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Autore: Stella Dark Star    24/01/2017    0 recensioni
Delfina, figlia del banchiere Andrea de' Pazzi, ha solo quindici anni e nessuna vita sociale quando viene incaricata dal padre di entrare nelle grazie di Rinaldo degli Albizzi per scoprire ogni suo segreto e sapere in anticipo ogni mossa che farà in campo politico. Lei accetta con riluttanza la missione, ma ancora non sa che il destino ha in serbo per lei molto di più. Quella che doveva essere una semplice e innocente conoscenza, diventa ben presto un'appassionata storia d'amore in cui non mancano gelosie, sofferenze e punizioni. Nonostante possa contare sull'aiuto della madre Caterina (donna dal doppio volto) e della fedele serva Isabella (innamorata senza speranze di Ormanno), Delfina si ritroverà lei stessa vittima dell'inganno architettato da suo padre e vedrà i propri sogni frantumarsi uno dopo l'altro.
PS: se volete un lieto fine per i protagonisti, non dimenticate di leggere il Finale Alternativo che ho aggiunto!
Consiglio dell'autrice: leggete anche "Andrea&Lucrezia - Folle amore (da Pazzi, proprio!)" per vivere assieme ai protagonisti un amore impossibile.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo ventisei
La vigna e il sogno
 
La prigionia lo stava distruggendo giorno dopo giorno. Il suo volto era tremendamente pallido per la mancanza di sole, le guance non erano più piene come prima, e capelli e barba erano davvero poco curati. Un uomo come lui aveva bisogno di aria pura, di sole, di allenamento, perché Rinaldo era un guerriero prima che un uomo di politica e quella reclusione doveva essere peggio di una tortura per lui. Trasportata dall’emozione di rivederlo, di poterlo toccare dopo tanto tempo, non appena lui allargò le braccia in un invito io mi gettai nel suo abbraccio come un fiume sfocia nel mare. Essere stretta al suo petto, sentire il suo respiro contro il viso, le sue labbra sussurrare il mio nome più e più volte…
“Rinaldo… amore mio… amore mio…” Non riuscivo a dire nient’altro, nonostante avessi così tanto da raccontargli, nonostante avessi pensato a quel momento per settimane. Vista l’inutilità delle mie labbra per quanto riguardava la conversazione, presi la decisione di usarle per qualcosa di più utile. Assetata di lui, m’incollai alle sue labbra e diedi inizio ad una catena di baci sempre più intensi, caldi e passionali. Volevo assorbire la sua essenza come linfa vitale, dopo tanto tempo di separazione, e poco importava se la sua bocca aveva il sapore di vino di scarsa qualità. Mi fermai solo per riprendere fiato e, dal modo in cui respirava, anche lui doveva averne bisogno. Gli sfiorai la guancia con una carezza: “Povero amore mio, ti trattano in modo davvero indegno…”
Lui scosse appena il capo: “L’unica cosa di cui li rimprovero è di averti tenuta lontano da me.”
Una lacrima sfuggì dalle mie ciglia e scese velocemente lungo la guancia, mi mordicchiai un labbro per frenare il pianto imminente. Sentire parole romantiche pronunciate dalle sue labbra era un momento raro e prezioso che mi scioglieva il cuore.
Rinaldo si schiarì la voce e con il braccio indicò il giaciglio posto ad un lato della cella: “Vieni.”
Si trattava di un letto abbastanza comodo con sopra un cuscino rigonfio di piume e una bella coperta color celeste. Ci sedemmo sul bordo, Rinaldo prese le mie mani tra le sue e le accarezzò gentilmente. Ogni piccolo gesto era una prova di quanto avesse sentito la mia mancanza.
“Come sta nostro figlio? E’ cresciuto molto in questi mesi?”
Sorrisi, ero così felice che avesse chiesto del nostro bambino prima di ogni altra cosa.
“Sta crescendo così in fretta, amore. Adora far impazzire la balia gattonando per tutta la stanza e infilandosi ovunque! Credo che in inverno comincerà a muovere i primi passi. Oh Rinaldo, ti somiglia ogni giorno di più. E’ sveglio e dotato di grande furbizia e con i riccioli biondi e gli occhi sfumati di verde e blu è il tuo ritratto in miniatura.”
Contrariamente alle mie aspettative, lui sospirò con tristezza e volse lo sguardo altrove: “Non è un vantaggio per lui. Soprattutto in questa situazione.”
“Non permetterò a nessuno di fargli del male. Levante è tuo figlio, lo cresceremo con l’orgoglio Albizzi e quando tu avrai ripreso possesso del potere potrai mettere a tacere chiunque osi dire una parola scorretta contro di lui.”
Rinaldo non rispose, e anzi cambiò discorso in modo repentino: “Ormanno mi ha raccontato tutto.”
Mi mancò un battito: “Tutto?”
“E’ innamorato alla follia della piccola Gioia.”
Dunque si parlava ancora di figli. Avevo temuto che si riferisse a ciò che avevo intenzione di tenere nascosto per il resto dei miei giorni. Quel mio errore sciocco e imperdonabile.
Rinaldo, perso in pensieri, sospirò: “Avrei dovuto dirglielo. Ha quasi perso il primo anno di vita di sua figlia. E io ne sono in parte responsabile. Per castigo divino perderò il resto della vita di Levante. Non lo vedrò crescere, non sentirò le sue prime parole, non lo addestrerò a combattere con la spada, o andare a cavallo. Non lo vedrò mai diventare un uomo.”
“No, amore, non è la tua fine. Devi fidarti di me. Verrai esiliato, sarai salvo. Mio padre me lo ha promesso.”
La cosa parve incuriosirlo: “Tuo padre sta dunque prendendo le mie difese? Dopo avermi tradito?”
“Non…esattamente. Però sta seguendo una strategia per aiutarti.” Gli raccontai del nostro colloquio, cercai di spiegarmi al meglio, ma più parlavo più lui si chiudeva nei propri pensieri. Ad un certo punto mi fermai, rendendomi conto che mi stava stringendo le mani.
“Rinaldo? Mi stai ascoltando?”
Il mio richiamo lo destò dai propri pensieri, si schiarì la voce: “Sì. Sì, certo.” E di punto in bianco si sporse verso me, con quello sguardo da predatore che aveva sempre il potere di farmi impazzire.
“Non… Non vuoi ascoltare la fine del discor…?” Balbettai, mentre lui ormai era ad un soffio dalle mie labbra, tanto che il suo respiro si confuse col mio.
“L’unica cosa che voglio adesso, Delfina, sei tu.”
Una volta dissi che la nostra prima notte d’amore era stata la più bella della mia vita. Detto dalla ragazzina sciocca e inesperta qual ero, non c’era da dubitarne. Ma ora ero cresciuta, conoscevo l’amore in tutte le sue sfaccettature, conoscevo il piacere dei sensi, l’unione dei corpi e delle anime e i miei occhi erano aperti su una nuova visione della vita. Quella notte, all’interno di un’angusta cella, su di un letto appena accettabile e circondati dalle ombre della sera, io e Rinaldo ci donammo completamente l’un l’altra, senza riserve, senza domini, solo le nostre anime legate dal destino, i nostri semplici e nudi corpi avvinghiati nella danza del più appassionato amore. Le labbra di Rinaldo, oltre a baciare le mie, disegnarono degli archi perfetti sul mio corpo, lasciando poi leggère tracce umide al passaggio della lingua. Ed io gli donai piacere facendo uso dei miei capelli, lisci e morbidi fili di seta nera che sfiorarono il suo corpo come una carezza. Tra il gioco di braccia intrecciate e mani esploratrici, non mancai di memorizzare ogni piccolo particolare del suo corpo, di imprimere nella mente ogni singolo dettaglio, che fosse una curva armoniosa, un’imperfezione o semplice pelo che nessun’altro a parte me poteva sfiorare. Nella mia mente traditrice, si era ormai fatto strada il pensiero che quella sarebbe stata la nostra ultima notte d’amore e per questo mi odiai. Con le parole potevo fingere, ma come potevo farlo col mio cuore? Avevo paura. E se l’indomani lo avessero condannato a morte? E anche se gli avessero dato l’esilio, dove lo avrebbero confinato? Quando e come avrei potuto rivederlo? Quando i nostri corpi e i nostri sensi raggiunsero l’apice del piacere, compresi che sarebbe stata quella la notte più bella della mia vita, quella che non avrei mai dimenticato.
*
Stesi a riposare per riprendere le forze e con la mente intorpidita dal piacere, avendo il capo di Rinaldo appoggiato alla spalla, stavo giocando coi suoi riccioli umidi, mentre lui era intento ad accarezzare la leggera rotondità del mio ventre. Una rotondità che aveva imparato a riconoscere.
“Non merito un dono così prezioso. Forse non lo meritavo nemmeno la prima volta.” Disse con un filo di voce.
Con la mano libera andai a sfiorargli le dita, un tocco appena percettibile, poi la posai sulla sua: “Avrei voluto dirtelo, ma non mi è stato più permesso vederti.”
“Da quanto lo sai?”
“Ho iniziato a sospettarlo già prima che ti arrestassero.”
“Perciò….dovrebbe nascere in primavera.”
Si sollevò facendo pressione sul braccio libero e puntellò il gomito sul materasso. Il suo sguardo era serio e intenso.
“Se è un maschio, lo chiamerai Rinaldo, perché diventerà un guerriero e non si fermerà di fronte a nulla. Se è una femmina, la chiamerai Elena, perché un uomo per averla dovrà combattere fino a guardare in faccia la morte.”
Con la mano che prima gli accarezzava i capelli, seguii un tragitto scendendo lungo il suo orecchio, attraversando la guancia fino ad arrivare in prossimità delle sue labbra. Rinaldo sfiorò i polpastrelli con un bacio.
“Sarai tu a dargli un nome. Sarai al mio fianco dopo il parto e prenderai tra le braccia la nostra creatura, proprio come hai fatto con Levante.”
Vidi un’ombra attraversare i suoi occhi. Scosse il capo per scacciare un pensiero e si riadagiò con cautela su di me.
Non potevo sopportare che trascorresse la notte nella convinzione di essere un uomo finito. Dovevo dargli serenità, dovevo dargli speranza. A lui come a me stessa.
“Rinaldo, cos’è che ti rende felice?”
“Tu.”
“Cos’altro?”
“I miei figli. Ormanno, Levante e anche il piccolo che porti in grembo.”
Il mio tentativo sembrava funzionare, potevo andare fino in fondo. Dischiusi le labbra per porre una nuova domanda, ma lui parlò prima di me.
“E la mia vigna.”
“Vigna?”
“Si trova fuori città.”
Ci pensai qualche istante: “Ma…parli di quella dei Medici?”
Il suo corpo s’irrigidì contro il mio, la mano si chiuse improvvisamente a pugno. La sua voce divenne un ringhio rabbioso: “Che possano bruciare all’inferno quei maledetti. Quella vigna era mia! Era la mia gioia nei momenti felici e la mia consolazione in quelli bui. In questi ultimi vent’anni ho lottato nella convinzione che un giorno avrei potuto riprendermela.”
Chinai il capo per stampargli un bacio sulla fronte, le mie mani sparsero carezze sul suo corpo: “Parlami ancora della vigna, amore.”
Rinaldo rimase rigido e immobile ancora qualche istante, poi cedette al mio tocco e tornò a rilassarsi, la rabbia uscì assieme ad un sospiro. La sua voce parlò di nuovo tranquilla: “In quella vigna io ci sono cresciuto. Ho mosso lì i miei primi passi, ho assaporato i suoi frutti alla fine di ogni estate, ho corso tra le sue viti fino a perdere il fiato, ho contribuito a mantenerla rigogliosa. Fino a quando non sono stato costretto a venderla ai miei peggiori nemici.”
Un altro sospiro. La sua mano lasciò il mio ventre per risalire e sostare su un seno. Col dito indice giocò con la rosea gemma che vi spiccava, fino a quando non divenne dura. Allora mosse il capo e si sporse fino a prenderla tra le labbra. La stuzzicò un po’ con la lingua e poi la risucchiò. Soddisfatto, posò di nuovo il capo sulla mia spalla, la mano abbandonata sull’altro mio seno.
“Dopo l’arresto, ritrovandomi qui da solo e potendoti vedere solo dall’alto della torre, ho ripensato spesso alla mia vigna. E a te. E a quanto avrei voluto portarti a vederla, passeggiare con te tra le viti, tenendoti per mano. E poi fermarci e fare l’amore accarezzati dall’erba, baciati dal sole primaverile, e con il profumo della vigna a conciliare i nostri sensi.” Fece una pausa. Nella mia mente si creò facilmente quell’immagine da lui descritta, così vivida da sembrare reale. Sarebbe stato meraviglioso fare tutto questo veramente.
“Nel sogno ad occhi aperti ci sono anche altri elementi. La balia che culla il nostro ultimogenito all’ombra di un grande albero. E gli altri nostri figli che giocano sul prato o corrono attorno alla vigna. Cinque bambini, per la precisione.”
A quell’ultima frase non riuscii a trattenere una risata: “E non aggiungi, sullo sfondo, mio padre che ci guarda da una finestra di Palazzo de’ Pazzi con sguardo torvo e la testa calva dopo essersi strappato tutti i capelli per la disperazione?” Finito di dirlo, temetti che il mio scherzo fosse fuori luogo, e invece Rinaldo si mostrò complice del divertimento, ridendo a sua volta.
Avevamo appena ritrovato la calma, quando il silenzio fu rotto dal rumore di passi che si avvicinavano.
“Ho portato la cena. Se Damigella preferisce coprirsi prima che io entri…” Propose il carceriere. Per un qualche motivo io e Rinaldo scoppiammo a  ridere di nuovo, però pensammo bene di affrettarci ad indossare qualcosa mentre l’uomo sembrava temporeggiare nell’aprire la cella. Fu molto gentile a portare cibo per entrambi, peccato che la cena consistesse in uno stufato poco saporito e pezzi di pane non esattamente appena sfornati.
*
Lasciai dolcemente il mondo dei sogni percependo le labbra di Rinaldo sulla mia pelle. Impronte di baci dalla spalla fino all’incavo del collo. Molto dolce. La sera prima, dopo aver consumato il pasto, avevamo parlato ancora un po’ di noi e di progetti fantasiosi che non avremmo mai potuto realizzare in questa vita, per poi infilarci nel letto e fare l’amore per quasi tutta la notte. Rinaldo mi prese con grande passione e ardore, quasi volesse rifugiarsi dentro di me, quasi stesse cercando protezione. Probabilmente lo voleva davvero. Ciò di cui avevo bisogno io era di sentirmi completa, parte di lui, di sapere che eravamo un’unica cosa indivisibile. Era una necessità. Poi, esausti, ci concedemmo qualche ora di sonno e…
“E’ già mattina?” Chiesi allarmata, sollevandomi di scatto dal cuscino.
Rinaldo, già col braccio attorno alla mia vita, mi strinse più forte a sé: “Calmati. E’ solo l’aurora.”
Purtroppo ottenne l’effetto contrario, infatti mi agitai a tal punto da sfuggire al suo abbraccio: “Il che significa che presto verranno a prenderti. E verrà emessa la sentenza. Oh mio Dio.”
Rinaldo si mise in posizione seduta e mi obbligò a guardarlo negli occhi: “Devi essere forte, Delfina. Qualunque cosa accada, tu devi pensare ai nostri figli, non a me. Hai capito?”
Feci dei cenni col capo, se avessi risposto sarei scoppiata a piangere.
“Bene. Ora vestiamoci. Devi lasciare la torre prima che arrivi qualcuno.” Tagliò corti lui, quindi si alzò dal letto per dare il buon esempio. Si vestì velocemente, al contrario di me che invece ero tutta un tremore e non riuscivo nemmeno ad infilare le maniche della sottoveste. Alla fine fu lui a vestirmi.
In ultimo mi avvolse nel mantello e, mentre chiudeva il gancio, gridò: “Carceriere.”
Il fiume di lacrime straripò dai miei occhi: “No! Non posso lasciarti così. Non ora.”
“Non c’è più tempo. Devi andartene subito.”
Un singhiozzo riecheggiò nella cella e solo dopo riuscii a parlare ancora: “Voglio restare con te. Come posso lasciarti solo in mezzo a quel branco di lupi?”
Il carceriere arrivò di fronte alla cella, scambiò un’occhiata con lui. Rinaldo si affrettò a convincermi: “Hai detto che mi daranno l’esilio, allora perché hai paura?” Mi afferrò alle spalle e puntò il suo sguardo intenso su di me: “Non cedere adesso, Delfina. Fallo per me. Io non abbasserò la testa, qualunque sia la sentenza.”
Feci un cenno col capo e cercai di inghiottire le lacrime. Rinaldo allora mi avvolse in un delicato abbraccio. La sua voce un sussurro al mio orecchio: “Prega per me, Delfina. Prega con tutta l’anima.” Scostò il viso e lo fece scivolare sul mio. Lentamente e con dolcezza posò le labbra sulle mie. Un bacio semplice e caldo, il suo respiro fremente contro la mia guancia. Avrei voluto che il tempo si fermasse in quell’istante.
Avevo ancora gli occhi chiusi quando mi lasciò andare. Come da regola, doveva retrocedere affinché il carceriere potesse aprire la cella. Seppur a malincuore, le nostre mani dovettero separarsi. Però lo fecero lentamente, restando a contatto fino all’ultimo momento, fino a far scivolare l’ultimo polpastrello sull’altro. Riaprii gli occhi, incontrai i suoi. Il rumore della chiave nella serratura mi ferì l’udito. Senza voltarmi, feci due passi all’indietro e mi ritrovai fuori dalla cella. Il carceriere richiuse in tutta fretta, per precauzione. Quando Rinaldo si fece avanti io sollevai le mani sulle sbarre, per poterlo toccare, ma lui rimase a distanza sufficiente per impedirmelo.
“Ormanno verrà da te dopo la sentenza.”
“Va bene.” La voce continuava a tremare anche se avevo smesso di piangere.
“Il cappuccio.” Mi consigliò, accennando un sorriso.
Mi calai il cappuccio sulla fronte, obbediente.
“Ci rivedremo, amore mio.” La sua voce ferma per infondermi coraggio.
Lo aveva detto anche l’ultima volta e l’attesa mi aveva quasi fatta impazzire.
“Ti amo, Rinaldo.”
Lui dischiuse le labbra per rispondere, poi ci ripensò. Disse solo: “Te lo dirò al nostro prossimo incontro.”
Aggrappandomi a quella speranza, mi allontanai dalla cella e mi diressi verso la scalinata.
  
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