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Autore: rossella0806    21/01/2017    3 recensioni
Regno di Sardegna, gennaio 1849.
Costanza Granieri si è svegliata per l'ennesima volta spaesata e affranta: da quando si è trasferita in città, lontano dalle sue abitudini e dai suoi affetti, la notte non riesce a dormire.
L'unica cosa che desidera è ritornare alla vita di prima, nel paese di montagna che l'ha vista crescere: la sua sola consolazione risiede nella corrispondenza epistolare che intesse con la nonna materna, influente donna della comunità che ha dovuto abbandonare.
Sullo sfondo delle vicende della famiglia Granieri e dei Caccia Dominioni, in mezzo a personalità nobili e giovani rivoluzionari, va in scena la battaglia della Bicocca, combattuta nelle campagne novaresi il 23 marzo 1849, tra lo schieramento dei piemontesi e quello degli austriaci, nemici giurati di un intero popolo.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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I patti vanno rispettati fino a quando una delle controparti non si stanca e tradisce l'altra.

(Anonimo, XX secolo)


Costanza era tornata a palazzo che erano le nove passate: lei e il maestro Rossini erano passati sotto casa di Maffucci per vedere se avesse già fatto rientro a casa, ma le luci del suo elegante appartamento in corso Genova erano spente e alla porta non aveva risposto nessuno.

Lasciarono la carrozza dell'avvocato sotto la responsabilità del cocchiere tuttofare, quindi si diressero fino in corso Carlo Emanuele per noleggiare una vettura che li portasse a destinazione.
I Granieri stavano aspettando la figlia in salotto, preoccupati per la sua improvvisa sparizione di qualche ora prima: il maestro di musica l’aveva accompagnata fin dentro e si era preso l’intera responsabilità di quel ritardo, adducendo come scusa una serata trascorsa in compagnia di una baronessa sua amica.

La ragazza gli era stata riconoscente per quella prontezza di spirito, sebbene si scorgesse tutta la preoccupazione che la opprimeva riversarsi sul bel volto, pallido e dallo sguardo corrucciato.
Donna Luisa aveva sorriso come richiedevano le circostanze, tentando un debolissimo rimprovero, poi aveva abbracciato la figlia e aveva invitato Rossini a fermarsi a cena, ma egli aveva declinato l’invito con il solito sorriso enigmatico e il baciamano a cui la contessa non sapeva resistere.
Nonna Maria, seduta su una delle poltroncine di velluto verde, era l’unica che aveva intuito che ci fosse qualche cosa di grave ad impensierire la nipote, tuttavia non aveva insistito.
Costanza si scusò con i genitori e la marchesa, poi salì in camera sua per riposarsi: aveva lo stomaco chiuso e non le andava di piluccare nemmeno un tozzo di pane.
Sentiva però la necessità di confessare l’enorme segreto dell’arresto di Pietro a qualcuno, in modo da dividere quel peso, quel macigno opprimente che la angosciava, ma a chi avrebbe potuto dirlo senza temere che la zia Rosa e lo zio Aldo venissero a saperlo? Era sicura che la marchesa Mellerio avrebbe senz’altro saputo mantenere il silenzio, tuttavia non voleva caricarla di preoccupazioni, né tantomeno poteva rivelarle la verità sulla doppia vita di Pietro e sull'esistenza nascosta del gruppo di rivoluzionari.
La verità era che avrebbe tanto voluto confrontarsi con Nicolò, da giorni visibilmente più sereno, ma si convinse che non poteva turbarlo senza sapere ancora il destino che attendeva l’adorato cugino, per cui decise di lasciar perdere.
Quando incrociò il suo sguardo, sempre velato da ombre, gli sorrise automaticamente e gli strinse una mano, come a voler infondersi coraggio, poi si defilò in camera sua, dove dormì un sonno infestato da incubi e visi che si sovrapponevano.


Pietro aveva trascorso una notte incredibilmente tranquilla, senza pensieri: si era lasciato scivolare sul pavimento di terra battuta, la schiena che sfregava contro il sasso freddo ed inospitale, subito dopo che Eugenio se n’era andato.
Aveva fissato per qualche minuto il vuoto che lo circondava, quel vuoto riempito dall’asse di legno che avrebbe dovuto rappresentare il giaciglio pronto ad accoglierlo, da quel tavolaccio con le fette di pane marmorizzate accompagnate da un pezzo di formaggio e da un bicchiere di vino annacquato.
Si sentiva calmo, rilassato, come se si trovasse in una realtà parallela: alzò gli occhi azzurro ghiaccio al soffitto, cercando di incrociare il ritaglio della finestrella che si affacciava sul cielo macchiato di stelle, dove qualche uccello notturno si stava cimentando in un canto d’amore, mentre le luci prodotte dalle torce infuocate creavano disegni dai contorni sfocati sulle pareti.
Le fitte alla spalla tornarono a presentargli il conto, ma il dolore al ginocchio si era fortunatamente placato: si portò una mano su entrambe le bende che gli aveva confezionato il dottor Terzani, accarezzandole come se fosse il capo di un bambino.
Aveva la mente svuotata, la bocca asciutta e il cuore arido di sentimenti: dopo tutto il lottare che aveva fatto, le speranze che aveva riposto nella causa di Liberazione e gli uomini che aveva incontrato negli ultimi anni, da quando aveva deciso di abbracciare il movimento del gruppo di giovani rivoluzionari, ora ogni cosa gli appariva svuotata di significato.
Che senso aveva avuto battersi nell’ombra e nel silenzio? Tremava e cercava di infondersi un minimo di calore sfregandosi con vigore il braccio funzionante e parte del corpo con la mano del lato sano.
Forse, in fondo al suo cuore, neppure gli importava di morire, di essere condannato, ma non trovava giusto che passasse alla storia come un traditore ai danni della patria, perché lui amava profondamente il Regno di Sardegna e l’Italia intera: avrebbe voluto semplicemente che la sua nazione fosse libera di autogovernarsi, libera di darsi delle leggi che non venissero imposte da una potenza straniera, estranea alle abitudini e ai desideri del popolo che la abitava.
Brividi di freddo gli percorsero la schiena, facendogli battere i denti per l'inospitale temperatura del tugurio che tendeva ad abbassarsi di minuto in minuto.
Era inutile rivangare il passato, doloroso e anche da sciocchi sentimentali: non era in possesso di alcuna prova per dimostrare l'assoluta innocenza dalle accuse che gli venivano mosse, non aveva testimoni che potessero mettere una buona parola per scagionarlo, non sapeva neppure quanto tempo avrebbe dovuto rimanere chiuso lì dentro, tuttavia non si pentiva di nulla, avrebbe rifatto qualsiasi azione che lo aveva spinto a ritrovarsi in quella situazione incresciosa e surreale.
Lasciò perdere quei pensieri cupi e si alzò a fatica, zoppicando verso il tavolo che ospitava la magra cena che sarebbe stato meglio consumasse, prima che i topi godessero
del banchetto al posto suo: si sedette sullo sgabello mangiato dalle tarme e prese un pezzo di pane, sbocconcellandolo con aria indifferente, mentre i rumori degli stivali dei soldati all’esterno della cella gli facevano compagnia.
Ingoiò il cibo e il vino senza reale interesse, poi si avvicinò alle grate che lo dividevano dal corridoio lungo e stretto: si affacciò timidamente, spinto da una curiosità che non gli apparteneva, fino a quando la guardia a pochi passi da lui non lo guardò con aria torva, il fucile su una spalla e il viso butterato dal vaiolo.
Alcune risate sguaiate accompagnate da un paio di ululati umani interruppero quello scambio per nulla amichevole: forse era scoppiata una rissa tra i prigionieri dell’altra ala del sotterraneo, così Pietro ritornò sui suoi passi e si stese sul tavolaccio, raggomitolandosi in posizione fetale, e lasciandosi cullare dalle voci brutali e sconosciute a pochi metri da lui.
Quando si svegliò, erano ormai le prime luci dell’alba: le ruote dei carri e delle vetture che si snodavano lungo piazza Castello gli annunciarono il risveglio.
Un riverbero di raggi solari gli illuminò il volto e lo indusse a mettersi seduto, la schiena a pezzi e la spalla che aveva ripreso a pulsargli.
Rabbrividì, sebbene si sentisse il corpo in fiamme, come se avesse la febbre: si guardò intorno, sospirando con aria stordita, avvertendo i palmi delle mani sudati che sfregavano contro le schegge di legno marcio.
Pochi secondi dopo, la chiave nella serratura arrugginita annunciò l’arrivo del soldato che veniva a portargli una scodella con un miscuglio non meglio definito che avrebbe dovuto rappresentare la colazione, assai simile a del pane innaffiato con del latte rancido.
Il nuovo venuto gli lanciò un’occhiata di traverso, continuando a rimanere in silenzio, quindi andò a recuperare il vaso da notte e uscì per svuotarlo.
Pietro deglutì, la bocca dalla salivazione azzerata, pronto a domandargli l’orario, ma la guardia aveva già richiuso la porta della cella e si era dileguata lungo il corridoio illuminato dalle torce.
Ad occhio e croce, dovevano essere le sei, forse le sette, quindi aveva ancora un po’ di tempo per riposarsi prima che avesse inizio l’interrogatorio con il magistrato e il tenente che lo aveva arrestato il giorno prima.
Gli pareva strano pensare a quel termine: di solito, infatti, si arrestano i delinquenti, i malfattori che avevano agito contro la legge, non gli innocenti.
Dopotutto, chi poteva definire con assoluta certezza chi fossero i colpevoli e chi gli innocenti? Dio? Gli uomini e la loro giustizia, fin troppo sovente fallace? L’unica cosa che sapeva era che non voleva far preoccupare i suoi genitori, soprattutto suo padre che cominciava ad avere una certa età, e che era sempre stato così buono con lui, inculcandogli l’amore per la cultura e per la libertà politica.
Con quel pensiero, l’uomo ripiombò in un sonno profondo, fino a quando il rumore della serratura lo risvegliò nuovamente.
Il sole doveva ormai essere alto nel cielo, eppure lui avvertiva un gran freddo penetrargli nelle ossa, scuoterlo fino al midollo.
“Pietro, amico mio!”
Quella voce gli era famigliare… dove l’aveva già sentita? Ma certo, era Maffucci!
“Eugenio, cosa ci fai qui?”
Il conte si mise seduto, uno sforzo che gli costò un’immane fatica, come se avesse dovuto spostare un enorme ostacolo.
“Tra meno di un’ora ci sarà il tuo interrogatorio, te lo sei scordato?!”
Il trentenne dai baffetti gli si avvicinò con un sorriso d’incoraggiamento sulle labbra sottili, che subito si spense quando si accorse del rossore che imporporava le guance dell’altro.
Gli passò una mano sul volto e sulla fronte, scuotendo la testa contrariato.
“Ma tu scotti! Hai la febbre! Perché non hai chiamato nessuno?”
“Non è niente… devo aver preso freddo questa notte. Sto bene, davvero, non preoccuparti”
L’avvocato arretrò di qualche passo e colpì energicamente le sbarre della cella, chiamando a gran voce la guardia.
“Soldato, chiamatemi immediatamente il medico del carcere! Non vedete che il conte è febbricitante?!”
Un ragazzetto sui vent’anni, ossuto e pallido, lanciò un’occhiata distratta in direzione del prigioniero, quindi annuì senza troppa convinzione, la voce incolore.
“Aspettate, vado a chiamarlo” e si allontanò a passi cadenzati e privi di fretta verso il lato opposto.
Maffucci tornò a concentrarsi sull’amico, aiutandolo a coprirsi con la sua giacca: se la tolse e gliela infilò, abbottonandogliela con cura.
“Sta’ tranquillo, Pietro, questa sera al più tardi sarai fuori. La tua posizione sociale e le conoscenze influenti che possiamo vantare saranno sufficienti per far decadere l’accusa: ne uscirai più pulito di quando sei entrato, credimi! Anzi, se sarà necessario scriveremo al primo ministro, mi farò ricevere da lui stesso, dal re in persona, ma io non ti lascio qui dentro, te lo giuro!”
Pietro lo afferrò per un polso e gli sorrise, mentre avvertiva l’ennesimo brivido freddo accarezzargli la schiena.
“La mia coscienza è a posto, Eugenio, ed è questa la cosa più importante. Comunque vada, promettimi che continuerete a lottare: sai, quasi me ne vergogno, ma stanotte sono arrivato a chiedermi che senso avesse avuto tutto ciò che abbiamo fatto, ma adesso l’ho capito”
“Che cosa hai capito?” domandò con aria corrugata l’avvocato, sedendosi di fianco al trentenne.
“Che stiamo combattendo non solo per la nostra libertà, ma anche per quella delle generazioni future, che qualsiasi difficoltà incontreremo, ogni ostacolo apparentemente insormontabile rappresenterà un ulteriore tassello per gli anni migliori che attenderanno tutti noi…”
“Sì, va bene, però tu continuerai a lottare insieme a noi! Te lo ripeto, non ti lascerò marcire in questa cella, intesi?!”
In quel mentre, dei passi si fermarono davanti alla gattabuia, seguiti da altri passi.
“Oh, finalmente! Dottore…”
Eugenio aveva alzato la testa nella direzione dei nuovi venuti, ma subito si zittì, una rabbia crescente che si impadronì di lui.
“Che cosa ci fai qui?”
Un ragazzo vestito elegantemente, un completo blu scuro di cotone e lino e il cappello calato in testa, accennò ad un saluto con il bastone da passeggio.
“Sono venuto a trovare mio fratello, signor Maffucci”
Federico lanciò un cenno d’intesa alla guardia, il ventenne ossuto di qualche minuto prima, che gli aprì la cella e si mise da parte, in modo da lasciarlo entrare.
“Come osi presentarti? L’unico responsabile di questa situazione sei tu, eppure non hai un briciolo di umanità o di vergogna che ti impedisca di trascinarti fino a qui e di mostrare la tua sordida faccia da traditore!”
Il giovane conte abbozzò un sorriso beffardo, gli occhi scuri socchiusi a due fessure, che subito puntò contro l’avvocato.
“Non mi pare di essere in tale confidenza con voi da rivolgermi alla vostra persona dandovi del tu. O sbaglio?”
L’altro serrò la mascella, mordendosi il labbro interno e reprimendo la voglia irrefrenabile di tirargli un cazzotto.
“Comunque sia, non sono qui per parlare con voi, ma con mio fratello. Avete dunque la compiacenza di lasciarci da soli per qualche istante?”
Eugenio inspirò, incenerendolo con lo sguardo, poi lanciò un’occhiata indecisa in direzione dell’amico, che annuì, e solo allora si decise ad abbandonare la cella.
“Allora, hai trascorso una notte tranquilla?”
Federico si avvicinò a Pietro, ancora seduto sul tavolaccio, e attese che gli rispondesse, ma l’altro non disse nulla.
“Forse ti hanno fatto mancare qualcosa?” continuò imperterrito il secondogenito dei Caccia.
Non ricevendo alcun segnale da parte del fratello, accartocciò le labbra e si voltò, percorrendo con lo sguardo il perimetro del tugurio in cui erano rinchiusi.
“Credi che mi stia divertendo? Pensi che mi faccia piacere essere qui, vederti in queste condizioni a dir poco pietose? Scommetto che non sei nemmeno arrabbiato con me. Non è così?”
“So che non volevi uccidermi, e questo mi basta. Non è necessario che tu finga di avere un cuore insensibile…” si decise finalmente a ribattere Pietro, dopo un lungo sospiro.
L’altro si girò e non riuscì a trattenere un sorriso, le mani congiunte sul pomello del bastone.
“E cosa te lo fa pensare?”
“Da che mondo è mondo, i duelli si svolgono all’alba, invece tu hai deciso di batterti di sera, in una zona facilmente raggiungibile dal centro abitato; in secondo luogo, mi hai permesso di scegliere l’arma, e sapendo che non sono capace di mirare con la pistola, hai portato un’ampia scelta di spade e fioretti tra cui scegliere. E poi, sebbene hai continuato a menare fendenti a destra e a manca, hai sempre tirato di striscio, evitando di colpirmi a morte"
Fece una piccola pausa, continuando a fissare lo sguardo in quello del fratello, visibilmente in imbarazzo.
"Dopotutto, per un ex allievo della Regia Accademia Navale di Genova, non dovrebbe essere così complicato distruggere la vita di un uomo...”

Federico evitò d’incrociare i suoi occhi, preferendo camminare in lungo e in largo sul lato opposto della cella.
“No, ti sbagli. Le ferite che ti ho inferto sono state calibrate con cura: io volevo farti del male, ho visto il tuo volto sofferente quando ti ho colpito alla spalla… e vuoi sapere una cosa? Non provavo pietà mentre lo facevo, non provavo nulla”
Un ghigno appena abbozzato incurvò le labbra di entrambi gli interlocutori, quasi come se fossero l'uno lo specchio dell'altro.
“Può darsi, ma rimango convinto della mia idea”

Rabbrividì ancora una volta, la temperatura che continuava a salire, e si sistemò meglio la giacca dell’amico.
“Qualunque cosa tu creda, sono qui per proporti un patto, una sorta di alleanza che, se sei davvero intelligente come tutti hanno decantato in questi anni, non potrai rifiutare”
Pietro inspirò ed espirò per ritrovare la lucidità che avvertiva svanirgli tra le dita, mentre le tempie cominciavano a pulsargli.
“Di che si tratta?”
Federico fece dietrofront e si parò davanti al fratello: guardò poco entusiasta lo sgabello di legno davanti al tavolo su cui era abbandonata la scodella della colazione ancora intatta, quindi scosse il capo e tornò a concentrarsi sul suo interlocutore.
“Confessa, ed io ritratteró ogni accusa. Semplicemente confessa i nomi dei damerini che ti hanno spinto ad entrare nel gruppo di rivoluzionari: io lo so che ti sei lasciato coinvolgere, che non hai agito di testa tua, quindi non ti costerà nulla disfarti di qualche omuncolo e denunciarli…”
Il trentenne chinò la testa e chiuse gli occhi.
“Come puoi anche solo lontanamente pensare che mi abbassi a compiere un gesto tanto ignobile e falso?! Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto di testa mia, nessuno mi ha mai obbligato! Tu, piuttosto, perché hai lasciato che ti facessero il lavaggio del cervello? Perché sei passato dall’altra parte, tradendo tutti gli ideali che nostro padre ci ha sempre insegnato?!”
“Che ti ha insegnato, vorrai dire!” sbraitò il minore, battendo con forza la punta del bastone sul pavimento argilloso.
“Io non sono mai esistito per lui, a malapena la mamma si accorge di me! E tu ti fai degli scrupoli per dei pidocchiosi di cui a malapena conosci le facce?!”
“Non offenderli, Federico, non se lo meritano, ti chiedo solo questo…” cercò di controllarsi il ragazzo, deglutendo a fatica per la gola arsa, simile alla cartavetrata.
“Va bene, se servirà a convincerti ad aver salva la pelle, non li offenderò. In cambio, però, dimmi i nomi, e facciamola finita con questa storia: è già durata troppo, per i miei gusti”
Il giovane conte Caccia tirò fuori da una delle tasche della giacca un pezzo di carta intonso, pronto a chiamare il soldato per reclamare un calamaio e una penna d’oca.
“Se mi conosci anche solo un po’, sai bene che non mi macchierò di una tale infamia!”
“Non fare l’eroe, dannazione! Per una volta, pensa a te stesso!”
Pietro tentò di alzarsi e di avvicinarsi, ma dopo qualche passo vacillò, le orecchie che gli ronzavano, e si accontentò di puntargli addosso un indice inquisitorio.
“Ma io sto pensando a me stesso, sei tu che non hai rispetto per te, altrimenti non avresti acconsentito a questa farsa, né tantomeno ad allearti con dei mercenari al soldo del nemico!”

“Nemico?!” gridò a voce più alta Federico “chi ti dice che sono dei nemici? La tua coscienza o la gente che ti sei messo a frequentare?! Siete responsabili della morte e del ferimento di migliaia di soldati del glorioso Esercito sabaudo, avete rischiato di distruggere un’intera città, e per che cosa poi? Per creare l’ennesima Repubblica che sta martoriando il nostro Paese? Per essere eletto a capo di un triumvirato, esattamente come è accaduto a Roma?!”
Pietro stava per ribattere, esausto, quando un capogiro lo costrinse a chiudere gli occhi e ad aggrottare la fronte: si portò una mano sul viso, massaggiandosi le tempie, quindi puntò di nuovo lo sguardo sul fratello.
“Io almeno una coscienza ce l’ho, e qualsiasi cosa ho fatto o deciderò di fare, dovrò rendere conto solamente a me stesso, e non ad un branco di sgherri senza pietà e senza coraggio…”
Il più piccolo disegnò una C sul pavimento argilloso con la punta del bastone, ammirandola subdolamente.
“E Costanza? A lei non pensi?”
“Costanza non c’entra nulla in questa storia: non provare a coinvolgerla, non farlo, lei non ha alcuna colpa né responsabilità. E lo sai anche tu…” sibilò Pietro, stanco di quel teatrino e delle sciocchezze che era costretto a sentire.
Federico annuì e si sciolse in un sorrisetto beffardo, riprendendo a camminare.
“Costanza adesso è sconvolta ed è convinta della tua innocenza: ma quando verranno fornite delle prove a tuo carico, il dubbio si insinuerà nella sua testolina, un dubbio che la roderà e la farà vacillare… ma allora sarà troppo tardi, forse la sentenza sarà già stata eseguita, e tu non potrai fare più nulla per consolarla o per farle cambiare idea” concluse con tono viscido, facendo spallucce.
 “Non ci sono prove a mio carico!”
“Questo lo dici tu…”
“Non firmerò nulla, non tradirò nessuno, non mi costringerai a fare qualcosa che non voglio!”
Pietro era nuovamente scosso dalle fitte alla spalla, a cui si sommavano i brividi per la febbre che, ormai doveva rendersene conto, lo stava fiaccando.
“Guardati” cercò di convincerlo, allargando le mani per mostrargli il tugurio in cui era stato rinchiuso.
“Sei ferito, febbricitante, senza abiti decenti addosso! E sono anche certo che tu e il tuo amico avvocatuccio non avete nemmeno uno straccio di linea di difesa degna di questo nome! Insomma, che cosa ti spinge a non lasciarti andare, ad acconsentire ad accettare il patto che ti sto proponendo?! Ragiona, ragiona, e dammi i nominativi che ti salveranno la vita!”
Pietro parve rifletterci per un istante, il capo reclinato in avanti e il petto che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro affannato per le precarie condizioni di salute in cui versava.
Poi, alzò la testa e lo guardò senza timore.
“Non ti darò nulla, Federico, e non mi farò intimidire dai tuoi ricatti su Costanza. Però, permettimi di farti una supplica, di chiederti ancora una cosa, solo una: fino a quando sarà possibile, tieni nascosta la mia prigionia ai nostri genitori. Di’ loro che sono dovuto partire all’improvviso, che dovrò assentarmi per qualche tempo, inventati una scusa, ma non lasciare che soffrano per causa nostra…”
Federico sospirò e contrasse la mascella, giocherellando con l’impugnatura del bastone da passeggio.
“Se è per questo, non devi temere: ieri sera ho detto loro che sei andato fuori città per alcune questioni riguardanti le terre che nostro padre ti ha lasciato da amministrare”
Pietro annuì, esausto ma soddisfatto, desiderando di rimanere da solo per tornare a dormire e riposare le membra stanche.
“Venendo a noi: è la tua ultima risposta? Sei deciso a non collaborare?”
L’altro lo guardò con gli occhi penetranti, il rossore soffuso sul volto, mentre le tempie gli pulsavano.
“Sì, è la mia ultima risposta. E non tornerò indietro”
Il fratello abbassò lo sguardo e aggrottò un sopracciglio, quindi distorse la bocca in una smorfia di disappunto e si preparò ad abbandonare la cella.
“Addio, Pietro. Se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi”
Uscì dalla gattabuia senza voltarsi indietro, il ritmare cadenzato degli stivali e del bastone da passeggio ad accompagnarlo.

   
 
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