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Autore: Black Swallowtail    23/01/2017    0 recensioni
"Ogni giorno, ogni singola volta, la scatola attorno a me diveniva così densa ed impenetrabile da deformare il mondo esterno un po' di più, come attraverso un opaco strato di vetro che mi rimandava una distorta immagine di quel che mi circondava.
Non sono mai riuscita ad essere qualcuno, per qualcuno – come se il mio viso, il mio nome, la mia esistenza, non potessero rimanere impresse nelle loro menti."
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Azure Kuri è una studentessa incapace di formare legami con gli altri, incapace di rimanere impressa nelle loro menti. Condannata alla solitudine e ad essere una figura pallida e dimenticata, desidera ardentemente di non dover più provare nulla - nemmeno questo dolore.
L'incontro con uno strano gatto che sembra distorcere la realtà la condannerà per due anni a vivere una vita incolore e priva di emozioni, finché, un giorno, qualcuno non la chiama presso un'aula in disuso della scuola.
Questa persona che la attende le rivelerà una via d'uscita dal mondo incolore che la circonda e le mostrerà cosa c'è al di sotto della realtà, dove solo chi crede può vedere — un mondo sovrannaturale invisibile agli occhi del mondo.
Ma non a quelli di chi sceglie di credere.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Scary Monsters and Nice Spirits'
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III

To breathe, to live, to feel.

 

Nonostante abbia riposto nelle mani di Aidan la mia fiducia, pensandoci per un istante con più calma, mi rendo conto di quanto la probabilità che tutto vada secondo i piani sia flebile. La mia è una situazione complicata, fuori dalla norma, perfino per uno come lui, che si professa un esperto del sovrannaturale, capace di vedere e combattere gli esseri invisibili all'occhio umano; per sua stessa ammissione, uno spirito che avvera i desideri dell'uomo non è così raro e convincerlo, sfruttando le sue conoscenze in materia in qualche modo, sarebbe un lavoro semplice, magari anche soddisfacente, ma che non richiederebbe particolare sforzo da parte sua.

In quel caso, mi ha detto chiaramente, io sarei il tassello più importante del puzzle: lui avrebbe fatto in modo di porre lo spirito vagante in condizione di accettare la mia proposta e risolvere il problema, ma lui avrebbe esaudito la mia richiesta solo se questa fosse stata completamente onesta.

“Nessun inganno potrà raggirarlo, perché lui è in grado di vedere dentro di te limpidamente. Se provassi esitazione, anche solo per un momento, allora sarebbe stato uno sforzo inutile.”

Rileggo quel messaggio per l'ennesima volta, mordicchiandomi il labbro, cercando di mettere ordine tra i miei pensieri, pieni di domande, per la maggior parte inutili, ma che ammontano tutte ad un solo, grande quesito: come potrei dimostrare al Gatto l'onestà assoluta delle mie intenzioni, se non c'è alcuna emozione, in me, in grado di farglielo capire?

Osservo l'icona del cellulare brillare leggermente, segno che il mio interlocutore sta scrivendo, mentre lentamente mi lascio cadere sul letto con un tonfo, un sospiro di stanchezza che sfugge dalle mie labbra. Passo una mano tra i capelli, sciogliendoli dall'elastico che li trattiene e spargendoli sul cuscino; non posso fare a meno di pensare come la stanchezza fisica rimanga sempre, perfino quando quella psicologica scompare, lasciando spazio solo ad un nulla incolore e piatto. Questo sospiro meccanico è la cosa più simile ad un'espressione emotiva che abbia fatto, negli ultimi anni.

Non posso dire che mi manchi provare qualcosa. La nostalgia è un sentimento e come gli altri mi è stato risucchiato via. Eppure, per qualche ragione che non riesco a comprendere, per qualche motivo che sfugge alla mia comprensione, ieri, in quella classe buia e polverosa, lontano da tutto e da tutti, ho sentito una scintilla accendersi dentro di me, e, per un secondo, brillare debolmente nel nulla.

Quella scintilla, scoccata nel momento in cui ho sentito il mio nome, nell'esatto istante in cui mi è stata tesa, per la prima volta, una mano attraverso lo spesso strato di apatia attorno a me, mi ha dato, per un momento solo, un briciolo di vago, smorto desiderio. Proprio come quando le braci di un fuoco muoiono nella cenere… ma possono essere ancora ravvivate.

“Troveremo un modo.”

La sua risposta secca non basta di certo a soddisfare i miei dubbi, ma decido di lasciare stare, dopotutto è lui l'esperto e se mi ha assicurato di non aver mai fallito, non ho altra scelta se non credergli. Dopotutto, non c'è nessun altro a cui potermi rivolgere. Il patto è stato stretto.

Ha promesso di ricordarmi, di chiamarmi per nome. Di non dimenticarsi della mia esistenza, così che io non sparisca di nuovo nella vuotezza del mondo sterile che mi ha già assorbito una volta ed in cui cammino ancora, aggirandomi per le sue strade deserte.

“E se non si trattasse di quel tipo di spirito?”

Fino ad ora, abbiamo ragionato in termini ottimistici. Abbiamo preso in considerazione l'opzione che, in fondo, il Gatto che mi segue e che ha esaudito il mio desiderio, lo abbia fatto solo per compassione, dopo aver ascoltato la mia preghiera; ma esiste anche il secondo, ben più difficile caso. Se si trattasse di un Mefisto, la situazione sarebbe ben più ostica. In quel caso, non lascerebbe andare la presa tanto facilmente, perché significherebbe perdere potere e nutrimento.

“In quel caso, dovrò inventare qualcosa di più… persuasivo.”

Lasciando da parte il cellulare, mi accovaccio sotto le lenzuola, nel tentativo di scacciare quel pensiero pessimistico dalla mia testa. So che si tratterà di un tentativo inutile, perché semplicemente, razionale come sono costretta ad essere, non mi è possibile allontanare del tutto un'opzione come quella.

Il caldo abbraccio delle coperte è sempre stato una delle mie uniche consolazioni. Lasciando che il tepore smorzi il gelo del mio corpo, posso per un secondo sfuggire alla realtà in cui sono reclusa. Nei momenti in cui, prima di perdere le mie emozioni, mi sentivo depressa o sola, terribilmente abbandonata, divorata dal mostro che cresceva in me, curavo le mie ferite rifugiandomi nell'unico luogo sicuro che conoscessi. Erano i momenti in cui desideravo non dover più soffrire a causa di me stessa.

Ed è stato proprio quel desiderio ad annullarmi, a togliermi quel briciolo di umanità. Sono sicura di averlo desiderato con tutta me stessa. Sono sicura di aver silenziosamente chiesto a qualcuno di venirmi a salvare, strappandomi via da quelle emozioni che mi stavano affliggendo.

Qualcuno ha risposto alla mia chiamata ed ha preso su di sé il mio peso. Eppure, sto per rinnegare questo dono che mi è stato fatto. È giusto così?

Sto forse commettendo un errore di cui mi pentirò per sempre?

Il filo dei miei pensieri viene spezzato dal vibrare del mio telefono, l'ennesimo messaggio dell'unica persona che perda tempo a scrivermi. Un messaggio breve e conciso, di poche righe, “Ho preparato tutto per domani. Alle cinque di mattina, fatti trovare davanti a casa tua.”

Guardo l'orario segnato sull'angolo destro dello schermo. Qualche minuto dopo la mezzanotte; fuori, il cielo è coperto da grandi nuvole scure, nascondendo la mezzaluna, ma il vento sembra starle lentamente spazzandole via, lasciandomi intravedere qualche lontano, morente punto luminoso.

Non devo portare con me nulla di particolare, per il rituale, per cui non c'è bisogno di prepararmi in qualche modo. Posso solo attendere pazientemente l'ora prestabilita ed uscire senza fare rumore, nella notte gelida e mordente. Mi metto il cappotto, per uscire sul balconcino, nella speranza di poter lasciare scorrere il tempo il prima possibile, lasciandomi catturare dal paesaggio. Un desiderio impossibile da realizzare, perché potrei osservare per ore lo stesso luogo senza provare noia, ma allo stesso tempo, per quanto bello, non mi riuscirebbe a catturare in alcun modo. Rimarrei semplicemente immobile, a guardare qualcosa, senza alcun pensiero nella testa.

Le luci della città sono quasi tutte spente, al di là di qualche lampione e delle sparute insegne luminose dei pub aperti tutta la notte, il cui stanco riverbero emette un alone sbiadito che non illumina davvero le tenebre, ma le rischiara a malapena, in un coraggioso sforzo di combattere il buio notturno.

Una delle cose che apprezzavo della scarsità dell'illuminazione notturna, era la nitidezza con la quale le stelle sono visibili ad occhio nudo. Alzando la testa, in una limpida notte estiva, ne ho osservate talmente tante da punteggiare il cielo da un lembo all'altro.

Dicono che la luce che intravediamo la notte, sia quella emessa da stelle morenti, così lontane da noi che riusciamo a vederle solo dopo che si sono incenerite. Molte di loro non vengono nemmeno notate, spegnendosi nel silenzio.

Affondo la mano nella tasca del cappotto, estraendo il cellulare. Nessun nuovo messaggio. Se ne sta silenzioso come sempre, senza nemmeno un accenno di vibrazione; nessuno mi ha mai cercata, quindi è qualcosa a cui sono abituata, ma per una volta, sento come il bisogno di scrivere io. È un qualcosa di indefinito – non si tratta di una sensazione, ma di una specie di istinto, come un vento che mi sospinga gradualmente.

Per questo, inizio a digitare, una parola dopo l'altra.

“Probabilmente non riuscirò a dormire.”

In altri casi, avrei esitato a scrivere un messaggio del genere…

“Rimani a parlare con me.”

Uno degli aspetti positivi di questa vuotezza, è il non dover essere comandanti dai moti vorticosi del nostro animo impazzito.

“Non lasciare che mi spenga da sola.”

Probabilmente, quando avrò riacquistato le mie emozioni, morirò di vergogna rileggendo queste brevi righe. Mi pentirò anche solo di averle pensate, forse non riuscirò a guardarlo in faccia.

Ma in quel modo, capirò di essere tornata a sentire qualcosa, in fondo al mio animo di carta.

“Ricordati il mio nome.”

Il gelo delle cinque del mattino è pungente e manda formicolii lungo le mie mani, nonostante abbia indossato dei guanti; in piedi di fronte al cancello, sul marciapiede di una strada buia, sistemo la sciarpa attorno al viso, nel tentativo di scacciare gli sbuffi di vento. Mi chiudo il cancello alle spalle, con un leggero tonfo, stando bene attenta a non sbatterlo troppo forte per non lacerare il silenzio della mattina, “Come facevi a sapere dove abito?”

“Accurate ricerche sul tuo conto,” Aidan, alle mie spalle, si giustifica senza troppo impegno, liquidando quello che potrebbe essere definito stalking con una semplice, secca risposta, “Tutto pronto?” Il mio mugolio di risposta sembra essere accettabile, perché subito si mette in marcia, facendomi cenno di seguirlo.

“Dove andiamo?” chiedo, arrancando dietro di lui, tremando per i brividi di freddo.

“In un posto che ho accuratamente scelto per te. Non è troppo lontano...” indica una stradina secondaria che si dipana a partire dalla via che stiamo attraversando ora, per poi snodarsi attraverso degli alti ed anonimi condomini, proprio come se ne vedono ovunque, senza alcun particolare, “e sopratutto, è adatto allo scopo.”

Senza aggiungere altro, mi rassegno a seguirlo senza fare ulteriori domande a proposito, preferendo invece chiedergli cosa avrei dovuto fare per permettergli di compiere al meglio la caccia. Dà una pacca al gonfio zaino che porta sulle spalle, stipato fino all'orlo, quasi sul punto di scoppiare, “Non c'è molto che tu debba fare. Devi solo riuscire a comunicare le tue intenzioni al Gatto. Se tutto andrà bene...”

“E se ci sbagliassimo?”

La mia domanda a bruciapelo sembra congelarlo sul posto, facendolo irrigidire di colpo. Senza voltarsi, dopo una lunga pausa, stringe i pugni, “Cosa intendi dire?”

“—Distruggere un desiderio che ho voluto, è davvero giusto?”

“Se hai dei dubbi, possiamo smetterla qui. Se hai dei dubbi, allora vuol dire che il Gatto non ti darà ascolto.”

“Sono io che ho scelto tutto questo. È stato un mio errore.”

Si gira di scatto, afferrandomi per le spalle, e tirandomi violentemente verso di sé, “Ascoltami bene. Tutti commettiamo degli errori. Tutti siamo deboli, in alcuni momenti, e perciò cediamo, invece di combattere. È normale.” la sua presa sulle mie scapole sottili si fa più forte. Quasi disperata. “Vuoi davvero vivere così? Non avevamo stretto un patto? Non volevi tornare a provare delle emozioni? Non volevi...” stringe i denti, la sua voce si affievolisce di colpo, la sua stretta diviene più debole ed incerta, “...non volevi forse che io ti ricordassi?”

I suoi occhi, prima sbarrati, dalle pupille tremolanti, distolgono rapidamente lo sguardo da me, abbassandosi, ma riesco quasi ad intravedere, dentro di loro, per un solo istante, qualcosa. Mi lascia andare, le braccia che ricadono inermi lungo i fianchi, la voce sottile, appena udibile, quasi come un sussurro, “Se vuoi andartene, fallo ora.”

Mi sento ancorata a terra, come da un peso invisibile, tale da non riuscire a muovermi. Non mi aspettavo una reazione così, da lui, che è sempre stato così calmo, così controllato. Sento ancora le sue dita avvinghiate attorno alle spalle, in quella presa quasi disperata, e mi accorgo che le spalle sono leggermente indolenzite.

Mi ha trattenuto, con tutta quella forza, con quelle parole così violente. È possibile che questo non sia un lavoro come un altro? È possibile che, forse… “—Cosa ti è successo?” affondo le mani nelle tasche della felpa, osservando il mio respiro condensandosi in nuvolette a contatto con il freddo mordente, “Ti è successo qualcosa, vero?”

“Ti sbagli. Non è accaduto nulla. Dimentica quello che ho detto.” nasconde il viso, tornando a darmi le spalle, e da un cenno con la testa verso il fondo della stradina, del quale riesco ad intravedere un mattonato, il selciato di una piazzetta come le altre, “Siamo arrivati. Se non te la senti, se non vuoi che le cose cambino, se senti di avere dei dubbi, allora vai.”

Stringo le labbra per un secondo, prima di scuotere la testa. Ha ragione, dopotutto… quel mio desiderio, non è stato una vera scelta. È stato solo un errore. Per quanto allora desiderassi di svuotarmi, ora, per qualche ragione, è come se una parte di me si rifiutasse di continuare a portare questa vuotezza nel petto.

Eppure, è strano… perché non dovrei provare alcuna emozione.

Quegli sprazzi all'interno del mio animo, come piccole lucciole morenti che si intravedono in una notte buia, potrebbero trattarsi di semplici reminiscenze, di illusioni generate dalla mia mente. Un mio inganno, un inconscio grido d'aiuto.

Dopotutto, ora non dovrei più perdere me stessa. Ora non mi sentirei mai più un nessuno tremolante, una figura che rischia di sbiadire. Una persona tra le tante, invisibile agli occhi del mondo.

Non ora che i suoi occhi mi guardano, fissi dentro ai miei vitrei, aspettando silenziosamente che io risponda. E quale migliore risposta potrei dare, se non muovere un passo in avanti, verso di lui, verso la fine della via sulla quale stiamo immobili, come davanti ai cancelli di un luogo sconosciuto?

Aidan sospira lentamente, come se avesse trattenuto il fiato fino ad ora, prima di voltarsi e seguirmi, affiancandosi a me, quando arriviamo sul limite del luogo da lui scelto. Un luogo che non conosco, desolato e spoglio, lasciato a se stesso, ad arrugginire e deteriorarsi. Un parco giochi circondato da una bassa ringhiera consumata dal tempo, in più parti contorta e stretta dall'edera che si arrampica su di essa come un serpente, a stritolare le barre di ferro ammaccate.

Le erbacce allungano i loro steli pungenti verso l'alto, ondeggiando al placido vento della fredda mattina. Il sole ancora è nascosto dagli edifici tutt'intorno, per cui, nella semioscurità, rischiarata a malapena da qualche lampione, dalla luce debole e sbiadita, riesco a fatica ad intravedere delle costruzioni di metallo ossidato e corroso, invecchiato e sporco, scivoli di plastica rotti, altalene cigolanti che oscillano tristemente, le catene che scricchiolano, uno spiazzo dove le mattonelle sono crepate e si sono arrese ai cespugli pungenti di rovi.

Un luogo desolato, lasciato a se stesso, all'abbandono. Dimenticato da tutto e da tutti, perfino da chi un tempo vi ha giocato, o si è seduto sulle sue fatiscenti panchine dalle assi marcite. I pezzi di ferraglia abbandonati negli angoli ed i cestini rovesciati, con spazzatura rimasta impigliata nell'erba, spuntano malconci a punteggiare lo spazio che intercorre tra un gioco e l'altro; un dondolo a forma di cavallo è poggiato malinconicamente su un fianco, strappato dalla sua molla ormai troppo debole perfino per rimanere dritta, accasciata tristemente al suolo, una piramide di corda di cui è rimasta soltanto l'impalcatura, come una sorta di silenzioso monumento funebre, a troneggiare nella luce tremolante che precede l'alba.

Il cielo è ancora tinto di macchie nerastre e sfoca, lentamente, verso un biancore che a malapena si intravede all'orizzonte, oltre i tetti dei condomini e delle casette, le cui facciate rimangono impassibili, indifferenti, guardando questo cimitero di acciaio ed erbacce.

“Perché siamo qui?” chiedo, seguendo con lo sguardo Aidan che inizia a preparare gli oggetti necessari al rituale, accovacciandosi nello spiazzo che sembra relativamente sgombero dai resti delle attrazioni e dai rampicanti. “Semplicemente, credevo fosse un luogo adatto a te. Un luogo abbandonato, di cui nessuno serba più ricordo, nonostante rimanga davanti ai loro occhi. Un luogo che, tuttavia, non è sempre stato così—che prima ha conosciuto qualcosa di diverso dalla desolazione.” Apre il libro, come a seguirne le istruzioni, gli occhi che si muovono febbrilmente lungo le righe di testo; inizia poggiare a terra diversi foglietti di carta, sul quale si è premurato di incidere diverse rune, intricati simboli che ai miei occhi non hanno nessun significato, premurandosi di trattenerli con un sasso, fino a formare un reticolo che vada ad abbracciare il selciato.

“Un vecchio parco giochi che ti somiglia. È quasi buffo, vero?” scrolla le spalle, osservando il sommario lavoro che ha messo in piedi, prima di richiudere il libro con un tonfo, prima che io possa osservarne il contenuto.

Scuoto la testa, “No. Hai ragione...” lascio che i miei occhi scorrano pigramente attraverso questo luogo, prima di sedermi sul bordo dello scivolo, tirandomi le ginocchia al petto, il mento sopra di esse, per osservarlo mentre continua ad allestire questo o quell'accorgimento, premurandosi, in particolare, di poggiare un pesante drappo nero in cima al basso lampione acceso, l'unico ancora funzionante, scacciando via l'unica fonte di luce artificiale, “...Credo funzionerà.” termino in un soffio.

In questo momento, nell'ora che oscilla tra la notte e l'alba, in cui ancora si intravede una debole luna faticosamente brillare in cielo, circondata da stelle morenti, ma ugualmente ardenti, mentre si avvicina inesorabilmente il momento in cui scompariranno, con l'arrivo della prima luce in lontananza, meno di un bagliore…

In questo momento, circondata dalle rovine di un luogo lasciato a sé, senza alcuna luce, i miei occhi stanchi, tremanti, riescono a distinguere una vaga figura, nell'ombra, accanto a me, accovacciata sotto le mie scarpe da ginnastica, che mi guarda con un muso senza alcuna forma. È poco più che un'ombra pallida ed indistinta, come se fosse proiettata da un lume terribilmente fioco; non è oscura come la notte, ma appena più chiara, per cui, strizzando le pupille, si intravede appena il contorno.

Un gatto che allunga il suo viso verso di me, senza sfiorarmi, ad un soffio dal toccare le dita che ho allungato inconsciamente per toccarlo.

“—È qui.” sussurro ad Aidan. Lui annuisce, la schiena poggiata contro quella struttura, no, quell'obelisco dal quale si estendono corde strappate come tentacoli abbandonati, penzolanti. Morti.

Aidan Reiss è un ragazzo che ha rifiutato il mondo attorno a sé, proprio come ho fatto io. Ha voluto, tuttavia, combatterlo a suo modo, senza scegliere di fuggire. Dev'essere per questo che ha deciso di divenire un esperto dell'occulto, per trovare qualcosa di interessante, di diverso da ciò che gli ha procurato dolore. È necessario, per affrontare degli esseri ultraterreni, che sfuggono all'umana comprensione, perdere la razionalità ed il contatto con il mondo – altrimenti, si rischierebbe di non riuscire più ad intravederli.

Dev'essere per questo che ha scelto un luogo così desolato. Così distrutto. Così lontano dal mondo, pur essendo parte di esso. Perché è uno specchio di me, di quel che rimane di me. Così, assorta nel buio, non ho potuto fare a meno di chiedermi, cosa mi fosse accaduto. Per quale motivo nessuno avesse mai posato lo sguardo su di me o mi avesse ricordato.

Il respiro mi manca, posso sentirmi ansimare, sempre più forte, proprio come prima, come quando mi sentivo divorare dal panico e non riuscivo a respirare. Mi sembrava di soffocare, nel mezzo di un mondo che mi stava ripudiando… No. Mi stava ignorando. Perché nessuno mi ha mai volto uno sguardo? Perché nessuno mi ha mai teso una mano?

Sono domande che ho ripetuto a me stessa tanto a lungo. Ho desiderato con tutta me stessa sparire. Le cose sarebbero andate meglio così, dopotutto; nessuno avrebbe sentito la mia mancanza. Nessuno ricordava nemmeno chi fossi.

Ero un fantasma che camminava nei corridoi di una scuola, nelle strade di una città, nelle stanze di una casa.

Mi rannicchiavo e guardavo il mondo attraverso un velo tremolante e mi chiedevo perché fossi rifiutata. Cercavo rifugio dall'insensibilità, avvolgendomi in un calore che non avevo mai provato, di cui non avevo memoria.

Non potevo fare a meno di chiedermi il perché.

Perché fossi così—inesistente. Una come le altre, una persona tra le tante, senza una voce per parlare, senza un nome da chiamare.

Una senza nome… un'ombra indistinguibile dalle altre, proprio come questo gatto che mi sta accovacciato ai piedi.

“Parlagli.”

La voce di Aidan è lontana, come se provenisse da un abisso di tenebra, nonostante riesca a vederlo. Così vicino, così lontano…

“Digli come ti senti. Fagli capire cosa senti davvero.”

Sembra quasi sorridere. Ma forse è una mia impressione.

“Scommetto che capirà… come ho fatto io.”

Come si parla con un gatto? Questa è la domanda che vorrei porgli, ma so, inconsciamente, che si tratta di un quesito vuoto, privo di significato. Quello che ho davanti non è un gatto, ma uno spirito che ne ha assunto la forma, che ha sentito il mio disperato richiamo, urlato da una voce silenziosa. Esiste chi prova empatia, per me, che sono stata così sola, talmente distante da non ricordare nemmeno il calore di un briciolo di felicità, il gelo della disperazione?

Quasi avesse udito il mio richiamo, il gatto si alza in piedi, saltando sul mio grembo. Non ha peso, né consistenza apparente, eppure quando le mie dita sfiorano il suo corpo che tremola e si sfoca, come fosse un'immagine sbiadita sullo schermo di un vecchio, malconcio televisore, sento il suo pelo morbido al tocco.

Per prima cosa, vorrei davvero ringraziarlo. Nel momento più buio, quando ho desiderato solo di poter andarmene, quando credevo di essere sola, completamente sola, hai avuto pietà di me. Hai ascoltato il mio desiderio silenzioso e hai deciso di farmelo esaudire.

Vorrei dire di esserne stata felice, ma sarebbe una bugia. Dopotutto, non sentivo nulla, giusto?

Credevo che sarebbe andata bene così. Credevo che tutto sarebbe rimasto in questo modo e, fino alla fine della mia grigia esistenza, sarei rimasta immobile, ancorata al fondo di un mare senza emozione, divisa dal resto del mondo da un'increspatura talmente sottile, da stringermi come una seconda pelle.

Non ci trovavo nulla di male. Era quello che avevo desiderato.

Eppure, per un motivo che non riesco a comprendere, mi rendo conto solo ora di quanto questo dono sia stato, in realtà, un peso. Una catena stretta attorno ai miei polsi, che mi ha trattenuto, proprio come quando si chiude un uccello in una gabbia, per impedirgli di soffrire e farsi del male , scoprendo nel mondo al di fuori.

È successo qualcosa che ha acceso, in me, una fioca luce lontana, proprio come una solitaria stella nel cielo notturno o il chiarore di quest'alba che si avvicina. È successo solo un giorno fa, eppure è stato come se si fosse trattata di un'occasione che attendevo da tempo; come se avessi aspettato a lungo, senza saperlo, di trovare una crepa in questo guscio d'indifferenza.

A volte mi chiedo, perché tu abbia scelto me. Perché tu abbia teso l'orecchio ad ascoltare la mia richiesta. Avevo paura che potessi essere uno spirito malvagio ma, in fondo, non me ne importava davvero, finché non avessi più sofferto. Sono sicura che tu non avessi cattive intenzioni. Sono sicura che lo stessi facendo per me.

In fondo, hai solo esaudito la mia richiesta. Per questo, ho avuto dei dubbi. Gettare alle ortiche un desiderio è davvero giusto? Sono pronta ad abbandonare questo nulla, per tornare a sentire di nuovo qualcosa?

Non è facile ammetterlo, ma da qualche parte, forse, la mia razionalità forzata ha generato in me un surrogato di paura. I ricordi di quel che è stato persistono, non importa se le emozioni spariscono, perché riesco a ricordare tutto perfettamente – e, perciò, mi sono chiesta… sto sbagliando?

Alla fine, ho solo ottenuto quello che ho voluto.

Ci ho pensato, perché non volevo arrivare da te, tremante come una foglia, incapace di decidere e distruggere questa tua benedizione, questo tuo aiuto senza una motivazione, senza una sicurezza.

Ho riflettuto, ed ho capito che, fin dal primo momento in cui sei venuto ad aiutarmi… non ero più sola. Non ero più un fantasma invisibile, perché qualcuno mi aveva sentito.

Mi hai seguito per tutto questo tempo, senza che io lo sapessi. Aspettavi che succedesse qualcosa, vero? Era solo questione di tempo. Per questo, in fondo, ho capito che non c'è nulla da temere da te.

Forse ero davvero un fantasma, se l'unico ad avermi udito… è stato uno spirito.

Ti ringrazio. Ti ringrazio con tutta me stessa, per quel che hai fatto, per avermi udito.

Ho vissuto due anni lontana da ogni emozione. Proprio come avevo desiderato.

Non so dire se sia stato un errore.

Non so dire se me ne stia pentendo.

So solo che in questo momento—

Sento uno strano tepore.

Allungo le braccia a stringere il Gatto al mio petto. Il suo corpo inizia a divenire sempre più esitante, come se faticasse a rimanere impresso nella mia retina, ma lascia docilmente che io lo abbracci. Le sue basse, rincuoranti fusa, sembrano come un sussurro di conforto, una carezza balsamica al mio animo vibrante.

Mi dispiace tanto.

È stata dura… è stata davvero dura.

“Ma ora va tutto bene.”

I fogli runici di Aidan vengono sparpagliati via dal vento, strappati dai loro sassi. Qualche foglia secca si agita, mossa da un vento gentile, improvviso, che agita le ciocche dei miei capelli, spandendole all'aria, per un solo momento.

“Non sono più sola.”

Sorrido, accorgendomi di non stare più tenendo nulla, tra le braccia, di essere seduta, da sola, su uno scivolo. Solo aria gelida ad ascoltare il mio sussurro.

Le prime luci dell'alba illuminano debolmente le lacrime bollenti che scendono lungo le mie guance.

“Grazie di tutto. Ora ho qualcuno che si ricorda di me.

Ora non sono più una nessuno sbiadita.”

Sorrido alla figura di Aidan, assorta ad osservare la città che lentamente si sveglia. Un'alba come altre, su una città come le altre, su un parco giochi abbandonato.

“Qualcuno ricorda il mio nome.”

 

 

   
 
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