilati, senza braccia, gambe, gli occhi cibo di vermi e corvi affamati. Airis fece spaziare lo sguardo in quella landa desolata, dove assieme al grido degli spettri senza nome echeggiava il coro dei vincitori, cavalieri dalle armature nere e i capelli bianchi come neve. Poi un ruggito rimbombò in cielo e davanti a sé gli steli arrossati divennero pipe d’oro e il sangue vino speziato in calici luccicanti. Gli invitati giacevano scomposti a un tavolo imbandito, con le mani ancora strette sulle cosce di pollo e la faccia annegata nel piatto strapieno. In fondo alla sala, seduta su un trono rialzato di spade insanguinate e teste mozzate, sedeva l’uomo dagli occhi di bragia, le labbra arcuate in un sorriso crudele. Sul capo portava una corona di rubini e teschi.
“Quando l’ultima torcia si spegnerà e il ringhio del fuoco farà tremare le alte mura del castello oltre le nuvole, lascia le lacrime dell’Eterna Sposa ivi dove si posa lo sguardo. Allora estrai la lama del Padre dal cuore di roccia e la mano che la difende dalla bocca della Madre.”
Airis urlò e stavolta la sua voce rimbalzò nel corridoio di pietra col fragore di mille tuoni, eppure incapace di sovrastare il brusio assordante che gli trafiggeva il cervello, un coro di sussurri e di frasi infrante, confuse in un caos di sillabe e parole strascicate.
- Basta, basta, andate via! -
Infine tornò il silenzio, denso e schiacciante, improvviso, che le mozzò il respiro.

La prima sensazione che strisciò nella sua coscienza, prima ancora che nel suo corpo, fu il freddo. Poi avvertì qualcosa che spingeva sotto la schiena, scricchiolando ad ogni suo movimento. Airis tentò di rotolare via, ma prima che potesse completare l'azione, l’oggetto che le pungolava le carni si ruppe con un secco “crack”. Portò una mano dietro di sé e le dita sfiorarono il legno di un ramo. Sbuffò e strizzò gli occhi per riprendere contatto con la realtà.
Si sorprese di quanto le venisse facile pensare ora. Si sentiva ancora intontita, ma, nonostante un fastidioso ronzio nelle orecchie, riusciva a mettere insieme una frase di senso compiuto. A fatica, si tirò su a sedere e abbassò lo sguardo sulle proprie mani, sulla pelle bianca delle dita trafitte dai raggi del sole. Inspirò ed espirò per un lungo minuto, quindi si decise a guardarsi attorno. Un istante più tardi si impietrì.
Un cadavere, il suo, giaceva riverso a terra in una pozza di sangue nera, il viso cereo rivolto verso il cielo, le ciocche rosse sfilacciate nell’erba alta e le dita debolmente chiuse attorno all’elsa di un pugnale dall’impugnatura in argento alchemico. La tunica strappata lasciava esposta una profonda ferita alla destra del cuore, poco sotto il costato.
Un disgusto gelido, accompagnato dalla paura più profonda, le fluì nel ventre, le conficcò gli artigli nelle viscere e tirò. Airis si piegò boccheggiando, l’aria che le bruciava nei polmoni lasciandola senza fiato. Se avesse avuto qualcosa nello stomaco, lo avrebbe vomitato. Non era preparata a quella vista e Cyril non le aveva accennato nulla.
Immobile, come paralizzata, rimase per un lungo momento a fissare il suo vecchio corpo, la testa che le pulsava furiosamente e il ronzio che le assaliva le orecchie.
“Sarà… sarà per depistare Lysandra.”
Tentò di convincersi, ma lo shock era stato enorme. Facendo forza sulle braccia, si trascinò più lontano che poté, finché la stanchezza non ebbe di nuovo il sopravvento. Cadde distesa sull’erba, annaspando. Chiuse gli occhi e tentò di concentrarsi sui suoni attorno a lei, sulla voce della natura. Focalizzò la sua attenzione sul proprio respiro, sul fruscio delle foglie mosse dal vento, sul battito d’ali di uno stormo d’uccelli, che, come un essere unico, volavano verso lidi più caldi in attesa della primavera. Il ronzio diminuì fino a sparire e, dopo una breve esitazione, riaprì gli occhi. I colori avevano ripreso la loro naturale gradazione e, quantomeno i contorni delle cose più vicine, avevano smesso di sfarfallare, permettendole di scrutare il familiare paesaggio. Accarezzò con lo sguardo i roridi steli d’erba, scivolò su di essi e si spinse al di là delle cime imbiancate degli alberi, sulla catena montuosa dei monti Eresse che, imponente come un drago dormiente, svettava contro il cielo grigio. Alla sua destra riconobbe il crepaccio, quello dove era precipitata quando…
Sospirò e si sollevò, spazzolandosi via la polvere dalla tunica di lana e spesso cotone che indossava, la stessa del suo cadavere. Scosse bruscamente il capo e allontanò quel pensiero, richiamando alla mente i ricordi che aveva di quel luogo.
Sì, se la memoria non l’ingannava, doveva trovarsi ancora vicino a Luthien e all’accampamento dei sopravvissuti. Il ricordo di tutto quello che era accaduto l’assalì, togliendole il fiato: Felther, il suo tradimento, Lysandra, Baldur che cavalcava a perdifiato assieme a Raiza, la viscosità del sangue che le imbrattava i vestiti e le si attaccava alla pelle. Gemette e si morse le labbra fino a quando il dolore non fu abbastanza forte da scacciare quelle immagini di morte.
“Devo rimanere calma, lucida. Respira, respira.”
Barcollò fino a un albero, un antico faggio dalle radici che affioravano dal terreno fangoso, un misto di terra e neve sciolta che le inzuppò i piedi. Vi si appoggiò con la schiena e trasse un profondo respiro, lasciando che l’aria fresca, quasi gelata, le decomprimesse i polmoni.
Le ultime parole di Cyril riemersero dalla memoria.
- Un anno. Un misero anno per salvare il mondo. Un po’ poco per un’impresa di questo genere. I bardi avranno di che comporre canzoni. -
Sorrise amara, per poi osservarsi le mani lisce, femminili, senza più calli. La tunica copriva il suo nuovo corpo, ma più Airis lo guardava, più non riusciva a capacitarsi che appartenesse a lei. Non sapeva spiegarsi, ma lo percepiva come estraneo, non suo. Forse, si disse, doveva solo di nuovo abituarsi ad essere viva. Rammentava che anche la prima volta, quando Lysandra le aveva impedito di morire, si era sentita nello stesso modo.
Il solo riportare alla mente il nome della sua vecchia aguzzina le procurò una fitta allo stomaco. Era lei la causa di tutto quel dolore, di tutta quella devastazione. Strinse i pugni e contrasse la mascella così forte da far scricchiolare i denti.
- Ti ho promesso che ti avrei ammazzata, un giorno. Un Cavaliere mantiene sempre le sue promesse. - sibilò.
Ingoiò la rabbia, imponendosi autocontrollo. Avrebbe messo ordine nella sua testa più tardi, adesso doveva trovare qualcosa di più pesante da mettersi e, magari, un’arma.
Con un ringhio si staccò dall’albero e si guardò attorno con più attenzione, alla ricerca di un indizio che l’aiutasse ad orientarsi, ma a parte la foresta e il cielo coperto di nubi non c’era niente. Sospirò e si massaggiò le tempie. Da qualche parte a nord dovevano trovarsi le rovine di Luthien e, probabilmente, anche l’accampamento. Non sapeva se fosse scampato qualcosa alla devastazione del drago e, sinceramente, cercava di non pensarci. Il ricordo di Copernico con il suo sorriso affabile riemerse da un angolo della sua mente, la ghermì con forza e la trascinò di nuovo in quel caos di gemiti e urla. Le gambe tremarono e Airis temette che non ce l’avrebbe fatta a compiere un passo in più. Invece continuò, ansimando ogni volta che il dolore le infliggeva una stilettata, straziandole il cuore; proseguì finché non riuscì più a trattenere le lacrime. Solo allora si fermò e lasciò che la loro carezza umida le scivolasse lungo le guance.
Pianse a lungo, nascosta all’ombra di un abete ricoperto di muschio e mangiato dall’edera. Pianse per Copernico, per la sua famiglia, per tutti gli abitanti di Luthien. Pianse in silenzio e con quelle lacrime regalò la sua ultima preghiera per loro, per i loro corpi insepolti e mai onorati.
Quando la crisi le diede tregua e fu in grado di ricacciare il dolore in fondo all'anima, si impose di mettere un piede davanti all'altro. Aveva un obiettivo ora, doveva salvare Ledah e non poteva permettersi errori: quello che era accaduto era stato frutto della sua indecisione e delle scelte sbagliate che aveva compiuto, continuare a rimuginarci non avrebbe riportato in vita nessuno. L’unica cosa che poteva fare era andare avanti a testa alta senza mai fermarsi e adempiere allo scopo per cui Cyril le aveva donato quella nuova vita, serbando nella memoria le voci, il calore e i sorrisi di quei giorni. Quei ricordi, a differenza delle ferite, non si sarebbero rimarginati, mai.
Esalò un sospirò stanco e obbligò la sua mente a ricordare qualcosa di quel bosco. Il Tabor, il grande fiume che divideva le regioni di Ferya ed Eleuterya, aveva molti affluenti, per lo più fiumiciattoli di poca importanza. Quando era all’accampamento riceveva regolarmente acqua, quindi le venne spontaneo pensare che nelle vicinanze dovesse essercene uno. Si guardò intorno e aguzzò l’udito, controllando persino l’intensità del suo respiro. Un sibilo di vento le portò all’orecchio un suono ritmico e scrosciante a circa mezzo miglio da dove si trovava lei. Prima di avviarsi, Airis raccolse un ramo da terra, quello che le sembrava il più robusto, e riprese ad avanzare, stando bene attenta a ogni rumore o fruscio sospetto. Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando i soldati di Felther avevano raso al suolo l’accampamento, ma si augurava di non imbattersi in nessuno dei suoi non-morti, anche perché in quel caso ci sarebbe voluto ben più di un pezzo d’albero per cavarsela.
Con suo gran sollievo non accadde nulla e quando distinse la striscia argentata del corso d’acqua, trasse un sospiro di sollievo. Si inginocchiò sul terriccio umido e bevve con avidità. Non si era resa conto di avere così sete e, soprattutto, fame, fino a quando il suo stomaco non protestò.
“Oh, fantastico…”
Raccolse le mani a coppa con tutta l’intenzione di lavarsi la faccia, quando si pietrificò a guardare il suo riflesso. Aveva gli stessi capelli, dello stesso identico rosso acceso, e anche il viso non era cambiato, ma i segni indelebili che la guerra, le battaglie e il passato le avevano lasciato addosso erano svaniti.
Sbalordita, arrotolò le maniche della tunica e poi quelli dei calzoni fino al ginocchio. Niente cicatrici, niente segni di bruciature, nulla.
“Che anche quella sia…?”
Con una certa titubanza, infilò la mano sotto la stoffa, trattenendo il respiro. Quando le sue dita incontrarono la cicatrice sul petto, il suo cuore perse un battito. Percorse quel vecchio taglio per tutta la sua lunghezza, gli occhi socchiusi e le labbra serrate nella morsa dei denti. Perché quella c’era ancora? Perché Cyril non l’aveva fatta sparire come tutte le altre? Domande a cui, per ora, non poteva dare risposta.
Riprese a camminare verso nord, tenendo sempre come punto di riferimento il muschio che cresceva sul tronco degli alberi. Da quando si era pugnalata, non ricordava assolutamente nulla, era come se avesse dormito fino al momento in cui si era risvegliata nella Casa della Cenere, il luogo dove riposano i vecchi Guardiani. Non sapeva quando e come avesse acquisito quell'informazione, ma anche tutte le altre, che si era resa conto di possedere mentre camminava verso il trono in fondo al corridoio, sembravano essere spuntate dal nulla.
“In linea del tutto teorica, Cyril potrebbe averle… trascritte nella memoria del nuovo corpo, ma è pura speculazione. Avrebbe potuto dirmi qualcosa prima di rispedirmi qui, sarebbe stato molto gentile da parte sua.”
Dopo aver riflettuto un po’, accantonò tutte quelle domande e accelerò il passo. Il sole era già alto e avrebbe preferito arrivare e lasciare l’accampamento prima di sera. Tenendo sempre sott’occhio il nastro di fumo che si alzava oltre le cime degli alberi, risalì il fiume.
Pian piano l'astro diurno cominciò la sua parabola discendente e la luce divenne sempre più tenue al di là della coltre di nuvole che oscurava il cielo, mentre il freddo diventava sempre più pungente. Quando finalmente scorse la sagoma di una tenda rimasta miracolosamente in piedi, era ormai l'imbrunire.
Solo dopo aver scandagliato l'ambiente circostante, Airis si decise a entrare con cautela nell’accampamento, o meglio, di quel che ne rimaneva. I soldati di Felther non si erano nemmeno degnati di far sparire i corpi, lasciati in balia delle bestie selvatiche. Molti di questi giacevano nella stessa posizione in cui la morte li aveva colti, riversi nelle loro stesse interiora o in pozze di sangue ormai raggrumato, gli occhi e la bocca spalancati invasi dai vermi e dalle mosche. Sentì la rabbia montare. Scrutava quei volti lividi, le loro espressioni di terrore, cercando di imprimersele nella memoria, le dita serrate intorno al ramo e l’espressione del viso impassibile che celava la tempesta nel suo animo.
Più volte si inginocchiò per chiudere gli occhi dei morti, racchiudendo in quel gesto, l’unico che potesse fare, una preghiera perché trovassero la pace in qualsiasi posto fossero andati. Non distolse mai lo sguardo, nemmeno quando urtò la testa di un bambino con l’espressione terrorizzata ancora stampata sul viso e le lacrime gelate sulle guance cianotiche. Il suo corpo mutilato giaceva poco più in là, nascosto sotto quello di una donna a cui era stato strappato un braccio.
Passò oltre tutti gli abitanti di Luthien, oltre i loro cadaveri dissacrati, fatti a pezzi. Quando arrivò al centro del campo, si diresse con sicurezza verso la tenda di Felther. Alzò uno dei lembi e rimase per un lungo momento in silenzio a contemplare le varie macchie di sangue che annerivano il terreno nei punti in cui Raiza e Baldur avevano combattuto. Se mai un giorno li avesse rivisti, si ripromise, li avrebbe ringraziati per averla salvata. Il suo pensiero andò poi al Cavaliere del Drago, alla speranza che aveva portato, per poi trascinarla nel fango assieme alle donne, ai bambini, agli uomini innocenti che avevano creduto in lui. La pelle sulle nocche della mano che stringeva il ramo si tese così tanto da farle male.
- Non hai onore, Felther. - mormorò invelenita.
La luce del giorno sfumò nel rosso, per poi scurirsi nel viola del crepuscolo. Da lontano, le orecchie di Airis colsero l’ululato prolungato di un lupo e il cupo bubolare di un gufo. Volse gli occhi al cielo e valutò che le mancassero circa due ore prima che la notte calasse del tutto. Voltò le spalle alla tenda e cominciò a setacciare l’accampamento in cerca di un’arma e di qualcosa di più resistente da mettersi addosso. Ricordava che, tra i sopravvissuti, c’erano alcune guardie cittadine.
Sepolto sotto una delle tende al limitare del bosco, trovò un uomo con un’armatura ancora in buone condizioni. Un pugnale lungo gli trapassava da parte a parte il collo.
Prima di rivoltarlo di schiena, Airis prese un profondo respiro. Doveva farlo o non sarebbe sopravvissuta. Sciolse le cinghie e con delicatezza gli sfilò la corazza e cotta di maglia, stando bene attenta che i capelli non si impigliassero negli anelli. Le sarebbe stata un po’ larga, ma non poteva pretendere di più. Riluttante, infine, tenne ferma la testa ed estrasse il pugnale in un unico, rapido movimento. Lo pulì come meglio poté sull’erba e lo infilò nella cintura di cuoio.
“Questo è per le emergenze. Mi serve qualcosa di meglio per combattere.”
Si guardò intorno e, ancora una volta, dovette obbligarsi per alzarsi e dirigersi verso il cadavere di un uomo vicino ai resti del focolare. Una freccia lo aveva colpito alla schiena ed era uscita dal basso ventre, dopo aver fracassato il bacino e aver squarciato l’intestino e le arterie. Stretta ancora tra le dita gelate, teneva una spada dalla lama in acciaio incrostata di fango. Il fodero pendeva dalla cintura rimasta miracolosamente intatta.
La mano del morto si aprì senza che dovesse fare il minimo sforzo. Prima di rimettersi in piedi, abbassò il capo, ringraziando quell’uomo senza nome per il dono che le aveva fatto, poi rinfoderò la nuova arma.
“Bene, ora… ora devo solo avviarmi verso la prima città e…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che le sue orecchie colsero un fruscio dalla parte opposta del campo, seguito dal tenue lucore di una torcia.
- Chi va là? Aspetta, aspetta, non scappare! -
Airis non stette a sentirlo. Scattò, correndo verso il bosco. Scivolava veloce nell’ombra, agile come non si sarebbe mai aspettata, i piedi che toccavano appena terra e il sangue che scorreva rapido nelle vene al comando concitato del cuore.
- Maledizione, aspetta! Voglio aiutarti! -
“A morire? No, grazie, semmai faccio da sola.”
Spostò un ramo che si frapponeva sulla sua strada, saltò una radice particolarmente spessa e si precipitò verso l’affluente del Tabor. Da lì sarebbe stato facile far perdere le sue tracce o, almeno, così sperava. Gettò una rapida occhiata alle sue spalle e imprecò tra i denti, vedendo la figura del suo inseguitore alle calcagna. Non aveva più la torcia e chissà come riusciva a seguirla in quella fitta oscurità.
Airis si addentrò ancora di più nel sottobosco, frenò e girò quando colse lo sciabordio familiare dell’acqua. Con i polmoni che le bruciavano e i muscoli che protestavano per lo sforzo, si costrinse ad aumentare l’andatura. Ma il suo inseguitore era sempre più vicino e guadagnava terreno, a momenti le sarebbe stato addosso.
Quando vide il nastro argentato che tagliava il bosco, si fermò all’improvviso e sguainò la spada, descrivendo un ampio semicerchio davanti a sé. L'altro si fermò poco prima di finire infilzato sulla lama.
- Stai indietro. - ringhiò.
- Va bene, va bene, calmati ora. Non voglio farti del male, solo parlare. -
- Chi sei? -
Lo sconosciuto sospirò, si morse le labbra e rimase fermo per qualche secondo, come se fosse indeciso sul da farsi. Poi alzò entrambe le mani e fece un passo nella sua direzione. La luce bianca della luna si infranse sul pettorale argentato, illuminando le due ali dorate che circondavano una spada istoriata con l’effige di un lupo.
- Sono Arghail, un soldato dell’esercito di Sershet. Ero di stanza a porto Eamone e, quando io e i mei compagni abbiamo visto quella luce accecante, ci siamo diretti subito qui. - fece un cenno con la testa, indicando un punto alle sue spalle, - I miei compagni si sono accampati poco lontano, ma io sono comunque voluto venire in avanscoperta per vedere se c’era qualcuno. -
Airis lo scrutò, diffidente. Da quella distanza riusciva a vederlo abbastanza bene. Era un ragazzo alto quanto lei, se non poco di più, con i capelli castani che gli si appiccicavano alla fronte sudata. Aveva le spalle larghe, rese ancora più possenti dagli spallacci che le ricoprivano, e al fianco portava una spada lunga, di ferro e acciaio temprato.
- Corri molto veloce per essere una ragazza. - buttò lì Arghail, le labbra atteggiate in un sorriso accondiscendente, - Devi avere un’ottima resistenza, visto che non è di certo facile tenere quell’andatura così sostenuta con quel peso. Eri per caso una guardia cittadina? -
Airis fece un passo indietro. La carezza gelida dell’acqua contro lo stivale le procurò un brivido freddo lungo la schiena.
- Ascolta, davvero, non voglio farti del male. Siamo… sono qui per aiutarti. - insisté, poi, vedendo che la sua interlocutrice non sembrava avere intenzione di collaborare, sospirò, - Puoi almeno dirmi dove sono i tuoi compagni e se hanno bisogno di aiuto? Ho visto i morti, siete forse stati attac… -
- Non c’è niente da salvare. - la voce le uscì più ostile di quello che avrebbe immaginato, - Non si è salvato nessuno, purtroppo. Non so cosa sia successo qui, io… stavo solo cercando delle armi tra i cadaveri. -
Il ragazzo aprì la bocca, per poi richiuderla senza dire nulla. Un istante dopo sgranò gli occhi, incredulo e sconcertato, e un flebile mormorio gli scivolò dalle labbra.
- Generale… -
Sentendosi chiamare con quell’appellativo, Airis si immobilizzò. Fu allora che la testa cominciò a girarle e tutto il mondo divenne un miscuglio frenetico di colori e di sagome senza più contorni. Perse la presa sulla spada e cadde in ginocchio, mentre il coro indistinto delle voci degli antichi Guardiani le assaliva le orecchie e le invadeva la mente.
L’ultima cosa che vide prima di accasciarsi al suolo furono gli occhi di Arghail.
Occhi chiari, di un indaco liquido illuminato da una sincera preoccupazione.
Occhi come quelli del re nella Casa della Cenere.
Una supplica riecheggiò nel cervello, levandosi al di sopra delle altre.
“Aiuta mio figlio a diventare re!”

  
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