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Autore: Adeia Di Elferas    20/01/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico Sforza guardò da sopra il bordo del calice i due ambasciatori di sua nipote.

Antonio Baldraccani ricambiava lo sguardo con serafica tranquillità, mentre gli occhi di Giovanni Delle Selle erano più fermi e lasciavano trasparire tutta la sua determinazione.

Il primo approccio tentato, quello basato tutto sulle moine e i complimenti, non aveva avuto la presa sperata e così gli uomini della Sforza erano stati costretti a usare un registro differente.

“Quello che la vostra signora mi sta chiedendo non dipende da me.” provò a dire il Duca di Milano, soppesando accuratamente ogni parola: “La Lega è stata voluta dal papa ed è stata Venezia a decidere di fondarla. Io non vedo come potrei aver qualcosa a che fare con la posizione di mia nipote al suo interno.”

“La Contessa Riario – disse Giovanni Delle Selle – sa bene quanto Milano abbia pesa all'interno della Lega, malgrado voi, Duca, stiate ancora cercando di fare buon viso a cattivo gioco con il re di Francia.”

Il Moro espirò con forza e riappoggiò il calice al tavolino rotondo. Sapeva che quell'incontro si sarebbe rivelato molto spiacevole. Non aveva creduto possibile che Caterina avesse mandato due ambasciatori solo per fargli i complimenti: era logico che volesse qualcosa da lui e che pretendesse di ottenerla a ogni costo.

“Vedetela sotto questa luce – fece Baldraccani, molto più accomodante – se adesso la nostra signora si compromettesse entrando in questa Lega e permettendo a voi di far guerra ai francesi nelle sue terre, a guerra finita sarebbe troppo difficile per lei riavere il favore dei suoi vicini, e anche del suo popolo, che dopo i recenti eventi tutto vuole fuorché piangere altri morti, e questo non conviene nemmeno a voi.”

“Assurdità.” la voce di Ludovico era ancora ferma, ma le sue pupille tradivano un'improvvisa insicurezza: “Il suo popolo non avrebbe mai la forza di ribellarsi a lei. Ricordano ancora tutti che fine hanno fatto gli Orsi! E poi chi mai dovrebbe voltarle le spalle, a guerra finita, se tutti i suoi vicini faranno parte della Lega?”

“Il Conte Guerra di Cesena non è affidabile.” spiegò Baldraccani, sporgendosi in avanti, fingendo di voler dare un tono più confidenziale al colloquio: “E lo stesso si può dire di Faenza. È necessario per la nostra signora mantenere il più possibile lo status quo e la pace. Permettetele di non entrare nella Lega, senza averne svantaggi. Proteggetela, senza pretendere altro. A guerra finita, saprà come ripagarvi.”

A Ludovico quelle parole puzzavano di bruciato. Sua nipote già una volta aveva fatto promesse a vuoto, quando lui aveva investito uomini, denaro e la propria reputazione per andare a salvarla dagli Orsi, e quella volta, alla fine, non ci aveva guadagnato assolutamente nulla.

“Ultimamente ho notato che mia nipote si è avvicinata molto a Firenze.” disse il Moro, più leggero, come a cercare di cambiare argomento: “La Repubblica fiorentina è molto viva, lo ammetto, malgrado quel pidocchioso Savonarola, ma è anche molto frammentata.”

Antonio Baldraccani non ribatté, lasciando quella questione spinosa al suo socio.

Giovanni Delle Selle giunse le mani in grembo e, guardando la stanza corrucciato, suggerì: “La mia signora ha necessità di tenersi buona Firenze anche in riguardo a voi.”

Il Duca di Milano, irritato da quella situazione che gli pareva paradossale, si alzò e andò a lunghi passi verso il camino spento.

La primavera era ancora tiepida, benché ormai si fosse quasi in giugno, ma il Moro aveva dato ordine di spegnere tutte le fonti di calore non strettamente necessarie.

In parte, così come aveva fatto altre volte, la sua iniziativa era da imputarsi al desiderio di rendere il soggiorno agli sgraditi ospiti talmente penoso da indurli a ripartire in anticipo.

Con un piccolo moto di soddisfazione, Ludovico si trovò a ricordare come quel trucchetto fosse stato una volta utile per liberarsi con rapidità di suo nipote Gian Galeazzo e della sua odiosa moglie.

Però gli ambasciatori di Forlì sembravano fatti di una pasta più resistente.

“Firenze è una bolgia infernale!” esclamò il Duca, voltando platealmente le spalle a Baldraccani e Delle Selle: “I Medici sono serpi che si mordono a vicenda di continuo! Non è più il tempo del Magnifico! I Popolani e il Fatuo si azzanneranno fino a far morire il loro lignaggio e a quel punto mia nipote si renderà conto di aver coltivato un'amicizia inutile, se non dannosa! Spariti i Medici, decine di altre famiglie si spartiranno la Signoria e lei sarà additata come una nemica per il semplice fatto di aver fraternizzato con i vecchi tiranni!”

La voce del Moro rimbombò ancora per qualche istante nel salone, fino a che le pareti decorate non inghiottirono anche la sua ultima eco.

“Dite a mia nipote che dovrà entrare nella Lega, che le piaccia o no.” concluse Ludovico, le mani stette dietro l'ampia schiena.

“Non lo farà.” disse con semplicità Antonio Baldraccani, riacquistando il sorrisetto angelico che aveva assunto fin dal primo momento.

Il Duca si voltò di scatto e minacciò: “Ci provi solamente e io...!”

“Voi cosa?” si fece avanti Delle Selle.

Ludovico lo fissò con fare intimidatorio, ma non riuscì ad aprir bocca.

I due ambasciatori avevano pensato anche a quell'eventualità e così entrambi sapevano che era il momento di tentare il tutto e per tutto, facendo mostra delle loro abilità di dissimulatori e ingannatori.

“State sottovalutando molto le amicizie di vostra nipote.” sussurrò Giovanni Delle Selle, lasciando la propria sedia e piazzandosi sotto al naso del Moro: “Ricordatevi che il Conte Ottaviano è il figlioccio del papa e che lei stessa è grande amica di Sua Santità. Chiedete pure ai vostri emissari che ci hanno visti in Roma all'elezione di Alessandro VI. Vi diranno con precisione quanto fosse palese la benevolenza di Sua Santità. E quella che voi chiamate 'amicizia' con Firenze è una vicinanza molto più seria e assai più vantaggiosa. Dunque venir qui a chiedervi questo favore è solo una gentilezza, un modo per dimostrarvi la lealtà della nostra signora e per non accantonarvi. Se non siete pronto a cogliere questo sottinteso, allora non ci resta che tornare a Forlì e riferire quel che avete detto, ma a quel punto spetterà a voi avere paura.”

Ludovico aggrottò la fronte e le sue spesse sopracciglia quasi si toccarono. Quanto era difficile capire quello che c'era di vero in una simile dimostrazione di forza...!

“Vostra Signoria – soggiunse Baldraccani, prendendo per un braccio Delle Selle, come a volerlo placare, in una recita ben studiata che però al Duca parve vera e sincera – perdonate il mio amico, che si è lasciato trascinare dal momento. Riferiremo le vostre decisioni alla nostra signora.”

I due fecero per andarsene, quando Ludovico sentì mancarsi la terra sotto i piedi: “Aspettate!” li richiamò.

Nell'arco di un minuto il Moro ripensò a tutto il quadro generale e si pentì di non avere anche Calco al suo fianco. Il suo cancelliere, con le sue sagge raccomandazioni da pedante burocrate, lo aveva stufato tanto in quei giorni che il Duca lo aveva invogliato a fare un giro a Vigevano e nel pavese per controllare lo stato delle corti minori che per troppo tempo erano rimaste nell'ombra.

Di certo Calco avrebbe saputo capire quale fosse la verità. Che gli ambasciatori di Caterina fossero stati accolti con paterna deferenza da parte del papa era vero, il Moro lo aveva saputo direttamente dai suoi uomini in Vaticano. Tuttavia...

L'appoggio di Imola e Forlì sarebbe stato importante, ma era anche vero che poteva dimostrarsi non indispensabile. Caterina era una donna caparbia e permalosa e avrebbe preso male una direttiva troppo diretta, dunque, se c'era anche solo un briciolo di verità nelle parole dei suoi ambasciatori, inimicarsela per qualcosa che, forse, non sarebbe stato poi così determinante ai fini della vittoria, sarebbe stato da folli.

“Mia nipote potrà restare neutrale. Tratterò io personalmente la faccenda.” cedette Ludovico, furente: “Ma che le sia chiaro che ogni cosa ha il suo prezzo.”

 

Passando il pollice e l'indice sul bordo del colletto del giubbotto da viaggio, Tommaso Feo scosse il capo in modo definitivo: “Non ho ripensamenti. Se adesso restassi ancora per fare da scorta a vostra figlia, passerebbe ancora tutto giugno, e poi ci sarebbe un motivo per restare a luglio e poi ad agosto e non potrei andarmene più.”

Caterina capiva bene quello che il cognato le stava dicendo, ma il pensiero che a giorni sarebbe arrivato a Forlì Astorre Manfredi stava prendendo il sopravvento su tutto il resto.

La Contessa voleva qualcuno di fidato a fare da scorta a Bianca, in modo tale che nessuno, in nessun caso, potesse mai avanzare dubbi sul fatto che sua figlia fosse stata o meno mai da sola con il signore di Faenza.

Tommaso, però, era stato con lei molto chiaro anche il giorno prima, quando Caterina gli aveva affidato i documenti necessari per insediarsi di nuovo a Imola. Con i suoi occhi dolenti, l'uomo aveva confessato anche l'inconfessabile e cioè che se non fosse partito in quel momento, non sarebbe più riuscito a sopportare l'idea di allontanarsi da lei. Doveva sfruttare quel momento di risolutezza, altrimenti si sarebbe trovato di nuovo in un vicolo cieco, imbrigliato dai suoi sentimenti e incatenato da una situazione senza vie d'uscita.

Tommaso alzò gli occhi verso il sole estivo di quella mattina e poi si guardò alle spalle. Oltre il ponte levatoio, la carrozza e i bagagli già lo aspettavano assieme a sua moglie.

Bianca Landriani aveva salutato la sorella con un abbraccio affettuoso, ma frettoloso, come se anche lei temesse un ripensamento di Caterina o, peggio ancora, del marito.

Anche se lasciare Forlì era per il Governatore Feo un supplizio, l'uomo era pronto a lasciarsi alle spalle la Contessa e tutto quanto. Aveva passato intere notti insonni a chiedersi che volesse fare della sua vita e aveva capito che era il momento di imparare ad amare sua moglie, cercando di darle tutto quello di cui aveva bisogno, senza farla più soffrire.

Caterina, nel profondo, era stata contenta di questa decisione, anche se solo alla vista della piccola processione di carri e cavalli si era accorta di quanto Tommaso fosse importante per lei.

Però erano arrivate ottime notizie da Milano e, anche se c'erano voci secondo le quali il papa, spaventato dall'arrivo di re Carlo, aveva lasciato Roma, assieme alla figlia Lucrecia, rientrata precipitosamente da Pesaro, la situazione a Forlì era tranquilla e probabilmente lo sarebbe rimasta.

Caterina aveva promesso a Tommaso di lasciarlo andare e così doveva fare.

Non aveva più scuse.

“Va bene. Vi terrò informato costantemente su quello che succede.” disse la Contessa.

Tommaso annuì e restò impacciato quando venne il momento di salutare la sua signora. Visti i tempi incerti in cui vivevano, poteva essere anche l'ultima volta che si vedevano.

Anche Caterina ebbe quell'improvvisa rivelazione e così, senza badare agli sguardi curiosi dei soldati di ronda, allargò le braccia e strinse a sé il nuovo Governatore di Imola.

Da sopra la spalla di Tommaso, la Contessa intravide sua sorella Bianca occhieggiare da dietro la tendina della carrozza, ma cercò di non badarvi.

“Vi ringrazio di tutto.” disse all'orecchio dell'uomo.

Con gesti un po' secchi, il Governatore Feo si allontanò da lei e ricambiò il saluto: “Sarò sempre un vostro fedele soldato.” e detto ciò si incamminò a passi rigidi verso il corteo che l'attendeva.

Caterina restò ferma dov'era. Guardò Tommaso attraversare il ponte e poi fermarsi a dire qualcosa a uno dei soldati di guardia. I due fecero una breve risata e il soldato tornò accanto al portone, la picca in resta e ancora un mezzo sorriso sulle labbra.

Mentre indugiava appena fuori dalla rocca, Tommaso venne raggiunto da Giacomo. A Caterina quel momento parve troppo intimo per intromettersi e così, con un sospiro lieve, portando con sé un'ultima immagine del profilo regolare e orgoglioso del cognato, rientrò nelle viscere della rocca per dedicarsi alle occupazioni della giornata.

“Non volevi salutarmi?” chiese il Barone, la bocca asciutta e le mani un po' sudate.

Aveva atteso tanto di veder ripartire suo fratello, convinto che la sua presenza alla rocca fosse sempre la sorgente di spiacevoli paragoni che Caterina di certo faceva tra loro due. Tuttavia, adesso che il momento era arrivato, non era riuscito a trattenersi e aveva sentito il bisogno di congedarsi in modo aperto con lui, tentando di togliere un po' della ruggine che il tempo e gli eventi avevano messo tra loro.

“Alla fine mi sbagliavo.” disse Tommaso di rimando, lanciando di soppiatto un'occhiata alla Contessa, che stava lasciando in quel momento il cortiletto della rocca, già abbastanza lontana da non sentire cosa si stessero dicendo lui e Giacomo: “Alla fine non si è stancata di te.”

“Credevo che questo punto l'avessi già appurato.” controbatté il fratello minore, adombrandosi.

Tommaso sollevò un sopracciglio e abbandonò per un istante il piglio contrito che lo caratterizzava ormai da troppo. Ritrovando il sorriso pacato di un tempo, il Governatore Feo allungò un braccio verso l'altro e Giacomo, all'inizio un po' riluttante, accettò la stretta di mano che poi si trasformò in un abbraccio vero e proprio.

“Guardati le spalle, fratello.” gli disse Tommaso: “E guardale anche a lei.”

Giacomo fece un cenno d'assenso con il capo, la gola di colpo stretta da un nodo arrivato chissà quando, e, dando una rapida pacca sulla spalla al fratello maggiore, lo lasciò libero di partire.

 

Alessandro VI da Orvieto era passato rapidamente a Perugia, e lì Bartolomeo d'Alviano aveva sperato di poter passare in via definitiva dalla parte della Lega.

Purtroppo, però, l'incontro con il cognato Virginio Orsini, sfuggito fortunosamente dalle grinfie dei Colonna, gli fece cambiare i suoi piani.

Invogliato da una condotta ragionevole, Virginio era passato ancora una volta al soldo francese, convincendo Bartolomeo a seguirlo e promettendogli, una volta tornati a Roma, la possibilità di una fuga in Francia.

“E appena saremo certi di tutto – aveva detto l'Orsini, passandosi una mano sui baffetti scuri – non ci resterà che richiamare a noi anche Bartolomea.”

Bartolomeo d'Alviano, con la morte nel cuore, aveva piegato la testa agli ordini del capofamiglia e lo aveva seguito senza fare troppe storie, pur convinto, nel profondo della sua anima, che in quel momento fossero gli Aragona, quelli da servire, non re Carlo di Francia.

La riconquista era alle porte e sarebbe stata gloriosa e ricordata nei secoli. Se il suo destino era quello di morire in guerra, avrebbe voluto farlo combattendo per la parte vittoriosa.

 

Astorre Manfredi giunse a Forlì in un pomeriggio di inizio giugno, accompagnato da trenta cavalieri con indosso armature tirate a lucido per l'occasione.

Studiatamente, il drappello di faentini fu fatto passare in solitaria in mezzo alla città. Caterina, che pure non avrebbe voluto quella visita, aveva messo da parte la rabbia e aveva speculato su come ottenere il massio guadagno da quello che era un inghippo. Così aveva pensato che quello fosse il modo più semplice e diretto per far capire ai suoi sudditi che di Astorre Manfredi poteva fidarsi.

La Contessa, assieme a Ottaviano, attese il signore di Faenza appena fuori dalla rocca. Bianca, in dimostrazione della sua rispettabile pudicizia, era stata tenuta al sicuro nelle sue stanze e si era deciso che non avrebbe mosso un dito senza la supervisione stretta e costante o del fratello o di Luffo Numai. Anche se si trattava di una misura a difesa della figlia, la Contessa soffriva nel pensare che Bianca avrebbe dovuto sottostare a quell'imposizione da lei stessa voluta, e così si trovò a desiderare fin dal suo arrivo la ripartenza dell'illustre ospite faentino.

Non aveva intenzione di ospitare Astorre a Ravaldino, perciò aveva fatto preparare per lui degli appartamenti di notevole bellezza e comodità in un palazzo nobiliare della città.

La folla di curiosi seguì il giovane Manfredi fino a destinazione e Caterina lo accolse con grande calore. Ottaviano, un po' in soggezione per tutta la gente che guardava e ancora un po' avvilito per come sua madre aveva incolpato lui per quella scomoda visita, si limitò a fare un inchino e a chiedere a voce alta al ragazzino come fosse stato il viaggio.

“Per grazia di Dio – fece Astorre, le guance piene da decenne un po' arrossate per essere davanti alla Contessa Sforza Riario, di fatto sua suocera – il viaggio è stato breve e privo di pericoli.”

A quel punto Caterina pregò suo figlio di accompagnare il signore di Faenza ai suoi alloggi e ricordò ad Astorre l'invito a cena alla rocca per quella sera.

Rientrando a Ravaldino, la Contessa ragionò tra sé sul fatto che il giovane Astorre in effetti appariva come un bambino molto a modo, gentile, di bell'aspetto e dalle buone maniere.

Con un fiotto d'ottimismo che di solito le era estraneo, Caterina si permise di sperare nella benevolenza del destino. Forse Giacomo, nella sua ingenua fiducia nel futuro, quella volta ci aveva visto giusto. Forse Astorre, crescendo, sarebbe diventato l'uomo giusto per Bianca.

 

Battista Sfrondati stava ripensando alla scena che aveva visto quel giorno, per puro caso, e non poteva fare a meno di sentirsi in agitazione.

Era in coda da Andrea Bernardi, con il pretesto di farsi sbarbare, e avrebbe dovuto ascoltare i pettegolezzi dei forlivesi, per sentire, soprattutto, quel che veniva detto del faentino Manfredi, ma la sua mente era ancora ferma sull'immagine che i suoi occhi avevano accidentalmente intercettato mentre lasciava Ravaldino.

“Un giovane davvero incantevole – cinguettava il Novacula, magnificando Astorre – Sua Signoria non avrebbe potuto scegliere un marito migliore per la figlia, non credete?”

Il cliente che era sotto il suo rasoio convenne: “Poteva andarle peggio, ve', e invece ha avuto un gran fortuna!”

“Stava a cavallo come un vero San Giorgio!” esclamò un altro cliente, mimando una postura secondo lui molto elegante.

Sfrondati registrò distrattamente quelle parole, mentre la lotta interiore che stava combattendo sembrava trascinarlo sempre più vicino a una sconfitta.

Quello che aveva visto, in realtà, non era nulla di sconvolgente, ma gli aveva aperto gli occhi e ora si rendeva conto del pericolo immenso che anche lui stava correndo a dar contro a Giacomo Feo.

Mentre lasciava la rocca, aveva deciso di fare una strada un po' più breve, ma meno sfruttata e così si era trovato a passare accanto alle stanze della Contessa.

L'ala era deserta, come la era sempre, e i suoi passi erano leggeri, per cui nessuno lo aveva sentito avanzare.

Arrivato in fondo alle scale, l'uomo aveva visto che c'erano due persone sedute su una delle panche del corridoio. Stando in un punto riparato, aveva aguzzato la vista e si era reso conto che quei due erano proprio la Contessa e il suo amante.

Per un momento si era atteso di vederli, come minimo, intenti a baciarsi, oppure di poter udire qualche frase tra loro, ottenendo così informazioni preziose.

Invece i due erano semplicemente seduti lì, l'uno accanto all'altra, in silenzio. Il Barone teneva un braccio attorno alla schiena della donna e lei stava con il capo appoggiato alla spalla di lui.

C'era un che di così intimo e incomprensibile, per l'ambasciatore, in quella scena che sentì l'impulso di tornare indietro, facendo la strada più lunga, pur di non dover passar loro davanti.

Parevano due uccelletti selvatici che, stando vicini, facevano fronte a un vento gelido di tramontana. Ovviamente in quel giugno non c'era alcun vento gelido, ma il loro atteggiamento era comunque quello. Era come se si sorreggessero e si proteggessero a vicenda contro ogni insidia del futuro, ed era palese che entrambi fossero consci dei pericoli che avrebbero corso.

A vederl lì così, nessuno avrebbe potuto dubitare della sincerità e della profondità dell'amore che li legava.

Quella muta comprensione che emanavano nello stare assieme a quel modo, muti e immoti, aveva fatto capire a Sfrondati che ammazzare il Feo non avrebbe portato a nulla di buono.

Quel dannato stalliere non era solo un amante, per la Contessa. Era molto di più.

Se il Moro credeva rendere inoffensiva la Tigre, togliendole i denti con l'uccisione dell'amante, ebbene, si stava dimenticando che le tigri hanno anche lunghi artigli, letali quanto le zanne.

“Prego.” fece il Novacula, indicando la sedia vuota a Sfondati.

L'uomo si riscosse e si sistemò dove il barbiere voleva: “Fate un bel lavoro – gli disse, parlando con distacco, ancora preda dei suoi nuovi timori – stasera sono invitato anche io al banchetto in onore di Astorre Manfredi e non voglio fare brutte figure.”

 
   
 
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