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Autore: vincey_strychnine    18/01/2017    0 recensioni
" “E io cosa sono?” mi chiese rigirandosi in mano il tappo della bottiglia.
L’animo poetico. L’Anticristo. Il lato oscuro. Vicious e Rotten racchiusi in una persona sola. Un demone in fiamme.
“Beh… tu scrivi i testi e suoni il basso, no?”
(..)
Mi guardò negli occhi da sotto la frangia. “Wow biondina, grazie mille, non sprecarti.”
“Non lo so rockstar, dimmelo tu cosa sei.”
“Sono quello che vedi, bimba.”
“Ah sì? Vuoi dire che non si nasconde nulla dietro agli strati di trucco, alle birre e alle groupie? Vuoi dirmi che questa non è una maschera, che la tua essenza, i tuoi desideri più profondi, sono visibili a tutti alla luce del sole?” Nikki non rispose per un bel po’.
(..)
“Che cos’è che vuoi davvero, Nikki Sixx?” "
Los Angeles, 1983: Rebecca è scappata di casa, da un'Italia che le va stretta, ed ora, nella città dei suoi sogni e con un nome inventato trovato in una canzone, è pronta a farsi una vita che sia come la vuole lei. L'incontro con una rockstar le cambia la vita ancor più del trasferimento, trascinandola in vortice di eventi da cui uscire sarà difficile.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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I

 

 

NB: le parti in corsivo, almeno per primi due capitoli, sono flashback. Buona lettura!

 

Agosto 1983, Bologna, Italia

Era l’una inoltrata, perciò dovevano essere le nove di sera, a New York, e allora perché diavolo Peter non rispondeva al telefono?

Piegai la testa di lato per sorreggere la cornetta del telefono contro la spalla mentre nervosamente frugavo nello zaino alla ricerca delle sigarette. Fuori dalla cabina telefonica, uno degli ultimi temporali estivi dell’anno si stava abbattendo sulla città, l’acqua si riversava a grandi scrosci dal cielo notturno e dalle grondaie straripanti, le strade nere come fiumi in piena ed il frastuono della pioggia e dei tuoni quasi copriva il suono proveniente dal telefono. Tre, quattro, cinque squilli a vuoto.

“Rispondi, ti prego… Cristo Pete, prendi su il telefono per l’amor di Dio…”

 

“Ale, non dire stronzate, non possiamo fumare qua dentro, lo sai.” Mi ero affrettata a strappare il sacchetto di plastica contenete un paio di grammi di purple haze dalle mani del mio amico.

“Dai, ti prego… non lo vedi che sta venendo giù il diluvio universale, fuori? E’ una canna e basta, tua madre mica sentirà l’odore” rispose Alessandro guardandomi speranzoso.

Sospirai guardando fuori dalla finestra della cucina: era vero, quegli ultimi giorni di libertà prima dell’inizio della scuola non avevano neppure avuto la decenza di essere soleggiati. Sembrava che l’autunno fosse arrivato in anticipo, specialmente quella sera. “Non se ne accorgerà mai, dopo apriamo le finestre.. E’ l’ultima canna delle vacanze, non ha senso fumarla fuori con questo vento se..”

“Va bene” tagliai corto io. Alessandro sapeva sempre essere persuasivo. Mi fece l’occhiolino da sotto il casco di capelli castani.

L’avevamo appena accesa quando era arrivata mia madre, tutta agghindata e ancora mezza ubriaca dopo la serata con gli amici.

 

“Sì, pronto?” la voce di Peter arrivò fredda e meccanica dalla parte opposta del ricevitore.

“Pete, sono io.”

“Oh, Dio, ma che è successo? E’ notte fonda in Italia, perché mi chiami da una cabina?”

“Pete, io.. ho litigato con mamma.”

“Ancora? Che cosa hai fatto stavolta?”

“Niente, niente di che.. una festa mi è sfuggita un po’ di mano, tutto qui.” sapevo che Peter non si sarebbe preso la briga di chiamare mia madre per avere conferma, non erano in buoni rapporti e poi lui si fidava ciecamente di me. “Solo che, ecco, era un po’ su di giri e.. insomma Pete credo che mi abbia cacciata di casa sul serio, stavolta.” Era un’abitudine, per mia madre, trovare un motivo per cui io non fossi all’altezza del resto della famiglia e conseguentemente minacciare di mettermi alla porta. La scuola, le brutte compagnie, la musica sempre troppo alta.. ogni scusa era buona.

 

“Fuori di qui, tutti e due! Drogati del cazzo, tu e il tuo amico.. bella gente che si trova in quel tuo liceo di merda!” gridò, ancora avvolta nella pelliccia. Non avevo resistito dal

ribattere: “I miei amici li scelgo io, stronza! Non credo proprio di essere una drogata del cazzo per una canna, mammina cara. O devo ricordarti delle pillole all’efedrina che ingoi come se fossero zuccherini con la scusa che ti levano la fame?” Non potevo credere alle mie stesse parole, erano mesi che morivo dalla voglia di dirglielo in faccia. Ma fu la goccia che fece traboccare il vaso: lo schiaffo arrivò, più violento del previsto, e subito mi sentii bruciare il viso. Come paralizzata, rimasi con i piedi piantati sul parquet del salotto, portandomi una mano al viso, e mi resi conto che uno degli anelli di mia madre doveva avermi graffiata, perché sulle punte delle dita mi ritrovai delle piccole macchioline rosse e appiccicose. Mi fissò con gli occhi spalancati, senza sapere bene cosa fare.

Senza dire una parola, afferrai lo zaino consunto che avevo lasciato in salotto e, seguita da Alessandro che camminava a testa bassa, mi diressi fuori dalla porta e giù per le scale del palazzo. Basta, non potevo resistere un minuto di più in quella casa.

 

“Dovresti provare a parlarci, sai che non diceva sul serio” Oh Petey, sei sempre così ragionevole, così buono e onesto. Mi chiedevo in continuazione cosa ci avesse visto in quella squilibrata di mia madre quando, una ventina d’anni prima, si erano incontrati un’estate. Lui era un brillante ragazzone americano, un’eccellenza di Harvard, un solido, atletico giovane uomo dalle sane abitudini, e lei? La figlia di un ricco imprenditore che, avendo già un posto assicurato nell’azienda di famiglia, non aveva di meglio da fare che spendere i soldi di papà in orologi di Cartier e provare nuove diete allucinanti che le permettessero di assumere tutte le droghe legali in circolazione. Eppure, Peter si era innamorato di lei. Quando un paio di anni dopo gli era arrivato dall’Italia l’invito al matrimonio, gli si doveva essere spezzato il cuore. O perlomeno, questo era quanto immaginavo: non ne parlavamo mai. La sua bella Italian girl era rimasta incinta di un amico di un amico e adesso se lo sposava. Il matrimonio fra i miei non era durato molto, divergenze inconciliabili, così avevano decretato gli avvocati, e sapevo che mia madre mi accusava, seppur magari inconsciamente, di aver rovinato la sua vita. Del resto se non fossi arrivata io non si sarebbe sposata, e avrebbe potuto ancora fare quello che voleva.

“Pete, la conosci mamma.. non mi vuole e non mi ha mai voluta. Ora voglio solo andare via di qua.”

 

Appena fuori, per strada, Alessandro mi abbracciò senza proferir parola. Mi staccai infastidita: non volevo la sua compassione. Mia madre ci aveva cacciati entrambi, era vero, ma lui aveva la sua bella famigliola da cui tornare adesso. Avrebbe anche potuto ospitarmi, sapevo che non avrebbe rifiutato, ma per qualche stupido motivo non volevo che lo facesse. Detestavo l’idea di dipendere da qualcuno, fosse mia madre o il mio migliore amico. “Niente abbracci, drogato del cazzo. Fumiamoci questa canna e basta, okay? Come se non fosse successo nulla.” E così facemmo. Riparati sotto un portico fumammo in silenzio e poi Alessandro si voltò a guardarmi di nuovo con quell’espressione compassionevole stampata in faccia. “Vai a casa, Ale. E’ quasi l’una, i tuoi si staranno preoccupando.”

“E tu cosa farai?”

“Qualcosa mi verrà in mente.”

Gli mandai un bacio volante prima di voltarmi come ero solita fare con i miei amici: era parte del personaggio che mi ero creata in quei quattro anni di liceo, così lontano da come ero io veramente che stentavo a riconoscermi.

“Non fare cazzate.”

Mi girai a guardarlo un’ultima volta continuando a camminare a ritroso: “Vai a casa.”

 

“Ti servono dei soldi?” chiese Peter dopo un lungo silenzio

Nonostante lui e mia madre non si parlassero più da anni, per qualche motivo Peter aveva sempre insistito a tenersi in contatto con me, quasi fossi la figlia che la sua bionda moglie cardiologa non poteva dargli, e così con gli anni era diventato come un secondo padre, a rimpiazzare il mio che era letteralmente sparito dopo il divorzio: all’inizio Peter mandava solo costosi regali per Natale e per i compleanni, poi aveva insistito per pagarmi i libri scolastici e cose simili, poiché mia madre pur disponendo di un ingente patrimonio non spendeva volentieri i suoi soldi per me. Quella stronza… mi ero sempre sentita strana, fin da quando alle elementari tutti i miei amici sbandieravano i loro panini preparati da mammina, i colletti del grembiule stirati da mammina, i compiti fatti assieme a mammina e mammina che veniva a prenderli da scuola sulla sua Fiat vecchia decrepita ma calda e accogliente, con i giocattoli e le briciole di cracker incastrati nei sedili posteriori, mentre io attendevo irrequieta l’arrivo della baby-sitter di turno. “Mi rifiuto di essere una donna di casa” diceva mia madre con quell’orgoglio anni Settanta da finta donna emancipata. “Non cucino, non lavo, e non pulisco il tuo naso moccicoso.” Bella roba, eh? 

Non mi ero mai sentita a casa nel nostro appartamento, così come non mi ero mai sentita tagliata per quella città che grande era solo di nome, e tantomeno per l’Italia. Non mi piacevano la sua mentalità, i suoi politici, e nemmeno i suoi paesaggi. No, non volevo città medievali e dolci colline: volevo andare lontano, bruciavo dal desiderio di vivere in un Paese enorme, così grande che il fuso orario cambiasse da una zona all’altra, con grandi città pulsanti di vita, autostrade immense, deserti di polvere rossa e grattacieli, e libertà, e musica…

Un’idea all’apparenza pazzesca si fece strada nel mio cervello, prendendo una forma sempre più nitida, e un nome, anche. America. California.

“No Pete, niente soldi” spensi la sigaretta pestandola con la punta di uno stivale.

“Solo un biglietto aereo per Los Angeles.”

Il tempo messo a disposizione dal centralino stava scadendo. Peter, un po’ titubante, mi promise che avrebbe prenotato un posto sul primo volo. Mi offrì anche uno dei suoi appartamenti a Santa Monica, che normalmente affittava per l’estate, ma rifiutai: volevo l’America vera, quella dei motel e delle notti di strada che tanto decantavano i miei musicisti preferiti, quella degli Eagles, di Tom Waits, dei Ramones, non una sua qualche versione patinata vista dal vetro di un attico. Mi sarei trovata un lavoro, avrei avuto una vita mia. Era il sogno americano, o no?

“Prenditi cura di te, Rebecca.”

Riattaccai ed uscii dalla cabina telefonica sentendomi mancare l’aria. Rimasi ferma a specchiarmi nel vetro per un paio di secondi: sotto l’occhio destro, sul graffio provocato da mia madre stavano ricominciando a formarsi goccioline rosso vivo come capocchie di spilli. Mi resi conto allora che stava ancora piovendo ed in una corsa a perdifiato raggiunsi la fermata dell’autobus più vicina.

Corri per la pioggia, o corri perché scappi da qualcosa?

La corriera che portava all’aeroporto era una delle poche che effettuavano corse notturne, ed era praticamente vuota. Decisi di sedermi vicino al finestrino e cominciai a razionalizzare la mia decisione: Los Angeles, la città dei miei sogni, che vibrava di rock n’ roll, di lustrini e opportunità, mi aspettava. Nello zaino, una stecca di Marlboro rosse, qualche lira (abbastanza, una volta cambiate in dollari, da resistere in un motel a buon prezzo finché non avessi trovato un lavoretto), Big Sur di Kerouac e il walkman con la mia amata cassetta registrata in una serie di pomeriggi infinita all’inizio dell’estate. Indossai le cuffie, e subito la chitarra acustica a me tanto familiare attaccò: Going To California dei Led Zeppelin, mi parve quasi un segno del destino.

Spent my days with a woman unkind

Smoked my stuff and drank all my wine.

Le vie del centro sfrecciavano davanti ai miei occhi. Addio per sempre, non mi mancherete.

Made up my mind to make a new start

Going To California with an aching in my heart.

Fuori, la pioggia scrosciante lavava via la calura di quegli ultimi giorni d’Agosto e ogni traccia di quella vita che non avevo mai sentito mia.

 

 

Note dell’autrice: Beh, eccomi qua. Salve. Saranno almeno quattro anni che voglio scrivere qualcosa sui Motley e finalmente mi sono decisa a farlo. Mi scuso per questo capitolo d’introduzione un po’ lungo in cui per di più non compare nemmeno un membro della band, ma volevo rendere la storia più o meno credibile e poi non ci sarebbe gusto se i protagonisti arrivassero tutti subito, o no?

La storia comunque sarà incentrata su Nikki e sulla protagonista, che avete già avuto modo di conoscere in questo capitolo, ma ci saranno ovviamente anche gli altri componenti della band.

Cercherò di pubblicare il più regolarmente possibile e pubblicherò il secondo capitolo appena avrò scritto il terzo, spero nel giro di una settimana o meno.

 Nel frattempo, spero che la storia vi piaccia (e che qualcuno la legga, più che altro).

A presto,

Vincey

PS: mi scuso per la mancanza dell’umlaut nel nome della band, ma la tastiera del PC non ce l’ha :’)

  
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